E’ il fratello Guido, anch’egli volontario sedicenne nel btg. Lupo della Decima MAS, a ricordarne gli ultimi istanti e le ultime parole di Attilio: ‘…quando oramai era a tutti chiaro che non c’era più nulla da sperare, uno dei fratelli che lo assisteva, vedendo il suo strazio, mormorò – Coraggio Attilio! -. Si riscosse un poco, riaprì per un istante gli occhi e disse: – Coraggio a me? Ne ho bisogno ormai per poco. Coraggio a voi che continuate a vivere! –‘. Ospedale di Merano, 20 luglio 1945, Attilio Bonvicini aveva 24 anni.
(Gesto umanissimo pur nella consapevolezza della sua inutilità che solo chi ha attraversato la medesima esperienza può coglierne il senso. Ospedale Maria Ceccarini di Riccione, è il primo agosto 1991, i medici ci avvertono, siamo presenti le mie tre sorelle ed io, come a mio padre rimangano oramai ore, forse molto meno. Gli stringo la mano e gli parlo. Gli racconto degli esami di maturità a Gorizia, svolti da commissario esterno a giugno, di aver visto in diretta due carri armati della ex Jugoslavia saltare in aria sotto i colpi dei bazooka della milizia slovena, della I Guerra Mondiale, a lui tanto cara bambino di dieci anni di famiglia di interventisti risorgimentali, e della flotta italiana di navi mercantili inviata sulla costa dell’Albania a portare in salvo i resti dell’esercito serbo in fuga e incalzato da quello austro-ungarico. Mi confondo tra il porto di Valona e quello di Durazzo. Non riapre gli occhi, ma quasi in un sussurro mi corregge. Poco dopo un soffio estremo, la fine).
Attilio Bonvicini, nato a Trento il 28 settembre 1921, rappresenta nella storia della XMAS una figura, oserei dire, di mistico guerriero, di quella purezza d’animo e di intenti che, appunto, viene ricondotta sovente a quegli ordini monastici atti a privilegiare la spada pur non negandosi ad un senso trascendente e spirituale dell’esistenza. Rimasto ferito sul fronte greco, con invalidità permanente, la notizia dell’8 settembre arriva mentre si trova nel convalescenziario di Stresa sul lago Maggiore. E’ tentato dall’idea del suicidio di fronte a tanta umiliazione, ma aveva annotato nelle scarne pagine del diario, 5 settembre 1943: ‘ Ma se vivere è rinunciare, allora è come morire’. E togliersi la vita, avverte nell’intimo del suo animo, è quel rinunciare a fare della propria esistenza scelta sfida lotta. ‘Per me la decisione non può essere che una: stare coi Tedeschi, ai quali ci lega un patto e una guerra combattuta assieme. E ciò per lealtà e senso d’onore. Al di là di ogni sentimentalismo e di ogni interesse pratico’(10 settembre). Il 4 dicembre, rotto ogni indugio e pur ancora necessitante cure ed assistenza, si arruola nella Decima Flottiglia MAS.
Il suo diario, intitolato non a caso La scelta, è stato pubblicato più volte e sempre a cura dei commilitoni, di quei marò rimasti fedeli a se stessi e a quella esperienza, dal carattere di unicità e riconducibile, in un certo senso, alle Compagnie di Ventura di epoca rinascimentale (io possiedo l’edizione del 1990, in bella veste editoriale voluta da Carlo Alfredo Panzarasa, di cui mi onora la sua amicizia, già volontario di Francia del btg. Fulmine). E che il tenente Bonvicini rappresenti un riferimento, un punto alto e nobile per intendere il volontariato della Decima, sta anche in quel Ritratto di Attilio, riprodotto in ogni edizione del suo diario, scritto dal professor Piero Operti, che nel 1944 era membro della Resistenza di fede monarchica a Torino, che ebbe occasione di conoscerlo e parlare con lui (e su Ereticamente, credo uno o due anni fa, venne riprodotto l’intero passo).
(Allego locandina, distribuita su facebook, dell’evento di domenica 7 dicembre e lunedì 8 dedicato a Junio Valerio Borghese, che della Decima fu indiscusso Comandante, la vita avventurosa le operazioni in mare e quelle in terra la lotta politica l’esilio la morte e le sequenze filmate del suo funerale nella basilica di Santa Maria Maggiore. E la data dell’otto dicembre, la cosiddetta ‘notte della Madonna’ o in codice ‘Tora! Tora!’, rievocano momenti su cui il mondo delle chiacchiere ha intessuta una mefitica ragnatela e che vale la pena dipanare anche se le male lingue non desisteranno di certo… Per quanto mi riguarda era già da quasi un anno che ‘marciavo’, tutto fiero delle mie catene, in uno spazio di tre metri per sei e lo sguardo abbracciava un rettangolo di cielo a scacchi. Chissà se fu un bene che ‘amici’ in maschera da carabinieri non arrivassero mai e mi lasciassero senza rimpianti rimorsi rancori rivalse?).
Non è, però, di Attilio Bonvicini che intendo scrivere oltre né della Decima o di Borghese nella memoria di prima dell’8 settembre del tempo successivo della guerra civile e, dopo l’aprile del ’45 e il carcere di Procida del suo inserirsi in una Italia altra. Più volte mi sono soffermato su questi temi, a me cari, e di certo vi tornerò in altre occasioni. Qui vorrei spingere la mia – e se qualcuno dei lettori vorrà fare altrettanto – riflessione proprio sulle ultime parole di Attilio. Sul coraggio di vivere, insomma… un coraggio di vivere ben più necessario rispetto a quello con cui si dovrebbe, sempre, affrontare la morte.
