18 Luglio 2024
Punte di Freccia

Contestazione ideale – Mario Michele Merlino

Ho raccontato più volte come conservi, protetto da copertina trasparente, il mio primo libro (dopo i tanti, da Salgari al libro Cuore), che mio padre mi leggeva in poltrona, sulle ginocchia, avvolto nella sua pesante veste da camera. Acquistato all’età di otto anni ad una mostra editoriale, accompagnato e guidato nella scelta sempre da mio padre, grande affabulatore dalla memoria prodigiosa. Di James Fenimore Cooper dal titolo L’ultimo dei Mohicani, un feuilleton del 1826. I lettori più giovani – con me non ci vuole molto, oramai – conoscono probabilmente la bella trasposizione cinematografica con l’attore Daniel Day-Lewis nella parte di Nathaniel ‘Occhio di falco’. E memorabile la scena all’interno del cimitero indiano fra lui e Cora. ‘La gente di mio padre dice che alla nascita del Sole e di sua sorella la luna la loro madre morì. Così il Sole diede alla terra il suo corpo da cui sbocciò tutta la vita e dal petto di lei tirò fuori le stelle e le lanciò nel cielo notturno per ricordarsi della sua anima’. E, dopo un simile discorso, distesi sull’erba uno a fianco dell’altra, sopra di loro un tripudio di stelle e il nemico nei pressi, come poteva non lasciarsi avvincere e travolgere da sfrenata  passione la giovane inglese e buttarsi alle spalle perbenismo puritano e convenzioni borghesi?

Il giornalista Stenio Solinas ha dato il medesimo titolo, evocando esplicitamente il libro di Cooper, ad un suo agile ed esile scritto, poco più di cento pagine, con quel retrogusto tipico di una generazione che si avverte estranea al presente e diversa e in fondo ‘migliore’ (‘nostalgia canaglia…’ – chi la cantava? – e  la malinconia di essere stati fregati comunque dall’anagrafe e illudersi di proteggersi ancora con epici ricordi e fantasiose rivisitazioni). Poca colpa, va da sé chè in tanti ne siamo vittime, ognuno con la propria storia e i ricordi che tornano circonfusi da una certa aureola di santità abbelliti da piccole e perdonabili vanità… Forse immemori che la nostalgia, secondo l’interpretazione di Heidegger, va intesa il ritornare a casa con dolore. E questo dolore, mi piace pensare, nasce dal constatare che la casa è vuota. E, allora, che vale porsi a ritroso o, in caso contrario, il vuoto può essere ammobiliato con tutti i colori della fantasia.

Un libro triste e rancoroso, l’ho definito, ieri nel tardo pomeriggio – e non mi riferisco a quello di Solinas -, ma a Oltre destra e sinistra: il socialismo fascista (titolo, fra l’altro, suggerito da me all’autore come mia è la prefazione). E i due aggettivi non hanno se non una larvata polemica, bonaria se si vuole, qui certamente in linea con quegli ultimi dei Mohicani, non tanto come razza in via d’estinzione (il romanzo di Cooper, a cui va l’immutato ricordo quale libro di formazione) o già estintasi ( Solinas, per sua stessa ammissione con quel tipico vezzo dell’intellettuale che si gratifica facendosi compatire). Triste e rancoroso e non soltanto perché l’autore del libro se lo porta addosso quale dna, a pelle si potrebbe dire quasi simile ad una specie di bisce d’acqua (perdonami, Roberto, ma l’immagine è troppo immediata e poetica per evitarla!) , tanto che spesso non se ne rende conto. E, allora, entriamo in contenuti e non disperdiamoci, more solito…

Il 16 marzo del ’68 riporta alcuni di noi agli scontri all’interno dell’università di Roma tra diverse decine di attivisti del M.S.I. e gli studenti del movimento studentesco, supportati da esterni e qualche elemento della Primula, poi Lotta di popolo (fra cui Lamberto con il volto sporco di sangue per una bastonata in bocca); i medesimi attivisti messi in fuga verso la facoltà di Giurisprudenza e l’intervento di alcuni di noi dalle scale del Rettorato e, poi, dei ‘pugilotti’ con Giulio Caradonna, Almirante a pavoneggiarsi quel tanto che basta e sparire (la vera ‘anima nera’ e non soltanto in quella occasione), i banchi che volano sulla schiena di Oreste Scalzone, l’arrivo liberatorio (che tristezza!) della celere… Anche questa, lo confesso, ‘nostalgia canaglia’… Qui, in rapporto e funzionale, sia per il libro di Solinas che per quello di Roberto (intendo alla tristezza, che si traspira fra le righe).

