27 Giugno 2024
Tradizione Tradizione Primordiale

Considerazioni sul sacrificio umano

 

di Giuseppe Arminio De Falco

“Rispetto alla nostra sensibilità culturale i sacrifici umani, considerati superficialmente nella loro evidenza immediata, costituiscono materia di scandalo e, una volta posti nel novero dei monstra, suscitano una reazione istintiva intrisa di rifiuto e di attrazione, di fastidio e di curiosità: una reazione che non solleva problemi, perché non stimola il pensiero. I sacrifici umani, valutati alla luce delle acquisizioni delle “nuove scienze dell’uomo” (alle quali appartiene la storia delle religioni, disciplina di cui Brelich è stato maestro riconosciuto), perdono i connotati “mostruosi” nella misura in cui è possibile coglierne il significato e la funzione che legittimano la loro piena appartenenza all’orbita della cultura e, più precisamente, alla dimensione del “culturalmente alieno”. [1]

Opinione invalsa e comune è quella che vede negli antichi sacrifici umani null’altro che un’usanza barbara e superstiziosa, eppure, indagando a una certa profondità tale fenomeno, viene a prospettarsi un orizzonte di senso radicalmente diverso. Fondamentale, per la rottura di questo tabù, è stata l’opera summenzionata del Brelich, che, in controcorrente con le opinioni a suo tempo e tuttora dominanti nel settore della storia delle religioni, ricostruì un ben diverso scenario per questo tema apparentemente così scabroso, eppure sorprendentemente ricco di risvolti di notevole significato. Come è noto da antiche dottrine di oriente e di occidente l’uomo è ontologicamente concepito come “termine mediano” tra il principio Cielo e il principio Terra. Ora, appare senz’altro non privo di interesse notare che tali sacrifici venivano praticati essenzialmente da popolazioni la cui cultura era in qualche modo riferibile ad un modello “agricolo”, e il sacrificio stesso appare permeato da tale simbolismo. Cosa lega però l’uomo, concepito come “termine mediano” e il simbolismo agricolo? saturn8Nell’antica tradizione greco-romana Saturno-Crono era appunto sovrano dell’età dell’oro, re dei primordi. VaishvanaraTutto ciò si ricollega alla perfezione col simbolismo dell’Uomo primordiale o universale, noto in India come Vaishvanara, ai greci come Pan, ai babilonesi come Panmegas o Pammegas (quest’ultimi termini però greci), attributo del dio solare Tammuz, ecc. La falce di Saturno èVaishvanara assieme un rimando al simbolismo agricolo (l’aureo grano come germoglio spirituale, simbolo dell’Opera compiuta)  e allo scorrere del tempo (in greco Khronos, quasi identico a Kronos), per via della sua forma a mezzaluna. Ferecide, un antico sapiente, parlava di una triade di principi: Zas, Khronos, Khthonìe, ossia il principio Cielo, il principio Tempo e il principio Terra, in accordo col mito di Crono (principio Tempo) che avrebbe simbolicamente “castrato” il padre (Ouranos, principio Cielo) per separarlo dalla madre (Ge, principio Terra). Il significato è piuttosto chiaro: il tempo (il VaishvanaraVaishvanaramutamento) è frutto della separazione (dei principi primi). Ritroviamo qui, in termini greci, quella che nell’antica Cina era nota come la Grande Triade. Il Manu della tradizione indù, legislatore primordiale, il cui nome, attraverso un significato etimologico di “mente”, si riconnette, nelle lingue occidentali germaniche al significato di “uomo”, è precisamente infatti colui il quale, simbolicamente, da avvio ad un nuovo ciclo; ciclo che però, nella sua “mente” è già compreso e come già compiuto. In altre parole, come secondo la sapienza di un Eraclito, giacché i principi opposti convergono, ritroviamo, nella figura dell’Uomo primordiale, analoga a quella di Rex Saturnus, sia il principio sovratemporale che quello, per così dire, di “iniziatore del tempo”. Ora il simbolismo temporale non è collegato con la figura regale nella sola tradizione greco-romana, ma lo troviamo connesso con la figura regale anche in Scandinavia, secondo la leggenda della mitica Frodhafrìdhr, la pace di re Frodhi, molto probabilmente nient’altro che l’epigono leggendario del dio Freyr. Nel tardo Skàldskaparmàl il regno di Frodhi è accostato a quello di Augusto, noto per aver restaurato una nuova aurea aetas; nelleFreyr_by_Johannes_Gehrts Gesta Danorum di Saxo egli è invece descritto come l’eroe figlio di Hadingus (che Dumèzil ha dimostrato essere una figura leggendaria originata dal dio Njordhr, padre per l’appunto del dio Freyr)[2] che avrebbe ucciso un drago e accumulato un’enorme quantità d’oro. Ma la cosa di maggior interesse la troviamo nel Gròttasongr, la canzone del mulino Grotti, mulino che, attraverso l’attivazione delle due gigantesse Fenja e Menja tenute in schiavitù dal re, avrebbe “prodotto” pace e prosperità (àr ok frìdhr), oro e felicità (l’oro veniva definito, con una kenning molto interessante, “farina di Frodhi”), cosa che si sarebbe arrestata solo alla sua fine. Circa la distruzione del mulino vi sono due versioni: la prima, quella dell’Edda poetica, conclude che le due gigantesse, incarnazioni delle potenze del caos, non più controllate, avrebbero macinato con tale forza ed energia da distruggere l’intero meccanismo. La seconda versione, forse ancor più interessante della prima, nonostante si tratti di una fonte più tarda, e cioè l’Edda in prosa, ci racconta invece che il mulino, donato a Frodhi da Hengikjoptr (uno dei nomi di Odino), sarebbe andato in rovina macinando sale per mezzo dell’intervento di una sinistra figura marina di nome Mysing e del suo seguito, che la saga fa intendere come “prodotto” dai canti delle due gigantesse, il quale avrebbe assassinato il re, ponendo fine alla mitica pace. Troviamo qui una forte connessione tra l’autorità regale originaria (simbolicamente è sempre da tener presente che il re è l’uomo per eccellenza, il suo modello di massima compiutezza e sviluppo), dunque l’oro metallo delle origini, il simbolismo agricolo, il serpente o drago e infine la dimensione della temporalità.

