Da questa allusione alla specie si deduce che Manzoni si riferisca all’atto genitale, ovvero che per ‘amore’ intenda quell’appetito carnale che sempre si legge in filigrana dietro gli sfoghi passionali, gli aneliti sentimentali, le estasi e i tormenti degli amanti. Quel “genio della specie”, come direbbe Schopenhauer, che usa gli individui e provoca in loro le alte maree del desiderio, gli incanti del bello, con l’unico scopo di perpetuare e migliorare una serie di caratteri genetici. Volontà oscura e impersonale cui a volte ci si abbandona, cui a volte si oppone inutilmente la propria volontà.
Sembra che questo ipotetico genio ricorra a ogni sorta di stratagemmi e di imbrogli per ingannare la coscienza, gabbare l’intelligenza, aggirare il buon senso, impedire al cervello di interferire coi suoi piani procreativi. Perciò getta esche cui gli individui abboccano, li avviluppa con fumi ipnotici, li irretisce con carezzevoli sogni e, quando ha raggiunto il suo scopo, li lascia al loro destino. Sembra esservi quindi un’insanabile contraddizione tra gli interessi e i moventi dell’individuo e quelli della specie, alla quale nulla importa del nostro benessere.
Ma questa è una visione semplicistica e in fondo assurda. Un passo assai breve separa il fantomatico ‘genio’ e le sue astuzie dal diavolo e dalle sue tentazioni lussuriose. In compenso, il suo carattere biologico, naturale e scientifico, ci assolve da quel senso di colpa e di peccato che nella nostra tradizione è stigma dell’amore fisico. E in effetti, la comprensione delle pulsioni inconsce, delle pressioni ormonali etc., ha determinato un radicale ripensamento della morale sessuale.
Il problema di un’etica del sesso viene oggi risolto con un’eulogia del desiderio, l’esaltazione del piacere, uno zuccheroso panegirico dell’amore tout court, lasciando che questo termine venerabile scolori in un campo semantico vasto e imprecisato. Questo tuttavia non ci ha ancora del tutto emancipati da una tradizione letteraria che ha cristallizzato in noi il pregiudizio dell’amore romantico, vissuto da esseri inquieti che cercano di liberarsi da un matrimonio infelice o che ne sognano uno felice.
Si sa, vita e letteratura si copiano vicendevolmente. In tal senso, oggi la vita è certo fonte di nuova ispirazione letteraria, creando più moderni stereotipi dell’amore e concedendo a coppie un tempo aborrite il dubbio privilegio di sposarsi. E non si può escludere che in futuro, oltre a matrimoni omosessuali, celebreremo imenei tra adulti e bambini, tra umani e animali o piante ornamentali. Scopo della nostra società non è del resto proporre un’idea plausibile dell’amore, ma renderlo coerente con un ordine borghese, con gli scopi della produttività e della proprietà privata.
Solo la Chiesa difende ancora forme reazionarie di matrimonio. Si rifiuta di avallare unioni che considera contrarie al disegno di Dio. Qualcuno potrebbe trovare più giusto offrire a ogni coppia, per quanto eteroclita, l’opportunità di convolare a nozze religiose. Non perché il matrimonio agisca da remedium concupiscentiae – “meglio sposarsi che ardere” come dice san Paolo – ma perché la misteriosa magia sacramentale sembra trasformare l’atto genitale, che al di fuori del matrimonio è immondo e bestiale, in atto lecito, persino benedetto. Ma se anche la liturgia può santificare l’unione della carne, questo potere ha evidentemente un limite, e non può raddrizzare ciò che per sua natura è storto. Del resto, guardando la miseria di tanti matrimoni, potremmo dubitare della loro santità e trovarci qualcosa di più basso e meschino della naturale bestialità.
Si può notare qui uno strano paradosso. Alla Chiesa non riesce (benché a volte si sforza, finga) di riconoscere alla sessualità in sé una sanità morale, e non sa bene come prenderla. Perché, se da un lato vi vede l’istinto belluino, la tentazione demoniaca, dall’altro deve ammettere che è ubbidienza a un ordine divino. Non può, come certe sette gnostiche, considerare peccaminoso anche il procreare. Si dibatte quindi in una contraddizione senza poterne uscire, senza capire dove finisce l’ubbidienza e comincia la tentazione. Sta indecisa, come Ercole al bivio, tra vizio e virtù. Perciò ha nei confronti del sesso un atteggiamento strabico, di compromesso tra il dovere e il piacere, la colpa e la necessità.