Diciamo che ci siamo nutriti – e, a volte, ci siamo sentiti defraudati di quella ‘bella morte’ di cui parla Giano Accame, ad esempio, nel suo libro postumo – della testimonianza di quel tempo eroico che l’anagrafe ci aveva sottratto di guardare negli occhi. (In questi giorni di pioggia, di grigio, nell’anniversario dell’assassinio di Codreanu, il 30 di novembre, in tante parti d’Italia compaiono scritte con sue affermazioni come ‘seguire gli esempi per essere esempio’). La testimonianza è la risposta più autentica alle gabbie dell’ideologia, ai molti inganni di una razionalità perversa e giacobina, arrogandosi il diritto d’essere equiparata al bene, alla visione dogmatica di un comunismo annientatore della diversità e intrinsecamente falso (già il termine in sé di ideologia travisa il pensiero di Marx che la considerava ‘mistificazione della realtà’). La testimonianza, già, ma anch’essa se non rigenerata dal personale vissuto di ognuno di noi una prigione, universo sidereo ostile irraggiungibile e, alfine e suo malgrado, incapacitante.
‘Il sangue non è un buon testimone’, ammoniva Nietzsche. Di quel sangue, che comunque da ‘scrittore’ lo privilegio all’inchiostro, fu versato a fiumi e ci sommerse, lavacro purificatore certo, perché con esso vollero tacitare le ragioni più originarie che vi erano a fondamento. Mi spiego – o provo a farlo –. Il sangue versato da Achille Starace, ad esempio, che volle essere fucilato volgendo all’improvvisato plotone d’esecuzione le spalle per poter stendere il braccio verso il Duce a piazzale Loreto quale estremo saluto, è di buona razza e merita ogni rispetto, ma non ci sottrae alla critica verso il suo ruolo all’interno del Regime. Della morte di Giuseppe Solaro s’è scritto, ma fino ad oggi poco o nulla si conosceva di questo giovane di trentuno anni le ragioni spese a favore del lavoro della giustizia sociale della socializzazione. Insomma piangemmo i fratelli più grandi caduti sotto la mattanza partigiana ma, sovente, ciò divenne alibi per ridurre il nostro agire in gesti di rivalsa e rancore con i bastoni e la spranga. E faticammo a scoprire che ben altro era il vero nemico, quel nemico che troppo spesso ce l’avevamo in casa…
(Intorno al tavolino, in quel dicembre del ’46, dove sedettero i futuri reggitori, eredi malsani reduci grandi fortunati di quella mattanza, del partito che avrebbe dovuto simboleggiare la vivida fiamma della memoria e della riscossa, aleggiava ben presente la consapevolezza che la sconfitta era totale e che solo accodandosi ai nuovi reggitori era lecito sperare nella sopravvivenza nella famiglia e in qualche prebenda… Il filosofo Bertrand Russell diceva, a proposito della minaccia nucleare, ‘meglio rossi che morti’. I nostri non dicevano, ma erano stolidamente certi che era meglio stare all’ombra della bandiera a stelle e strisce e dei proconsoli dallo scudo crociato. Con buona pace dei ‘giovanotti’ arditi e sprovveduti che si facevano le ossa e qualcuna ne spaccavano in piazza a scuola nelle università…). Amen e vaffanculo!
Altro ancora. Perché imparammo presto – fu causa del nostro impegno politico, dubito fu conseguenza – a sentirci, simili a gnostici o angeli (o forse pipistrelli?) dalle ali strappate, stranieri estranei strani del mondo che ci circondava. (Leggo La nausea di Sartre sotto un lampione, il martello infilato nei pantaloni, in attesa dello scontro con i compagni. Leggasi E venne Valle Giulia). E non sempre riuscimmo a vivere con il sorriso sulle labbra, la strafottenza e la spavalderia. Mimmo, ne ho tratto un articolo qui, su Ereticamente, si illuse di poter vincere il principio di gravità e volò verso il basso da una finestra di viale Somalia… ‘Coraggio a voi che continuate a vivere!’… A Regina Coeli leggo di un diciassettenne francese, di cui non rammento il nome, che si tirò un colpo di pistola alla tempia e lasciando su un foglietto scritto: ‘Nascere per dovere, vivere per obbligo, morire per caso’. Altri hanno desistito attratti da altre sirene. Un tempo li disprezzavo, ho cercato poi di comprenderne le debolezze, oggi mi annoiano. Riprendo in mano La scelta, leggo in data 23 agosto del ’44: ‘… fra le delizie di un paradiso l’uomo è assalito dal male più terribile, la noia. Vivere senza soffrire, senza sudare e lavorare, è questo il solo vero dolore. E per ciò l’uomo combatterà sempre contro la natura, contro se stesso, contro gli Dei, per vivere’.
(L’angoscia è trovarsi immerso ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley non in 1984 di Orwell).
Dai, ragazzi, non prendetemi troppo sul serio, non date retta a questo vecchio scemo… ‘Uno schianto non una lagna’. Abbiamo imparato anche e in fretta, come aveva inciso nel legno il mio amico Albert ‘Tout me fait rire’, a rendere la vita un lieve passo di danza di ridere cantare far di sberleffo ed ‘… entrare nella morte ad occhi aperti’. Vecchia bagascia…
Mario M. Merlino