Fra i simboli tradizionali a carattere universale, pertanto riscontrabili in tutte le forme religiose ed iniziatiche, sia esse orientali che occidentali, arcaiche o ancora esistenti- il cui significato più profondo rileviamo essere distintamente metafisico, pur se trasponibile per legge di analogia in chiave ontologica e cosmologica- trova certamente posto il “Punto”: simbolo confluito e conservatosi anche nell’antica massoneria operativa e, da lì, trasmesso in seguito al deposito simbolico-dottrinale della massoneria speculativa. Proprio in ragione del carattere puramente tradizionale della massoneria nonché della funzione “conservativa” cui essa assolve nell’attuale contesto ciclico in Occidente, non poteva essergli estraneo un elemento simbolico il quale, di per sè, possiede l’indiscutibile valore ontologico di essere proprio il “Punto” d’origine dal quale si diparte ogni opera edificatrice il Tempio: sia esso il Tempio Universale che quello interiore costruito nell’iter di ogni viatico iniziatico, così come quello che lo rappresenta nel mondo esteriore nei vari contesti tradizionali.
Scrive Guénon: “Secondo la Cabala, l’Assoluto, per manifestarsi, si concentrò in un punto infinitamente luminoso, attorno al quale erano le tenebre; questa luce nelle tenebre, questo punto nell’estensione metafisica senza limiti, questo nulla che è tutto entro un tutto che non è nulla, se così possiamo esprimerci, è l’Essere nel seno del Non-Essere, la Perfezione attiva nella Perfezione passiva. Il punto luminoso è l’Unità, affermazione dello Zero metafisico, rappresentato dall’estensione illimitata, immagine dell’infinita possibilità universale”. Il Punto è simbolicamente quello che presenta la maggior “semplicità”- intendendo questo termine nelle sue valenze metafisiche di Unità e “indivisibilità” che ne chiariscono l’essenza – e che racchiude, al contempo, la maggior “ricchezza” essendo la fonte dell’indefinita molteplicità che prende forma all’interno della manifestazione universale:«Come la molteplicità possiede una certa unità, definita unità della molteplicità (ahadiyat al kathran)» scrive Ibn Arabi «allo stesso modo anche l’Uno possiede una certa molteplicità, definita molteplicità dell’Uno (kathran al-wahid); Egli è dunque l’Uno molteplice ed il molteplice-Uno».Il medesimo concetto lo ritroviamo nei commenti di Sankara ai Brahma Sutra:«Una creazione molteplice può esistere anche in Brahma, Uno come Egli è, senza privarlo del suo carattere d’Unità». Dal Punto origina pertanto lo spazio, l’estensione ed il suo sviluppo susseguente, nonché tutte le forme geometriche le quali dipendono dall’esistenza universale. Afferendo simbolicamente all’Essere puro, da cui si attualizzano tutte le possibilità di manifestazione in esso potenzialmente contenute, Essere il quale si pone come “centro” di tutte le cose, pur non occupando spazio alcuno ed essendo fuori dal tempo e dalla manifestazione stessa poiché assolutamente trascendente, il “Punto” in questione è identico al: « punto a cui tutti li tempi son presenti» (Dante, Paradiso XVII,17), “luogo” al quale Plotino, nelle Enneadi, attribuisce una metafisica permanente attualità: «Là tutto non è che un giorno, senza che vi sia successione; nessun ieri, nessun domani». Quale centro di tutte le cose, il Punto ne definisce quindi i limiti manifestativi dirigendo il suo “compasso” per precisarne i confini e dare “Ordine” all’estensione. Coomaraswamy fa notare come esso possa anche essere considerato quale una “punta acuminata”, un “asse” o un “ago”; quest’ultimo termine lo ritroviamo presente anche nell’evangelica “cruna”, il cui significato si riconduce simbolicamente a quello di “porta” d’uscita dal cosmo, esemplificata anche dall’equivalente “chiave di volta” della Massoneria del Royal Ark. Tanto è vero che il termine sanscrito āni- “punta dell’asse”- è impiegato nei testi indù per descrivere come «gli immortali stanno saldamente sulla punta dell’asse (cosmico)», corrispondendo qui tale “punta” in tutto e per tutto alla stessa «punta dello stelo a cui la prima rota va dintorno (…) da quel punto depende il cielo e tutta la natura», così come scrive Dante nel Paradiso, rispondendo in tal modo, indirettamente, alla domanda su «quanti angeli possono stare sulla punta d’uno spillo?». Meister Eckhart, non discostandosi assolutamente da una visione integralmente ortodossa della struttura metafisica ed ontologica della manifestazione universale, pur se tratteggiata attraverso l’influenza del linguaggio cristiano che ne permea l’esposizione, parla del mondo come di un “cerchio” centrato in Dio le cui opere sono la sua circonferenza: «Questo è il cerchio sul quale l’anima gira in tondo, tutto ciò che la Santa Trinità ha operato(…) e, com’è detto nel Libro dell’Amore, “Quando scopro che è sempre senza fine, allora mi lancio verso il centro del cerchio”…Quel punto è la potenza della Trinità, dove essa ha compiuto tutte le sue opere restando