Del resto, tutti finiamo sempre col maneggiar le parole e le idee più che realtà concrete. Ci preme notomizzare l’esperienza, chiuderla in categorie e scatole concettuali. Philein, eros, agape. Ma i confini netti in amore sono astrazioni. Persino la distinzione tra i sessi è problematica. Basandoci su caratteri anatomo-fisiologici chiaramente differenti potremmo eludere la difficoltà: il maschio ha un apparato genitale che produce il seme, la femmina l’uovo.
Da questo fondamentale dualismo di compiti e di ruoli nell’ambito della funzione riproduttiva, ossia nella vita, potremmo trarre plausibili analogie psicologiche. Il seme è attivo, deve muoversi, proiettarsi all’esterno, penetrare, competere con altri simili. L’ovulo è più passivo, stazionario, attende, accoglie in sé. Tuttavia, nel passaggio dal biologico allo psichico i caratteri sessuali subiscono un tale stratificarsi di sensi che risulta difficile vedervi una dicotomia, una soluzione di continuità.
Si forma uno spettro di combinazioni psicologiche, che va dall’assoluta mascolinità all’assoluta femminilità – estremi puramente teorici – attraverso una gamma di gradazioni intermedie praticamente infinite. Questa con-fusione di caratteri è plausibile supponendo nel Sé un’originaria natura androgina. L’essere, proiettandosi nella vita cosmica, si dividerebbe, creando una dialettica sessuale. Allora, le stesse strutture biologiche sarebbero la manifestazione grossolana di piani sottili e metafisici.
Sarebbe interessante capire se, realizzando interiormente la nostra natura androgina – e ammesso che ciò sia possibile – si esaurisca in noi il bisogno di un amore sessuale. L’esperienza, la tradizione ascetica sembrano avvalorare questa ipotesi. Alcuni cercano di ottenere questa ipotetica autosufficienza con la brutale repressione del desiderio, dei pensieri e degli atti carnali, con mortificazioni innaturali. Tuttavia, quando non nasce da una sincera vocazione alla solitudine, al monadismo dello spirito, è più comune che tale rinuncia degeneri in forme ossessive e morbose.
Sta di fatto che troviamo in ogni individuo una compresenza di aspetti femminili e maschili. Un essere di sesso opposto abita in noi. La relazione tra due individui è quindi quadripartita. Il maschile dell’uomo interagisce col femminile della donna e viceversa, il maschile della donna interagisce col femminile dell’uomo e viceversa. A mio avviso occorre però notare nelle relazioni sessuali altri due caratteri essenziali. Uno infantile (che cerca nell’amore nutrimento, calore e protezione), l’altro materno (che trova soddisfazione nel nutrire, proteggere etc.).
Retaggi di un’ideale simbiosi, di quel mutuo e perfetto adattamento che alcuni utopicamente cercano nelle relazioni mature. Anch’essi convivono in uno stesso individuo e si confondono con i suoi caratteri maschili e femminili, dando vita a innumerevoli combinazioni e sfumature, rendendo la dimensione psicologica dell’amore molto più articolata di quella puramente biologica.
In questo senso, è motivo di confusione assimilare amore fisiologico, sessuale o sentimentale. Il primo si manifesta nell’impulso all’atto carnale necessario alla procreazione. Il secondo si esprime nel desiderio di una reintegrazione androgina, nell’unione di maschile e femminile. Il terzo si nutre di vincoli d’affetto e tenerezza. Benché possano trovarsi uniti, non distinguere questi aspetti genera numerosi e fondamentali equivoci.
Ad esempio, molti trovano una necessaria corrispondenza tra atto genitale e sessualità, equiparando la copula fisica all’unione sessuale. Vi sono invece atti genitali sprovvisti di carattere sessuale e atti sessuali casti, senza desiderio genitale (per inciso, si può osservare come nella relazione carnale vi sia raramente un’unione. Più spesso scatena forze divisive, si consuma in usuranti antinomie: odi et amo … et excrucior).
La confusione tra amore genitale-fisiologico e amore sessuale diventa palese nell’uso del termine ‘omosessuale’. I rapporti tra individui di un unico sesso, difettando di un’essenziale polarità, contraddicono infatti i presupposti sessuali. Possono al massimo approdare a relazioni genitali e sentimentali, o essere evocazione di fantasmi, come nell’autoerotismo.
Di fatto, anche in contesti affatto diversi, può accadere che si usi la genitalità per simulare un rapporto sessuale. Ora, dato che l’atto genitale è subordinato alla procreazione e i rapporti tra persone di ugual sesso sono inevitabilmente sterili, tali relazioni sembrano rappresentare a priori un vuoto nonsenso. Solo l’afflato sentimentale può dunque conferir loro un certo carattere ontologico.
