Lo confesso, mi piace far dell’ironia. In un certo senso dovrei dedurne che mi piace mentire. “Non vedo l’ora” vuol dire che non ne ho voglia, e se tutto va male dico “perfetto!”. Ma in questi casi la bugia si denuncia da sé. L’inversione di senso traspare dalla mimica, dal tono della voce, dal contesto. Dunque, mento sapendo di non mentire.
Ci si potrebbe chiedere quale sia lo scopo di questa modalità di linguaggio. Forse contraddire una realtà sgradita – esterna o interna – dichiarando l’opposto. È anche un modo per dissimulare uno stato d’animo o un pensiero e renderli, in teoria, disarmanti. L’ironia può ferire conservando un’apparente innocenza. La vittima di un giudizio ironico non può adire le vie di fatto perché l’offesa nasce dalla sua interpretazione e non dalle nostre parole.
Se dicessimo sempre quello che pensiamo, ci troveremmo in uno stato di conflittualità quasi perenne. Tra il covare un muto rancore, l’aggredire apertamente o il mentire spudoratamente, l’ironia rappresenta una quarta via percorribile. Fornisce una valvola di sfogo. Ci consente di addolcire una frustrazione o di liquidare in modo prudente la nostra aggressività. Purtroppo, a farne le spese sono talvolta le persone che amiamo. Perché anche le migliori relazioni nascondono un’ambivalenza sentimentale, e l’ironia aiuta l’amore a convivere con l’ombra dell’insofferenza.
A volte l’ironia surroga una violenza che non possiamo manifestare direttamente senza esporci a gravi rischi. Per esempio, se mi chiedessero la mia opinione sulla regia del Macbeth appena messo in scena alla Scala, direi che l’ho trovata geniale, raffinata, originale, rivelatrice di inesplorate potenzialità dell’opera, e che sono grato al regista per aver saputo riavvicinare linguaggi ormai anacronistici alla sensibilità di un pubblico moderno.
Non posso certo dire: oscena mostruosità, vomito di idiozie, tentativo di cancellare una cultura e i suoi valori, esibizione di una banalità e povertà di pensiero che addolora e offende. Dire che alla vista di quello scempio il mio cuore verdiano sanguinava fiumi purpurei di sdegno e ribrezzo; che la mia mente era invasa da fantasie sadiche, in cui uccidevo il regista nei modi più atroci – sciogliendolo nell’acido cloridrico, impalandolo lentamente. Desideri turpi, moralmente indifendibili, di cui dovrei vergognarmi.
Ma un franco, esplicito dissenso intellettuale mi è interdetto e mi espone a ritorsioni. Il regista appartiene infatti a una specie antropologica protetta. Non perché sia a rischio di estinzione. Anzi è a rischio di espansione geometrica. Ma per qualche oscura ragione questo tipo di ‘variabile naturale’ gode nella nostra cultura di particolari privilegi, tra cui quello di non poter esser criticato.
Si dirà che Macbeth doveva morire comunque alla fine dell’opera. Ma, con una certa impazienza, lo si è ammazzato subito, fin dal Preludio. È bastato fargli fumare una sigaretta. Nel mio mondo ideale per tale crimine ci sarebbe la pena di morte. Noi invece paghiamo qualcuno profumatamente, come un sicario, perché “faccia fuori” Macbeth. Ottimo lavoro. Il cadavere era irriconoscibile. Passerà del tempo prima che qualcuno capisca che era Macbeth.
Posso dunque assistere ammutolito e impotente allo strazio della bellezza, sperando che Macbeth tenga fede alla sua reputazione maledetta e rechi sciagura al boia, ai complici e agli spettatori compiacenti. O stemperare la pesantezza del cuore facendo scivolare il mondo sulla buccia di banana dell’ironia. Insinuarmi tra le file dell’élite borghese, dei ‘patrioti’ mascherati che dopo aver lungamente applaudito la Dittatura si girano ad applaudire l’assassino di Verdi. E ricordando Groucho, dire loro: “signori, può essere che costui sembri un idiota e agisca come un idiota, ma non lasciatevi ingannare, costui è veramente un idiota!”.
Magra soddisfazione. Del resto, è assurdo sperare che un semplice capovolgimento di senso possa rovesciare i fondamentali equilibri del Potere. La sua pelle coriacea non ha nulla da temere dagli spilli dell’ironia. Anzi, chi comanda sa bene che il riso può essere un innocuo canale di scolo del malcontento, e che conviene lasciarlo aperto (tale compito è spesso demandato a giullari autorizzati).
Alla fine, il castigo dell’ironia è l’ironia stessa. Dopo aver capovolto i concetti, l’ironico si rende conto che le sue facezie sono impotenti sbuffi di spirito, condannati a un rapido oblio. Inutile metter le idee al rovescio per indurre gli altri a raddrizzarle, per mostrar loro l’idiozia di ciò che sembra intelligente, la bruttezza di quel che sembra bello, la falsità di quel che sembra vero, o la natura ridicola della nostra ostentata serietà.