essa stessa immota. Lì, l’anima diventa onnipotente (…) così uni-ficata, essa è capace di ogni cosa (…) il punto essenziale, dove Dio è tanto lontano quanto è vicino a tutte le sue creature… lì essa in-siste eternamente» (M. Eckart, Pfeiffer). Discutendo del «fato», troviamo come ben prima di Meister Eckhart sia stato Boezio a paragonare il tempo alla circonferenza di un cerchio il cui centro (punctum medium) è l’eternità, evidenziando come «ogni cosa è tanto più libera dal fato, quanto più si avvicina al cardine (cardo) di tutte le cose; e se aderisce saldamente alla stabilità della Mente Superna, essendo libera dal movimento, essa trascende anche la necessità del fato»: cioè, sfugge all’efficacia causale degli atti, i quali «hanno luogo» solo nel mondo al quale il “Liberato” non appartiene più, benché possa essere in esso. Le formulazioni di Boezio e Meister Eckhart, fondate, come dicevamo, su corretti assunti ontologici, si incardinano in una visione “geometrica” dell’universale diametralmente opposta alla famosa sententia secunda presente in un trattato pseudo-ermetico del XII sec. -il Liber Philosophorum- e secondo la quale «Dio è come una sfera il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo». Lo stesso Guénon farà notare come essa rovesci il corretto punto di vista metafisico e spirituale: nell’ordine spirituale infatti, il Centro, l’Origine, il Principio, non è più contenuto nel tutto, ma avvolge e contiene il tutto. Sarà così il centro- d’altronde non potrebbe essere diversamente – a non occupare alcun luogo, essendo per sua natura atemporale e privo di dimensioni. Il centro, o il Punto che è la medesima cosa, non può di fatto essere colto in alcun luogo della manifestazione, e ciò in virtù della sua totale trascendenza rispetto a questa. Così, nel suo aspetto più elevato, il “Punto” viene a coincidere con il “Vuoto”: luogo della “presenza divina” e principio non-agente (wei-wu-wei).
Vorremmo fugacemente far osservare come anche l’atomicità e l’immensità siano simultaneamente attribuite alla realtà ultima del Punto nella quale tutti gli estremi coincidono: «Più piccolo degli atomi, nel quale sono stabiliti i mondi e i loro abitanti, quello è l’imperituro Brahma, la Verità, l’Immortale (…) a un tempo immenso e sottilissimo, quello è questo Sé atomico» (Mundaka Up); «Più piccolo d’un chicco di riso (…) più grande di questi mondi» (Chandogya Up.). Queste formulazioni le rinveniamo essenzialmente identiche anche in Occidente; in Dionigi l’Aeropagita troviamo infatti testualmente scritto:«Le scritture attribuiscono la grandezza a Dio (…) così come la piccolezza o la sottigliezza, le quali si riferiscono rispettivamente alla Sua trascendenza e alla Sua immanenza» (De Div. Nom., IX,1), mentre da Filone d’Alessandria apprendiamo come sia:«lo Spirito di Dio, atomico, indivisibile, pienamente diffuso in e attraverso tutti gli esseri» ( De Gigantibus). Per la tradizione ebraica, nel momento in cui si manifesta il Punto nascosto è identico allo Jod, lettera che designa il Principio e composta di “tre punti” che ne formano uno solo ed i cui significati sono attinenti all’inizio, il Centro e la Fine della manifestazione stessa , ovvero alle funzioni espresse dal ternario Brahmà, Vishnu e Shiva e del tutto omologhe alle medesime funzione espresse da Sapienza, Forza e Bellezza operanti nell’ambito della ritualità massonica. Singolari in tal senso sono le parole di Guènon:«Può essere interessante segnalare ancora che, nella Cabala, lo “iod” si considera formato dall’unione di tre punti che rappresentano le tre “middoth” supreme e sono disposti a squadra; quest’ultima è d’altronde volta in senso contrario a quella che forma la lettera greca Γ, il che potrebbe corrispondere ai due sensi opposti di rotazione dello swastika». Nei suo scritti Guénon fa anche osservare un particolare alquanto importante, vale a dire come i tre punti in questione possano essere, lecitamente, assimilabili ai tre punti della massoneria, il che implica come il “Nome” divino sia celato in un “segno” spesso tracciato da ogni massone, ma certamente non conosciuto sino in fondo nelle sue più pregnanti valenze simboliche ed “operative”. Con questa considerazione torniamo dunque ad interessarci più particolarmente alla conoscenza del Punto per come la ritroviamo in ambito muratorio e, più specificamente, in relazione a quel “misterioso” Punto “noto ai soli figli della Vedova”, i cui significati svariano da quelli più puramente contingenti ed esteriori- quindi accidentali e legati, per lo più, all’ubicazione della loggia intesa nelle sue coordinate spazio-temporali secondo una lettura meramente “essoterica”, ci si passi il termine, di dati strettamente esoterici- sino a quelli più autentici ed essenziali i quali esorbitano lo spazio ed il tempo rientrando, quindi, in un topos adimensionale il quale vuole indicarci il vero “luogo non luogo” cui allude la massima muratoria suddetta.
