C’è una pagina, poche righe, in Cavalcare la tigre che mi ha sempre intrigato. Un oscillare tra l’adesione e il disagio – quel sì o quel no – che inquieta turba rinnova si rinnova. Anche oggi che le letture di Julius Evola, i suoi libri, mi sono ormai estranei, muti nello scaffale a lui dedicato, avendo privilegiato altro e da anni. E, se ha la forza di aprirsi varchi nella memoria, qualcosa vorrà pur dire. Nelle misteriose profondità del mare, ‘in gurgite vasto’, per dirla con Virgilio, quanto s’è dato perduto un’onda più audace riporta a riva qualcosa di ciò che nel tempo venne sottratto. Oppure quando Nietzsche scrive – ed è lo Zarathustra a parlare – come solo, quando da tutti sarà abbandonato, egli tornerà fra i suoi per guardarli con altri occhi e amarli con altro amore… Una pagina, più esattamente la penultima (la 327), della edizione a cura di Vanni Scheiwiller, mille cinquecento copie, anno 1961, con la sovra copertina gialla e in un formato tipografico originale. Esistere è essere sottratti all’Essere, imponendo la domanda se il caso o la necessità di questo accadimento ne sono la causa. Combattere è un destino, vivere una consegna, morire un dono… La Geworfenheit, quel essere gettati ‘dentro il mondo e dentro il tempo’, di cui parla Martin Heidegger, in cui ‘il viaggio nelle ore di notte non lascia scorgere quasi nulla del paesaggio che si attraversa’. E, appunto, nella morte la misura di quanto è dato essere e non altrimenti. Rifiuto, al contrario, lapidario, in nome del come ‘vivere qui, ora, in questo mondo, ha un senso per essere sempre l’effetto di una scelta e di una volontà’ e, con ardita ipotesi, vivere in un mondo ostile e contro la propria natura per misurare le proprie forze.
La rivolta egli angeli, potremmo fare il confronto, libro dello scrittore francese Anatole France, anno 1914, ove al centro della narrazione vi sia di come si chieda a Lucifero – prototipo d’ogni insulto a Dio – di porsi a capo di un sovvertimento di quell’(dis)ordine costituito e mantenutosi per secoli. Ordine fragile, privo della giustizia, se consente la presenza del Male, della miseria e della sofferenza di cui sono afflitti gli uomini e di cui angeli più sensibili si sono fatti carico e condivisione rinunciando alle loro caratteristiche celesti. Essere uomini fra gli uomini, conoscere il dolore, tremare di fronte alla morte. Una rivolta dell’umano per l’umano. Chiedergli, dunque, e offrirgli lo scettro, guida e comando e altare massimo e trono, dopo la cacciata di quel ‘primitivo’ dio che, vecchio e ritiratosi ormai in ostinato silenzio, ha dimostrato di non saper ben governare. E Lucifero esita, esita tra il desiderio di potersi liberare della condanna a cui è avvinto per l’eternità la vanità d’essere egli adorato il più grande e migliore. Esita e rifiuta. Non per timore, per pietà. Pietà nella originaria accezione del termine, comprendere l’ineluttabile destino sotto il cielo muto e freddo. Pietà verso quel dio, pur causa della sua dannazione, che è lì impotente sentinella dell’imperfezione. Perché anche in lui vi è un residuo di Male, come tanti filosofi a più voce hanno dimostrato…
Ha un senso mettere a confronto la Geworfenheit di Heidegger con la disperazione della condizione umana, il modo avvilito triste e misero dell’uomo descritto da Anatole France e, al contempo, gli angeli, umanissimi, con l’aristocratico gesto dell’uomo della Tradizione che sfida se stesso scegliendo di mettersi a dura prova? Ovviamente c’è della blasfemia in tutto ciò, una pennellata superficiale di pessima vernice, minimo. C’è – lo riconosco e non me ne dolgo, anzi… – la libera santa alata eresia di un mago che, dopo aver duellato contro la maga Magò e averla irrorata di varicella, se ne parte a cavalcioni d’un razzo per le isole Hawaii camicia a fiori e bermuda… In altri termini io sono il centro e la periferia delle mie riflessioni e mattate. Prendere in todo o in todo lasciare. C’è, però, quel non perdersi, forse soltanto un disperdersi in un eterno andare oltre, nelle gabbie dell’ortodossia del filologico politico ideologico e quanto altro si voglia costruire a limite.
Se quella pagina, quell’insieme di poche righe, mi sono tanto familiari e, di conseguenza, si esternano anche quando sembrano essersi dismesse e ottenebrate, sono esse stesse che si compenetrano nel difforme nel molteplice nel distante. Non ho mai amato film con titoli tipo L’assedio di forte Apache o, più seriosamente, ricordando ancora le letture del Barone, collocarmi là dove si attacca e non dove si è costretti a difendersi. Rimane, però, il dilemma: nascere per caso o per destino? Nella mia scelta d’essere contro, misurare forze e coraggio, indossare ideale ‘camicia nera’, va da sé che mi sentivo vicino, privo di qualsiasi atto umile e di cautela, a ‘il Cavaliere, la Morte e il Diavolo’ – quell’incedere nel bosco estraneo ed ostile, incurante degli accadimenti e della compagnia, fisso verso una meta, prossima o lontana, reale o soltanto sognata -, essere cioè fra coloro che sono qui e, al contempo, appartengono all’altrove. E su questo essere altro ed alto di cui Evola appariva l’indiscusso Maestro si accentrava certa mia, contraddittoria, arroganza di scontroso liceale prima e, successivamente, di studente universitario dall’apparenza altezzosa. Essere parte di una élite di ceppo aristocratico che fendeva la realtà come lucida lama nel burro tenero.