L’ironia deve dunque rassegnarsi. Possiamo al massimo sorridere dei gioghi che la società ci carica sul collo, dei conformismi e dei meccanismi coatti, mettendoli gambe all’aria. O ribaltarci noi stessi, coi nostri vizi, per scuoterci di dosso un po’ di polvere e fango. Si ruota il senso delle parole, ci si libera dalla routine del linguaggio e si cammina sulle mani, come saltimbanchi. Questo esercizio della mente può esser talvolta salutare.
Eppure, v’è nell’ironia qualcosa di biasimevole. Come una sorta di dispepsia, di acidità dell’anima; una malevolenza inibita o una velleitaria ribellione. Il punto è che la società ci spinge a barattare il piacere con la sicurezza. Come una gabbia in cui sei chiuso ma protetto. Qualcuno cerca di rompere la gabbia, qualcun altro si appaga di rovesciarla metaforicamente, con un nonsense, una battuta ironica.
L’ironia è dunque una rivolta sterile, ripiegata su di sé come riflesso bilioso. Mentre sbertuccia le cose, le lascia come sono. Anzi, per ironia della sorte, diviene funzionale al sistema che contesta, favorisce la conservazione dello status quo. Si fa anch’essa conformismo, tic, reiterazione di uno schema. Diviene infine nichilismo, perché delegittima ogni discorso e svuota di senso la realtà.
Sbaglia quindi chi vede nell’ironia il vestibolo di passioni rivoluzionarie e sovversive. C’è in lei un desiderio, ma senza la forza di realizzarlo. È una paralisi, perché riduce la realtà a finzione, rimuovendo a priori la necessità di agire. È un atto mancato. Deluso dalla realtà e dai suoi linguaggi, l’ironico ha la pretesa di creare una realtà parallela, autonoma, in cui significanti e significati si scollano. Mentre afferma una cosa dice il contrario. Mette così in crisi la funzione del linguaggio come insieme di segni credibili. Mostra la vulnerabilità di ogni rappresentazione mediata dalle parole e dai concetti.
Ma proprio per questo l’ironia potrebbe avere oggi una funzione maieutica, passando da vizio privato a pubblica virtù. Difatti, la comunicazione politica, mediatica etc. è oggi espressione di una sistematica – e ai più inavvertita – ironia. Per distinguere il vero dal falso dovremmo negare ciò che il cosiddetto mainstream afferma e affermare ciò che nega, rovesciando il senso dei suoi messaggi. Finiamo invece col prendere il rovescio per il dritto e viceversa, vittime di una tragica inversione cognitiva. Ristabilire il corretto ordine delle cose dipende quindi dall’esercizio di una continua ironia, terapeutica e omeopatica.
Il rischio è tuttavia quello di combattere la menzogna con le sue stesse armi: la dissimulazione e la finzione. Usando gli strumenti dell’ironia – o della satira, del sarcasmo – non solo non cambiamo le cose ma stabiliamo una sorta di connivenza col male. Citando Carlyle: “Il sarcasmo è il linguaggio del diavolo: per questo da molto tempo vi ho praticamente rinunciato”. Il sarcasmo lacera la carne, come quell’immonda regia. L’ironia è un peccato minore. Al massimo graffia l’epidermide. Ma in lei resta qualcosa di impuro.
Se cercate nelle parole dei vari fondatori di religioni, non trovate alcuna concessione a queste forme di linguaggio. Non c’è ironia nei profeti, nei santi, nei leader spirituali. Sono uomini che dicono pane al pane e vino al vino. Chi ponga le basi di una civiltà etica deve rispettare l’ordine di un parlare serio, sincero, fatto di sì e di no senza ombre, perché “il di più viene dal maligno”.
Se Cristo avesse usato contro i farisei epiteti ironici, qualcuno avrebbe sorriso, qualcuno avrebbe forse rintuzzato, ma ognuno avrebbe seguitato a fare i propri affari come prima. Invece li chiamò “razza di vipere, sepolcri imbiancati”. Chiamò la cricca dei mercanti “spelonca di ladri e assassini”, e menò sferzate reali, non frecciatine ironiche. A dimostrazione che la verità non è una freddura ma un fuoco, una passione bruciante in cui non c’è posto per la dissimulazione.
L’ironia non accende alcuna fiamma. “Mi sforzo di parlare sempre senza ironia. So bene che l’ironia non ha mai toccato il cuore di nessuno”, scrive Bernanos. Se vogliamo cambiare qualcosa dobbiamo toccare il cuore dell’uomo, non la sua mente o il suo sense of humor. Al cuore non serve un’amara e inutile ironia. Vuole “pietà, rispetto, amore”. Tutto ciò che è stato negato a quel povero Macbeth.
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