Parafrasando Anassagora, abbiamo la stessa differenza per cui: «Le cose apparenti sono la visione delle cose invisibili». Che si tratti di un “luogo” il quale si colloca in medio mundi, è d’altra parte confermato, se solo si applicasse la “Logica” trasponendola in chiave iniziatica, quando è detto che tale Punto è noto ai soli figli della Vedova, apparendo qui abbastanza chiaro come non possa trattarsi di un punto qualsiasi, ancorché segreto, soltanto per il motivo che la sua ubicazione non viene svelata al volgo profano. A prescindere dal fatto che, oggi come oggi, essendo la massoneria scivolata sempre più in direzione del mondo profano, perdendo così da un lato il suo carattere d’inafferrabilità iniziatica e dall’altro macchiandosi inevitabilmente di molte istanze provenienti dall’ambito mondano, non può più esser precipuamente segreta, pena l’ esser perseguita nei suoi appartenenti a termini di legge, ciò potrebbe indurci a pensare che il “segreto”- inteso qui nella sua chiave più esteriore- verrebbe automaticamente a decadere non avendo più motivo di sussistere. Ma il fatto che ritualmente tale osservanza si sia mantenuta nel tempo, costituendo uno degli imprescindibili assi portanti della simbologia muratoria, suggerisce che il suo dominio e la sua funzione siano di ben altra natura.
A tal riguardo René Guénon in Considerazioni sull’iniziazione scrive quanto segue:«Infine, ogni organizzazione iniziatica è anche «inafferrabile» dal punto di vista del suo segreto, quest’ultimo essendo tale per natura e non per convenzione, e non potendo di conseguenza essere in nessun caso penetrato dai profani, ipotesi che implicherebbe in se stessa una contraddizione, perché il vero segreto iniziatico non è nient’altro che l’«incomunicabile», e soltanto l’iniziazione può dare accesso alla sua conoscenza» ed ancora: «Tra il vero segreto iniziatico e un disegno politico che si tenga nascosto, o anche la dissimulazione dell’esistenza di un’associazione o dei nomi dei suoi aderenti per ragioni di semplice prudenza non è evidentemente possibile nessun paragone (…) esso (…) non potrebbe mai esser in alcun modo tradito, poiché è d’ordine puramente interiore e, come abbiamo già detto, risiede propriamente nell’«incomunicabile».
Siamo quindi in presenza di una differenza di natura ontologica, poiché da quel che si deduce chiaramente dalle parole di Guénon, la natura del segreto iniziatico, del «mistero» etimologicamente inteso e quindi anche del “Punto” noto ai soli figli della Vedova, è assolutamente inerente il dominio dello spirito, il quale sfugge alle categorie oggettive spazio-temporali e ad ogni lettura di carattere profano che, usualmente, si attaglia alla parola segreto ed ai suoi rimandi mondani. Abbiamo qui qualcosa la cui portata è tale da fondersi con la stessa “inesprimibilità” del secretum iniziatico stesso giacché, invero, riguarda un “Punto” “segretamente” celato da questa stessa inesprimibilità la cui essenza è incomunicabile ed impenetrabile proprio perché appartenente all’ambito spirituale.