Cosa può significare una tale coincidenza simbolica? Un tale orizzonte simbolico è tuttavia la chiave, a nostro avviso, per comprendere uno degli aspetti di alcune delle culture più arcaiche che più possono risultare aliene per il lettore moderno. Il sacrificio umano, a differenza di quello animale, si pensa comunemente, non può avere alcuna giustificazione morale, né tantomeno un fondamento simbolico profondo. Nulla di più sbagliato. È senz’altro vero che alcuni popoli, tra cui certamente i romani e i greci, ebbero in orrore tale pratica, non perché non ne riconoscessero un fondamento religioso, ma per la crudeltà e il costo in termini di vite umane. Eppure non va dimenticato che presso gli italici e i primi romani, così come presso i greci omerici un tale rituale era ancora vivo e vegeto. Tracce di quest’usanza sono state viste, a Roma, nel rito dei Lemuria del 14 Maggio, in cui venivano gettati dalle vestali 27 fantocci dal ponte Sublicio[3], così come nel rituale della Devotio compiuto dal generale sul campo di battaglia. In ambito romano arcaico è altresì attestata archeologicamente la pratica del sacrificio umano come deposito di fondazione[4]. Inutile sarebbe poi rammentare, in ambito greco, il sacrificio di Ifigenia di cui è detto nell’Iliade. È singolare, a nostro avviso, che si faccia grande fatica a prendere seriamente in considerazione la pratica del sacrificio rituale di un essere umano in uso presso diverse culture ancestrali, per giunta sempre in misura assai limitata e in casi eccezionali[5], quando vi è tuttavia circa un miliardo di persone a credere nel sacrificio di un dio, o meglio di un dio-uomo per il bene dell’umanità intera. Se c’è ormai da venti secoli confidenza con l’idea di un dio-uomo che si sacrifica per il bene dell’umanità non si vede infatti il motivo per cui un singolo essere umano (in particolare il re) non abbia potuto virtualmente incarnare, in determinati contesti, potenzialità e forze che, tramite il suo sacrificio, sarebbero state, per così dire, “liberate” e rese attive per la comunità. Il sacrificio rituale del re è ricordato nella già accennata area scandinava: la  Heimskringla riporta due casi di re deposti e sacrificati in tempi di carestia, quasi che dalla loro vita dipendesse il buon andamento del ciclo vegetale, oltre che la “felicità” dell’ordinamento cosmico umano. Oltre a ciò, sempre in area germanica, è celebre il caso della cosiddetta mummia di Tollund, nello Jutland. È da notare che, nella maggioranza dei casi, le vittime sono immolate a una divinità di tipo agricolo o comunque in relazione con il simbolismo agricolo. È questo il caso di Moloch/Baal presso i punici/fenici e, probabilmente in origine, di Crono nelle feste greche dei Kronia, delle Saturni hostiae, ricordate dallo stesso Vico, del culto di Dioniso “Omadio” oltre che, se la notizia riportata da Cesare nel De Bello Gallico è da considerare credibile, del culto associato al dio Esus, qualora quest’ultimo sia effettivamente, come a noi sembra probabile, un dio associato a quest’orizzonte simbolico[6]. Similmente presso i germani era Odino/Wotan, a nostro parere divinità corrispondente all’italico Saturno e al greco Dioniso/Ade, il principale titolare di sacrifici umani. Il mito norreno vuole che Odino sia rimasto appeso all’Yggdrasil, l’albero cosmico, per nove giorni e nove notti, in tal modo offrendo sé stesso a sé stesso secondo un evidente rituale iniziatico di morte e rinascita. Ciononostante, pur tenendo presente e dando per buoni i dati e le corrispondenze simboliche sin qui brevemente delineati, si può a ragione pensare che tale uso, per quanto significato avesse potuto avere, rimaneva pur sempre fondamentalmente crudele e inumano.Temple_of_Saturn,_Rome