Per altro, va considerata l’incompatibilità del narcisismo – la riduzione dell’altro a specchio che spesso caratterizza queste unioni – con il senso dialogico della sessualità. Tuttavia, questi ovvi rilievi vanno integrati con alcune considerazioni e correzioni. La genitalità, nell’essere umano, s’è infatti emancipata dalla mera finalità riproduttiva, esprimendo valori autonomi di piacere fisico ed estetico.
Nell’atto genitale e nell’orgasmo, indipendentemente dai loro contenuti sessuali o affettivi, si manifesta una dilatazione della coscienza, una stimolazione di energie psichiche che trascende la fisicità e che non si può bollare e liquidare moralisticamente come “peccato della carne”. È in fondo la forma più elementare e accessibile di estasi che l’uomo conosca. E prima o poi bisognerà pur cogliere anche nell’effervescenza dei sensi un soffio divino, il riflesso di realtà metafisiche.
Inoltre, bisogna ammettere che il maschile di un uomo possa dialogare col femminile di un altro (o il femminile di una donna col maschile di un’altra) e quindi riconoscervi una giacenza di larvata sessualità. Ne può scaturire quel sentimento d’intima amicizia di cui la poesia e la letteratura ci offrono copiosi e a volte toccanti esempi. Legami adolescenziali, colorati talora di un erotismo inibito e dissimulato, com’è di certo lirismo vittoriano, o esplicitamente genitali, com’era nella pederastia greca.
È una sessualità acerba o abortita, impotente a produrre quella riunificazione dei principi cui l’individuo è chiamato e che è possibile solo nell’unione matura tra uomo e donna. Va però ricordato che i legami erotici tra uomini non sono necessariamente indice di effeminatezza e decadenza morale, sintomo di personalità blese, eccentriche o vanesie, mollezze da dandies. Se così fosse, non potremmo ritrovarli tra i soldati tebani del “Battaglione sacro”, né capire come fieri samurai potessero associarli a caratteri di forza, nobiltà e virilità, integrarli nella “via del guerriero”.
Nell’Hagakure – che riassume quest’etica marziale – è detto solo che il samurai non può servire due padroni, quindi, non può amare uomini e donne. Il suo amore non ammette confusione, ubbidisce alla volontà, a una franca decisione. Occorre quindi valutare queste relazioni con rispetto e critica spregiudicatezza, senza appiattirsi nei banali cliché. Ognuno ha la sua via, e sarebbe arrogante stabilire in quali forme e categorie l’amore vada collocato. Si può amare profondamente un lavoro, un’arte, un ideale, un luogo, un animale, qualsiasi cosa.
L’amore è vasto e insondabile. Rifiuta gli schemi, i luoghi comuni. Ed è un vero peccato che spiriti in altri campi audaci quando discutono di sessualità si facciano timidi, retrivi e conformisti. In ogni caso, non se ne afferra mai che un lembo, un frammento. Anche quello che ne dico qui è semplice congettura. L’amore è un mistero e come tale va accettato, non spiegato. Non puoi neppure dire se vada cercando la felicità o il dolore. Forse cerca sé stesso.
Poesie, romanzi, melodrammi, sembrano fare dell’amore erotico il succo della vita, realizzazione del più profondo desiderio umano. Tranne poi ribaltare l’assunto e mostrarci passioni dai destini calamitosi e tragici. “Amore crudele, a che non spingi i cuori umani!” esclama Virgilio. Come l’amor fou del cavaliere des Grieux per Manon Lescaut, che trascina gli amanti in un gorgo di sventure sempre più nero e profondo. Come le innumerevoli storie in cui amore e morte s’abbracciano in un vincolo misterioso e inscindibile.
Gli idilli sereni son sempre troppo brevi e fragili, e se su di loro non incombe la tempesta, pesa la nube della monotonia, della sazietà annoiata, della disillusione o del rimpianto. Ma se l’amore tanto spesso cade nella tristezza o nel disgusto dipende anche da un ordine sociale che inconsciamente interiorizziamo, retto da rigidi protocolli d’onore, da una moralità ipocrita, dal giudizio degli altri, dalle convenienze e dai valori borghesi dell’appropriazione, della sicurezza economica, del possesso geloso. Così, società e religione si chiudono a tenaglia sulle aspirazioni del cuore, gli impongono schemi consunti e ingrati. E infine l’uomo stesso teme la libertà che l’amore gli offre.
