Coniò l’espressione ‘radicale chic’ per definire quei rampolli dell’alta società che appoggiano le cause più estremiste, purché esotiche, come mezzo per mondare la coscienza del loro viscerale odio verso i poveri.
Il politicamente corretto, spiegava, è uno strumento di controllo di questa classe di privilegiati sui ceti più bassi.
E la Nuova Sinistra sessantottina, col ripudio della continuità generazionale con antenati e posteri, ha aperto la via all’individualismo e all’atomizzazione della società.
(Citazione dal web)
Chi ha sempre apertamente detestato marxismo e liberismo, denunciandone i vizi e presentandoli come le due facce della medesima medaglia, certamente non s’è meravigliato per la notizia della presenza, il 5 maggio a Treviri, di Jean-Claude Junker alla commemorazione dei duecento anni dalla nascita di Marx. Ancora una volta la prova provata che, in realtà, liberismo e marxismo non sono stati mai veri nemici, ma solo coniugi litigiosi che nel corso dei secoli, però, hanno sempre trescato assieme, trovando alla fine su tutto delle convergenze inconfessabili.
Attualmente, il primo ci distrugge con il libero mercato, l’immigrazione allogena di massa, la distruzione dello Stato sociale e assistenziale, i diritti individuali preminenti su quelli comunitari e la cultura dell’individualismo e dell’egoismo; il secondo (ormai tramutato in Scuola di Francoforte con radicalismo anarco-trotzkista) con il mito del buon selvaggio, la colpe dei capitalisti “bianchi” (perché ovviamente solo i “bianchi” sono gli sfruttatori) e il relativismo (se non la negazione) etnico-culturale.
Entrambi tendono alla sostanziale uniformità dell’individuo e, a questo scopo, la società contemporanea, che entrambi hanno creato, tende a essere totalitaria, operando mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti e imponendo, attraverso l’utilizzo di un linguaggio ipocritamente artefatto, l’adozione di un pensiero unico universale.
Anche in questo, l’America, che è stata sempre anticipatrice ed esportatrice di mode e cambiamenti che poi, progressivamente, sono stati trasferiti in Europa infettando anche le nostre realtà, ha dato vita per prima a un modello di società che presentasse questi requisiti è che stata definita “liquida” dal sociologo ebreo Zygmunt Bauman. Per Bauman tra le caratteristiche di questo modello si può annoverare la crisi dello Stato (quale libertà decisionale rimane agli stati nazionali di fronte ai poteri delle forze supernazionali?) che garantiva ai singoli la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi e con la sua crisi si sono profilate la crisi delle ideologie, dei partiti e, in generale, di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni.
Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno. Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, da ciò una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono, da un lato, l’apparire a tutti costi, l’apparire inteso come valore e, dall’altro lato, il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti con cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti e il singolo passa da un consumo all’altro, in una sorta di bulimia senza scopo (il nuovo smartphone ci dà pochissimo rispetto al vecchio, ma il vecchio va rottamato per partecipare a quest’orgia del desiderio).
Crisi delle ideologie e dei partiti trasformati ormai in taxi sui quali salgono politici disinvolti che, a seconda delle opportunità, sono pronti e disponibili a cambiare casacca, opinioni e valori, simboli deformati di un alienante presente in cui non solo i singoli, ma la società stessa vive in un continuo processo di precarizzazione.
Questa realtà liquida s’è realizzata poco alla volta nel tempo, operando al proprio interno anche la sintesi alchemica tra le pulsioni eversive della sinistra (ormai postcomunista) e i fermenti liberal più proclivi al lassismo e al relativismo e l’America, con la sua matrice di conglomerato etnico e sociale, ha rappresentato come sempre, per un verso, l’incubatrice di questi fenomeni e, per un altro, il crogiuolo di ribellioni e di inversioni profondamente e rabbiosamente antitradizionali e antieuropee, sulle cui basi s’è costituito un mainstream di riferimento e un ambiente particolarmente oppressivo e conformista, al di là di ogni differente apparenza.