Merlino 2

Dopo alcuni anni reincontro Giulio e, con tono aspro, gli rimprovero la sua venuta, quel suo protagonismo da ‘vecchio trombone’, a rovinare quanto si andava costruendo dopo Valle Giulia (‘che cazzo sei venuto a fare, tu e tutti gli altri, quando non vi cercava nessuno e non avevamo certo bisogno di voi!’). La risposta fu eloquente e la riporto, tralascio quanto di personale ebbe a darsi a giustificazione (‘Arturo Michelini impose la mia presenza’), cioè l’esistenza del partito e di tutti loro era nel proporsi di fronte al ‘Grande Fratello’ (gli USA, per intendersi) quale zoccolo duro dell’anticomunismo rispetto alla tentazione ormai in atto della DC (i proconsoli tollerati della colonia Italia) di allargare il consenso a sinistra verso i socialisti di Nenni. Insomma la sopravvivenza era legata agli americani che impedivano di rendere esecutivo il deposito ricorrente di richiesta di scioglimento del Movimento Sociale ad ogni rinnovo di legislatura. Realismo politico e servile. La storia, però, è brutale e poco si affida alle illusioni, anche se a noi individui è lecito sognare.

Dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: ‘Vidi una donna bellissima con gli occhi bendati/ eretta sui gradini di un tempio di marmo./ Grandi moltitudini passavano davanti a lei,/ sollevando la faccia ad implorarla./ Nella mano sinistra teneva una spada./ Brandiva quella spada,/ colpendo a volte un bimbo, a volte un operaio,/ ora una donna che tentava sottrarsi, ora un folle./ Nella destra teneva una bilancia;/ nella bilancia venivano gettati pesi d’oro/ da quelli che schivavano i colpi della spada./ Un uomo con la toga nera lesse da un manoscritto:/ Ella non rispetta gli uomini./ Poi un giovanotto col berretto rosso/ balzò al suo fianco e le strappò la benda./ Ed ecco, le ciglia erano corrose/ dalle palpebre imputridite;/ le pupille bruciate da un muco latteo;/ la follia di un’anima morente/ le era scritta sul volto -/ ma la moltitudine vide perché portava la benda’. Se il sogno è infranto, pur sempre rimane un sogno bello. 6 febbraio 1934, ad esempio; 1 marzo 1968 Valle Giulia, altro e più modesto esempio (per questo il libro può essere triste nel suo emergere di uomini idee vicende che sposammo, sconfitti sì ma mai domi, ed è per questo che rigetto un certo rancore di chi assale il cielo e si accascia sul primo scalino e accusa, non si sa bene chi, d’essere stato defraudato. E, poi, chi può sostenere, senza ombra di dubbio, che abbiamo perso? Non sono affatto convinto, anzi…).

Vado a pagina 77 de Gli ultimi dei Mohicani, al capitolo dedicato agli anni ‘70 e trascrivo: ‘Interrogarsi su di essi vuol dire raccontare e rivivere quel lungo inverno del nostro scontento quando in molti (tutti?) fummo sul baratro e ancora non sappiamo come e perché ci ritirammo in tempo’. Alcuni anni fa un giornalista, che era stato militante in Avanguardia Operaia ed ora collaboratore di Lucia Annunziata, mi descriveva la sua esperienza – e quella dei suoi compagni – come stare sulla banchina della metropolitana vedere passare i vagoni pieni di gente e rimanere lì, prigionieri di quei sotterranei. Con tono amaro, traspirava tanto dolore aspro e sincero, come schiacciato dal tempo perduto e feroce, anche suo tramite mi sono chiesto di quale sconfitta abbiamo da cui leccarci in eterno le ferite (mai, dico mai, una notte, magari perché avevo bevuto o lo stomaco in disordine per troppo cibo, mi sono svegliato di soprassalto sudato scosso da brividi con gli occhi sbarrati e l’angoscia addosso per aver sognato gli anni delle sbarre e dei chiavistelli). Amico fragile, cantava Fabrizio de Andrè… troppi amici, camerati e non, fragili incerti storti nel rammarico nei ricordi in giustificazioni penose loro malgrado di come e quanto si era colmato il vissuto.