«Ama e poi fa’ ciò che vuoi», dice Agostino. L’amore, infatti, rende liberi. La stessa servitù volontaria, in amore, è una forma di liberazione, perché ci salva dalla tirannia del nostro ego. Ma Chiesa e Stato pensano che la libertà vada regolata da norme precise, da una rigorosa segnaletica, insomma che non debba esser libera. Temono quella gratuità dell’amore e quella sua insofferenza alle regole che potrebbero far crollare la nostra civiltà borghese come il tempio addosso ai filistei.
Così, la nostra cultura ha teorizzato per secoli due soli sbocchi legittimi alla sessualità: il matrimonio e l’astinenza. L’alternativa era la depravazione. Ribellandosi a tale angusta prospettiva molti hanno scelto la depravazione. Hanno confuso la libertà sessuale con la promiscuità, con la possibilità di dar sfogo a istinti genitali che portano sempre più lontano da una vera esperienza del mistero sessuale, determinando schiavitù peggiori di quelle prodotte da pastoie morali o religiose.
Ne abbiamo un esempio nel libertinaggio settecentesco, questa tipica reazione illuministica che all’amore passionale preferisce l’amore fatto di freddi calcoli e strategie (le Liaisons dangereuses!), che riduce la seduzione ad attività venatoria, l’amore a lusinga e fatua apparenza, gioco sociale e accumulo, com’è logico sia in una società avviata alla rivoluzione borghese. Erotismo vitreo e razionale, teso solo alla soddisfazione dell’appetito e della vanità, che si esprime nei modi galanti e involuti d’una nobiltà in decomposizione, o nei deliri sadici del Divin Marchese. E che poi inesorabilmente precipita nella dissolutezza greve, nella radicale perdita del limite, in una disfatta babele di sensi e di sentimenti.
Si arriva così, oggi, alla totale confusione dei linguaggi e dei codici d’amore. Maschile e femminile appaiono ormai i fossili di un ancien régime. Genitale o sessuale, sano o pervertito, effimero o eterno, l’amore affonda in una molle gelatina. Ogni epistemologia dell’amore è bandita, cassata ogni ricerca di significato: all you need is love. Basta tergiversare sui generi, basta ambagi, andiamo dritti al cuore! Così, di quest’amore proteiforme non ve n’ha oggi seicento volte troppo, ma un eccesso incalcolabile.
Amore infestante, che dappertutto si attacca e si arrampica. Incosciente confusione, superficiale retorica di sensi e di emozioni. Fa rimpiangere quell’amore segreto, inconfessato, che secondo l’Hagakure è l’amore supremo. Oggi invece l’amore è esibito, ostentato, esagerato, rivendicato come un diritto, ridotto a pornografia del desiderio. «Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno … la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il sacrificio di sé stesso». Vien da proporre un lungo digiuno d’amore, un’astinenza che ripulisca i canali dell’anima, incatramati da questa sostanza appiccicosa.
Se rinunciassimo a rimestare nel torbido, restassimo silenziosamente immobili a lasciar che questa melma depositi sul fondo della coscienza, che l’acqua schiarisca, potremmo forse tornare a rispecchiarci nell’amore. Vedremmo come esso fiorisce attraverso le vicissitudini affettive o sessuali, come maturando dà frutti di devozione e sacrificio. Qualcuno lo capisce solo invecchiando, quando il sangue rallenta il suo corso e le passioni sublimano. Ma l’amore non si fa spirituale per debolezza o stanchezza. È un’illuminazione senza età.
Quando Cristo, rispondendo alle obiezioni e ai cavilli dei giudei, dice che i risorti “erunt sicut angeli Dei”, intende forse un’angelica castrazione? Io penso piuttosto che questo amore angelicato, il “farsi eunuchi per il Regno”, non annulli le pulsioni ma le liberi dalla pesantezza della materia. Non è una pura oblatività, perché conserva in sé il desiderio e la ricerca del piacere. Né una compassione universale o un generico amore del prossimo, ché anzi stimola un perfezionamento di affinità elettive e di intime corrispondenze. Non è neppure platonismo, perché non fa dell’altro un semplice mezzo, negandogli ogni trascendenza, condannandolo alla funzione di piolo di una scala su cui salire per giungere all’Ideale.
Approdo dell’amore spirituale non è un Bello astratto ma un Tu personale, conficcato così profondamente nell’anima che neppure la morte ce ne può separare. Pegno di felicità, riflesso della beatitudine da cui l’universo nasce, libero e impetuoso gioco divino, l’amore dilata la coscienza, la fonde con una realtà eterna e indivisa. Ora ne facciamo esperienze parziali, e parliamo di ciò che confusamente intravediamo. Un giorno vedremo, e la confusione sparirà. «Perché, perché queste parole? – voi stessi conoscerete il vero».
4 Comments