A ciò difficilmente si potrebbe obiettare qualcosa. Non a caso, quando, col tempo, l’originario significato inerente tale pratica andò sfumando, quest’ultima dovette affrontare un netto ostracismo da parte del popolo, sempre più insofferente nei confronti di un uso oramai non più parte dell’identità collettiva condivisa. Di particolare interesse è il fatto che, stando a quanto racconta Cesare nei Commentarii, ogni cinque anni si svolgesse un particolare sacrificio ad Esus, che consisteva nella creazione di un’enorme figura antropomorfa fatta di vimini intrecciati e riempita di uomini e animali, che sarebbe stata poi bruciata con tutto il contenuto. Questa pratica, tuttavia di dubbia veridicità, può avere una spiegazione nell’utilizzo di criminali condannati a morte come vittime sacrificali. Una logica non troppo dissimile a quella latina della “sacertas” di un individuo, in tal modo condannato ad essere ucciso impunemente e “offerto” alle divinità ctonie, sebbene le rispettive dinamiche divergano considerevolmente. È infatti assai inverosimile, sulla base degli attuali dati filologici e archeologici, ipotizzare che simili rituali potessero coinvolgere persone comuni, dato che si richiederebbe un contesto invero estremamente fanatico e superstizioso da un punto di vista religioso quale non sembra proprio essere stato il caso di nessuna delle antiche religioni d’Europa. In ogni caso è probabile che la figura antropomorfa di tale rituale fosse effettivamente riempita con nient’altro che con vimini e/o con altro materiale legnoso. Il significato simbolico del rituale però rimane lo stesso: uccidere ciò che è vecchio/malato/esaurito per far germogliare nuovi Frutti, nuova Vita. Così a Roma, a metà Marzo, abbiamo il rituale della cacciata di Mamurio Veturio, id est l’anno vecchio, impersonato da un vecchio vestito di pelli bastonato dai bambini (le nuove forze della primavera), in Scandinavia e nelle regioni germaniche, nello stesso periodo o poco dopo, si era soliti accendere fuochi purificatori in cui le cose (anche oggetti materiali) dell’anno vecchio erano “sacrificate” per propiziare la nascita di nuove.