D’altronde venni presto bruciato alla fiamma vivida di Nietzsche e del nichilismo, a cui ero spinto da un dna d’insofferenza forte e all’inizio inconsapevole da una inquietudine curiosa da una sensibilità immediata e istintiva della carne e delle ossa e del sangue. Precipitare senza come e perché nel mondo, essere errante. Nell’errore la cifra esistenziale della propria imperfezione e nell’errare quell’inesorabile destino di chi non confida nei confini dell’orizzonte, una sorta di luogo esteso ovattato e protetto, ma li identifica a sbarre e chiavistelli. Prima furono umorali e immediate emozioni sensazioni intuizioni incerte e confuse poi tappe obbligate. Anche quelle resesi autentiche in una cella di isolamento poi al secondo braccio di Regina Coeli. Quando, ad esempio, fra i primissimi miei libri vi entrò, con apparente casualità, I Proscritti di Ernst von Salomon (ne ho scritto sovente) la concezione della lotta politica e il mio stato d’animo trovarono comune terreno in pensiero e in azione ove non vi poteva in quello spazio allignare alcuna forma d’ordine borghese con le sue paccottiglie ma una sovversione irriverente e decisa. Quella di certo squadrismo strafottente, di Berto Ricci visionario, da brigata nera con il mitra in mano e la sicura levata…
Ed ecco emergere nitidi gli eroi a me cari, mitiche figure di riferimento, che non dimentico – e i miei lettori li conoscono ormai anch’essi – di rammemorare. Eroi straccioni e folli, figli del caso, eppure nobili figure di solitaria statura, stranieri estranei strani… Con il largo cappello e l’orgoglioso pennacchio, appoggiatosi al tronco di un albero, nella luce ormai smorta della sera, la spada sguainata, irride alla luna con il suo grande e inconfondibile naso Cyrano de Bergerac. E, in sella ad uno sfiancato e macilento, reso tutto pelle ed ossa, cavallo, il suo nome è Ronzinante, m’appare in armatura sconnessa e rimediata gli occhi spiritati il pizzetto rado Don Chisciotte e, puntando un trave a mo’ di lancia, m’indica la strada senza meta alcuna se non nel sogno nell’illusione nell’inganno… Essi non sono forse il segno vero che ciò che appare difforme può essere conciliabile? Miseria e nobiltà, caro Totò. La Geworfenheit e la Tradizione coabitano, l’unico regno di cui io sia sovrano legittimo, nella mente e nel cuore – accetto d’essere frammento disperso, senza fine né caso, e in questa consapevolezza, mai domo ed anzi orgoglioso, m’ergo tra le rovine in libera sfida. Lo confesso; lo sapete. Ho in antipatia i professorini patentati; gli accademici acquisiti. Sono stato fra loro, al margine ed emarginato (‘ti abbiamo scoperto, maghetto fasullo, tu soffri d’invidia e rancore’, puntando il dito, dirà qualcuno con ghigno porcino, dimostrando di non aver capito un c… o, come dice Nietzsche, ‘al puro tutto è puro, ma io vi dico che al porco tutto sa di porco’). Un paria senza casta, forse, o reso invisibile per emanazione di troppa luce? Pitocchi, che ne sapete della grandezza se l’unico metro di misura è in voi e per voi quello del mercante… E i filologi a spaccar la parola in quattro per raccontarci l’origine di ognuna ma dimentichi dell’uomo che la pronunciò? Piccola invettiva, senza conto e senza frutto… Va bene, l’ammetto, Julius Evola è unico inimitabile irripetibile; Martin Heidegger è un grande filosofo, giusto definirlo ‘l’ultimo sciamano’, ma di filosofi ce ne sono tanti come nel cortile assordante è lo starnazzare di oche e galline. In Cavalcare la tigre Evola critica – l’ho citato all’inizio – la tesi cara ad Heidegger della ‘gettità’ non l’affianca. E non sta a me cambiare le carte in tavola mischiarle e barare per rendere compiuto il solitario… ‘Cosa sono le mie mani se non l’incommensurabile distanza fra me e il mondo delle cose’.
Rimproverano – sempre i saputelli e dintorni – a Cavalcare la tigre d’essere stata lettura assai dannosa per essere caduta fra le mani di lettori sprovveduti e sventati, giovani e giovanissimi, usi più all’uso del bastone prima e della P38 dopo che, leggendo e farneticando (!), si sono dati alla rapina alla banda armata alla lotta di tutti contro tutto. Teniamo, dunque, quel libro, ogni libro, chiuso in biblioteca e che lo si consulti soltanto dopo aver superato esami di maturità testi psicologici mostrato certificato penale immacolato… Ben altro è il ‘Tempus loquendi, tempus tacendi’… Certo lo stesso Evola, già nelle prime righe del medesimo libro, era corso ai ripari ammonendo come egli si rivolgesse ad ‘un uomo che, pur trovandosi impegnato nel mondo d’oggi … non appartiene interiormente a tale mondo né intende cedere ad esso, e in essenza sente di essere di una razza diversa di quella della grandissima parte dei nostri contemporanei’. Tra chi è gettato a caso e chi s’è scelto dove cogliere la differenza? Nell’esistere, credo, in quella ‘bellezza’ dell’essere in cammino, magari da solo, e non sentirsi mai appagato da ogni riposo ed ogni sosta. Poi, se esiste un fine e una meta oppure s’è nomadi, è soltanto questione di buon gusto…