Il Punto in questione, tra l’altro, è definito tradizionalmente “geometrico” e ciò in quanto l’azione divina ed ordinatrice viene simbolicamente assimilata all’arte della geometria e, di conseguenza, anche all’architettura. Le due scienze sono infatti intimamente connesse, così come dimostra anche il termine arabo hindesah che si traduce misura ma che indica al contempo sia la geometria che l’architettura. Lo stesso Platone, già 2500 anni fa, dimostra come l’azione manifestativa divina fosse sin d’allora assimilata alla geometria se consideriamo come fu egli ad affermare che “Dio geometrizza sempre” e che nessuno potesse accedere agli insegnamenti esoterici se non conformando il suo agire allo stesso agire divino: “Nessuno entri se non è geometra”. Secondo le prospettive qui esaminate, la loggia assurge al ruolo di “Centro del Mondo”, un “luogo” in cui si riflettono più luoghi, più mondi apparentemente diversi ma convergenti. Massonicamente questo luogo è simbolicamente ubicato tra squadra e compasso, cioè fra Cielo e Terra, luogo d’incontro di tutti coloro spogliatisi dalla “metallica” temporalità dell’individualità egoica e del loro “nome” profano per divenire proiezioni coscienti degli archetipi celesti e dell’influenza spirituale che presiede all’iniziazione di questa specifica forma tradizionale.
In virtù del fatto che il “Punto” noto ai soli figli della Vedova possiamo rilevarlo nella sua funzione di “centro” in ogni grado dell’essere- è questo il senso per cui la loggia può riflettere più luoghi- non può non essere qui preso in considerazione un aspetto concernente il Quadro di Loggia- omologo, nella sua funzione di centro della Loggia, al bindu che segna il centro di ogni mandala e yantra indiano- aspetto che si ricollega alla legge fondamentale che regge la stessa manifestazione universale e, quindi, tutte le forme del simbolismo che ad essa si ricollegano: vale a dire il “rapporto di analogia inversa”. Secondo questa legge- rilevabile simbolicamente nei due vegliardi presenti nel sigillo di Salomone- «ciò che è primo e più grande nell’ordine della realtà principale, diviene o, per meglio dire, è al contempo – senza tuttavia essere minimamente alterato o modificato in sé stesso – l’ultimo e il più piccolo sul piano della manifestazione», in assonanza, ovviamente, con il significato del detto evangelico: «Gli ultimi saranno i primi».
Mi sembra molto corretto quanto scrive a tal fine Giorgio Rocchi puntualizzando come:«Secondo questo rapporto di analogia inversa, le realtà metafisiche adombrate dal Quadro di Loggia, appartenendo all’ordine spirituale, al metacosmo, contengono necessariamente in esse il cosmo, sebbene questo «contengono» non debba essere inteso in senso spaziale. Passando all’ordine materiale è la Loggia, simboleggiante il cosmo, che deve racchiudere nel suo centro – inteso questa volta nel senso spaziale – il Quadro, adombrante nel suo tracciato il metacosmo». Il Quadro di Loggia è il “Punto” in cui si coagulano tutte le influenze spirituali mosse dal Rito in quanto, non dimentichiamolo, esso è posto esattamente sotto l’egida del filo a piombo, rappresentando in tal senso il “polo terrestre” che nell’antica massoneria operativa era simboleggiato da uno swastika posto proprio al di sotto del filo a piombo stesso: quest’ultimo, rappresentazione di Mahat l’Intelletto Universale o “grande principio”- volendo utilizzare qui termini indù per esemplificare meglio il concetto- la cui azione partecipa dei tre guna, è concepito come ternario nell’ordine dell’esistenza universale e si identifica infine alla trimurti divina Brahmà, Vishnu e Shiva le cui Shakty sono adombrate perfettamente dai “tre pilastri” al centro del tempio massonico.
Ma come passare da una conoscenza puramente teorica ad una conoscenza reale ed identificatrice tra il soggetto umano ed il soggetto divino rappresentato dal Punto, differenziazione sotto un certo riguardo illusoria, ma tuttavia percepita reale nel nostro stato d’esistenza? «Per conoscerlo dobbiamo essere in esso» scrive Ruysbroeck, in De septem custodiis, « di là dalla mente e al di sopra del nostro essere creato; in quel Punto Eterno dove iniziano e terminano tutte le nostre linee, quel Punto dove esse perdono il loro nome e ogni distinzione, e diventano uno con lo stesso Punto, e con quello stesso Uno che il Punto è, eppure restano sempre in se stesse nient’altro che linee che giungono al termine», il medesimo Punto già noto nell’antico oriente ed in cui lo Lo Yogi «senza alcuna relazione soggetto-oggetto conosce tutto, poiché esso comprende tutto in un punto (bindu) geometrico e in un istante (..). Il tempo è sprofondato nell’eternità».
Francesco D’Antoni