È così che, in molti casi, il rituale del sacrificio umano si colloca in un orizzonte simbolico che potremmo definire agrario e iniziatico allo stesso tempo, in quanto è solo con la morte del seme che una pianta può crescere. Morendo, poi, una vecchia pianta dà nutrimento con i suoi resti al terreno, così da sostenerlo nell’alimentazione di piante nuove. Nelle lingue indoeuropee, cosa molto significativa, la radice *ar– indica l’attività agricola, ma, nelle sue varianti, vale anche ad indicare il concetto di preminenza, vertice, punta (*ard-), chiarezza e lucentezza (*arg-, affine a *reg-, re), oltre che l’idea di un dominio o signoria (*ary-). L’opinione diffusa, figlia di ingenue superstizioni e crassa ignoranza in materia di antiche religioni, che vorrebbe i sacrifici in onore degli dei e di tutte le altre entità geniali nient’altro che offerte volte a placarne l’ira, ossia il frutto di una infantile quanto primitiva paura nei confronti di un non meglio precisato “ignoto”, è senz’altro la principale causa di incomprensioni su questo tema. In buona sostanza possiamo così ragionevolmente affermare che il sacrificio rituale di un uomo, specie se l’uomo in questione è l’uomo par excellence, ossia il re, si inserisce a pieno titolo in un simbolismo iniziatico chiaro ed evidente, dato che, in determinati contesti, si poteva trattare anche di rituali atti a trasfigurare e immortalare i soggetti scelti, in tal caso da concepire tutt’altro che come vittime. La radice latina di mactare, “sacrificare ritualmente”, è infatti riconducibile all’indoeuropeo *mag-, che vuol dire grandezza, potenza, indicando con ciò non un annichilimento della “vittima” bensì un suo “potenziamento”, ossia il ricongiungimento di quest’ultima con la divinità di riferimento. Ecco che questi rituali, alla luce di queste teorie, perdono in buona parte la loro natura oscura e sinistra, acquisendo invece un insospettato manto di profonda sacralità. A voler usare un’analogia simbolica calzante potremmo dire che il re è il germe aureo della stirpe, così come l’aureo grano lo è della terra in cui cresce. Egli è l’uccisore del drago in quanto incarna il principio di eternità, ma è tuttavia drago egli stesso (Sigfrido che uccide Fàfnir, ne divora il cuore e si bagna nel suo sangue). Ma, esattamente come il serpente (il drago unisce simbolicamente serpente e uccello, ossia Alto e Basso, Yin e Yang, ecc.) muta la sua pelle per rinnovarsi, così, in determinate circostanze, anche il re (la persona fisica, in quanto il Re inteso in senso archetipico è sovratemporale) deve simbolicamente fare lo stesso, offrendo la sua vita per il bene del suo popolo, così come Pater Saturnus taglia la spiga dorata matura per il rinnovamento del ciclo vegetale. Da parte nostra pensiamo, tuttavia, che i più benefici e santi degli atti di sacrificio siano quelli compiuti dagli eroi e dagli innumerevoli combattenti per la Patria, qualunque essa sia. I romani lo sapevano bene. Uno dei tanti eroi romani fu il console Decio Mure, morto nella battaglia del Vesuvio del 340 a.C., il cui solenne sacrificio è ricordato da Livio:

In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: “Abbiamo bisogno dell’aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni”. Il pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta, di coprirsi il capo e, toccandosi il mento con una mano fatta uscire da sotto la toga, di pronunciare le seguenti parole, ritto, con i piedi su un giavellotto: “Giano, Giove, padre Marte, Quirino, Bellona, Lari, dèi Novensili, dèi Indigeti, dèi nelle cui mani ci troviamo noi e i nostri nemici, dèi Mani, io vi invoco, vi imploro e vi chiedo umilmente la grazia: concedete benigni ai Romani la vittoria e la forza necessaria e gettate paura, terrore e morte tra i nemici del popolo romano e dei Quiriti. Come ho dichiarato con le mie parole, così io agli dèi Mani e alla Terra, per la repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito, per le legioni e per le truppe ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, offro in voto le legioni e le truppe ausiliarie del nemico insieme con me stesso”[7].

 

NOTE

[1] Dalla prefazione di Marcello Massenzio a: “Angelo Brelich, Presupposti del sacrificio umano, Editori riuniti, 2011

[2] La saga di Haddingus, 2001.

[3] Secondo Ovidio, Fasti, V,622-659, si sarebbe trattato, in origine, di corpi umani, sostituiti in seguito da Ercole con dei fantocci (scirpea).

[4] Vedi A. Carandini, Roma, il primo giorno, Milano 2007, p. 52. Facciamo notare che la stessa uccisione di Remo da parte di Romolo può essere letta in questo senso.

[5] Le civiltà mesoamericane rappresentano, da questo punto di vista, delle eccezioni singolari, con ogni probabilità dovute al loro relativo grado di degenerazione rispetto alla propria cultura d’origine. I “tributi” in termine di vite umane divennero sempre più enormi col passare del tempo, quasi a dover mantenere a tutti i costi un qualcosa che altrimenti sarebbe sfuggito.

Nelle culture tradizionali europee, invece, tale pratica risulta fortemente connessa ai cicli annuali, specie in relazione al ciclo vegetativo e a quello di semina e raccolta, come sopra accennato, ed in ogni caso sembra sia sempre attestata in rare occasioni.

[6] In alcune steli, quali quella dei naviganti di Parigi e quella di Treviri, Esus è infatti raffigurato nell’atto di abbattere alberi, ed è proprio impiccati a un albero e sanguinanti che morivano le vittime consacrate al dio. Similmente i sacerdoti di Attis, durante il giorno festivo noto come “Sanguem”, sanguinavano presso il sacro pino rappresentante le forze dormienti del dio, onde rinvigorirlo e propiziarne la rituale rinascita.

[7] VIII, 9.

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