Eppure la domanda irrisolta di Stenio Solinas rimane così come quell’illusione d’essere oltre, di cui parla il Mancini. E se non le diamo ascolto o fingiamo di non coglierne il pressante richiamo, essere alfine messa in tavola, è perché ci appare tanto amara ed aspra e sincera – ci siamo tirati indietro per nobili ragioni, forse, per analisi politica, forse, o soltanto perché umanamente piccoli e vili, probabilmente-, soprattutto perché ci impedirebbe d’essere, comunque e nonostante tutto, ‘buoni’ borghesi… E la tristezza ed il rancore non si rende soltanto perché quel ‘socialismo fascista’ fu appunto un sogno infranto sotto la mefitica cappa di una destra fatta di perbenismo, egoismi inclusi, ma perché sempre il sangue antecede le parole e un libro evoca ma non cambia il mondo e, sovente, neppure noi stessi.

Da La memoria bruciata, ultime pagine, di Mario Castellacci, autore della Canzone strafottente, nota con il suo primo verso  ‘le donne non ci vogliono più bene’, copia con dedica personale. Siamo a Milano, il 25 aprile del ’45, Sgràub, che è l’autore stesso, è in cerca di un salvacondotto, in fuga in una città ove si uccide ad ogni angolo di strada, smarrito spaventato teso ad evitare d’essere identificato. S’imbatte in un giovane partigiano, armato di mitra, ebbro di vittoria e in cerca del suo momento di gloria, che lo ferma mentre dai balconi le donne affacciate ed esse stesse ebbre del furore, che attraversa tutto e tutti, assistono alla scena di lui che, maldestro, cerca di sottrarsi alla cattura. ‘A Sgràub sembrò di colpo che tutta quella situazione fosse sporca e meschina. Insopportabile. Era improrogabilmente l’ora di farla finita. Prese fiato, alzò il viso a guardare in alto la schiera delle donne vocianti, fissò negli occhi verdastri il ragazzotto e poi disse: – Sono un ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana!’…

In fondo è facile, liberatorio, atto assoluto dove non occorre il richiamo all’immagine dell’ultimo erede di una tribù in via di estinzione o inanellare da Platone in poi i tanti sogni gli ideali gli uomini che di quei sogni e ideali si fecero vanamente portatori. Basta il sapore della carne, del sangue ed essere contro, essere di quelli che sanno dire un Sì o un No secondo le circostanze. Sempre.

4 Comments

  • Francesco Gallerani 8 Ottobre 2015

    Domanda: hai combattuto, hai lottato, sei stato in prigione, hai creduto, per cosa?
    Hai deposto le armi (ideologiche e virtuali)?
    Non ci credo ti sia votato ad un esistenza borghese! Vecchio sì ma mai domo!
    Hai dimenticato la lezione di Juncker? “Ribelli fino alla morte”!
    Sono nato rivoluzionario e ci morirò!
    Tu?

  • Francesco Gallerani 8 Ottobre 2015

    Domanda: hai combattuto, hai lottato, sei stato in prigione, hai creduto, per cosa?
    Hai deposto le armi (ideologiche e virtuali)?
    Non ci credo ti sia votato ad un esistenza borghese! Vecchio sì ma mai domo!
    Hai dimenticato la lezione di Juncker? “Ribelli fino alla morte”!
    Sono nato rivoluzionario e ci morirò!
    Tu?

  • mario michele merlino 8 Ottobre 2015

    tempus loquendi, tempus tacendi… così a rimini nella cappella di ixotta nel tempio malatestiano… dall’ultimo romanzo dello scrittore spagnolo perez-reverte: ‘sei giovane solo la vigilia della battaglia. poi, vinci o perdi, sei invecchiato… capisci cosa voglio dire?’ …. e poi dove ho scritto d’aver scelto d’essere un rinunciatario?

  • mario michele merlino 8 Ottobre 2015

    tempus loquendi, tempus tacendi… così a rimini nella cappella di ixotta nel tempio malatestiano… dall’ultimo romanzo dello scrittore spagnolo perez-reverte: ‘sei giovane solo la vigilia della battaglia. poi, vinci o perdi, sei invecchiato… capisci cosa voglio dire?’ …. e poi dove ho scritto d’aver scelto d’essere un rinunciatario?

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