Per questo, chi in tempi insospettabili, ai suoi albori, è riuscito a ridicolizzare e mettere alla gogna quella farisaica società, svelandone in largo anticipo vizi e ipocrisie, è stato veramente un precursore e un anticonformista e merita rispetto. Per questo Tom Wolfe, morto a New York il 14 maggio scorso, giganteggia nel panorama intellettuale degli Stati Uniti e della stessa Europa, pigra e pedissequa imitatrice dei costumi d’oltre Oceano.
Giornalista di razza, mai seduto dalla parte della ragione più comoda e nemico del conformismo liberal, Tom Wolfe è famoso anche per i suoi romanzi, tra i quali “Il falò delle vanità” che divenne un bestseller ed è considerato un capolavoro della letteratura americana del novecento.
Proprio a lui si deve anche la definizione “radical chic” che Tom Wolfe coniò nel 1970, riferita agli esponenti autoreferenziali di quella che sarebbe divenuta l’odierna società liquida e che sarebbero stati poi i più attrezzati a sguazzarvi dentro.
Il 14 gennaio di quell’anno, Felicia Montealegre, moglie del celebre compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein, organizzò un ricevimento di vip e artisti per raccogliere fondi a favore del gruppo rivoluzionario marxista-leninista delle Pantere Nere e alcuni membri delle Pantere Nere furono invitati al ricevimento. Il party si tenne a casa dei Bernstein, un attico di tredici camere su Park Avenue (un ampio viale di Manhattan) e Tom Wolfe, presente in quella occasione, scrisse un ampio resoconto sulla serata, descrivendo in modo molto critico gli invitati, rappresentanti dell’alta società newyorchese. Ne risultò un articolo sarcastico in cui lo scrittore demolì l’ipocrisia e l’idiozia di quei super ricchi bianchi che, nei fatti, celebravano un movimento che nei suoi proclami prometteva di eliminarli.
In Italia, l’espressione fu ripresa da Indro Montanelli nel celebre articolo “Lettera a Camilla” del 1972, in forte polemica con la giornalista Camilla Cederna, quale ideale rappresentante dell’italico “magma radical chic”, superficiale e incosciente culla degli anni di piombo. In seguito, egli chiarì che la vera destinataria della lettera aperta era invece Giulia Maria Crespi, allora padrona del “Corriere della Sera” e amica della Cederna, con la quale i dissidi sarebbero sfociati, l’anno seguente, nell’allontanamento di Montanelli dal quotidiano di via Solferino, dove lavorava sin dal 1937.
Radical chic è così divenuta un’espressione idiomatica per definire gli appartenenti a quella borghesia progressista che, per seguire la moda, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostentano idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale o comunque opposte al loro vero ceto di appartenenza. Per estensione, la definizione di radical chic comprende anche uno stile di vita, un’aria frequente di ostentato disprezzo del denaro, quando in realtà si gode di un’abbondante disponibilità finanziaria, ovvero un atteggiamento che si identifica con la convinzione di una superiorità culturale, nonché con l’ostinata esibizione di questa cultura “alta” e l’ossessione del linguaggio politically correct, riducendo spesso il tutto a mera apparenza priva di qualsiasi sostanza, svelandone la natura esclusivamente snobistica.
Si concreta in quella definizione tutta quella casta politico intellettuale e mediatica che, qui in Italia, detiene larga parte dei mezzi di informazione e che, in maniera assillante, propugna le tematiche progressiste, umanitarie, multietniche e omofile in ogni ambito della realtà sociale, culturale ed educativa del Paese, cioè l’espressione ultima e più detestabile di quel coacervo ideologico che sostiene tutte le più ributtanti inversioni della vita sociale, familiare e sessuale.
In quella definizione si sostanzia tutto ciò che c’è di più lontano da ogni concezione tradizionale e da qualunque visione del mondo in chiave sociale e nazionale.
Tom Wolfe si divertiva proprio con questa gente, mettendone alla berlina le miserie e le contraddizioni, ma a noi, quotidianamente alle prese con gente come Gianni Riotta, Roberto Saviano o Massimo Gramellini, corre l’obbligo, anche in suo nome, di sommergerli con le nostre risate e, all’occorrenza, anche con qualche deiezione.
Enrico Marino
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