I fatti di Lonate Pozzolo impongono una riflessione sulla corruzione della pubblica amministrazione in Italia, che secondo stime attendibili del CGIA di Mestre del 17 marzo 2015, in Italia ha raggiunto i livelli di Senegal e Swaziland, ed è un serio freno alla competitività dell’intero sistema. Il problema non è (solo) giudiziario: quello interessa i giudici, che saranno chiamati ad accertare le responsabilità penali ed amministrative. Il problema è politico, nel senso “alto” del termine. Perché non serve a nulla “gridare” l’appartenenza politica di questo o quel politico coinvolto in eventi corruttivi, quando la situazione è praticamente endemica. Chi vuole compiere un’analisi politica e non gridare slogan, deve indagare sui motivi del dilagare del fenomeno e non attaccare il partito a cui è iscritto il corrotto di turno.
Certo, c’è un fondo “antropologico”. Se viviamo in un contesto in cui la considerazione sociale è meramente economica, non vi è alcuna profilassi sociale nei confronti del corrotto, che godrà della stima della gente per il suo tenore di vita e non dell’isolamento per effetto della sua disonestà, ondeè quasi “naturale”, nell’attuale “contesto”, la larga diffusione del fenomeno. Ma vi sono altre cause, individuabili in un vero e proprio “sistema criminogeno”. La virtuale scomparsa del sistema dei controlli in nome di una malintesa “efficienza” dell’amministrazione,è certamente una delle cause preponderanti della tendenza alla corruzione. La consapevolezza di non incontrare alcuna verifica al proprio operato, è senza dubbio una remora in meno alla commissione di illeciti. Ma vi è di più.
L’eccessivo “peso” della burocrazia, spesso inutile, fa aumentare le occasioni di incontri corruttivi. Ma certamente non è ipotizzabile un Far West in cui ognuno agisca senza dar conto a nessuno. La burocrazia è necessaria, ma un suo snellimento farebbe diminuire le “tentazioni”. Il problema più imponente è però quello della selezione della classe dirigente. Negli anni 90 fu molto propagandata la scissione delle funzioni di indirizzo da quelle di gestione quale mezzo di interdizione della corruzione della classe politica. “I politici non dovranno più toccare una lira” era lo slogan del momento.
Sta di fatto che, parallelamente alla separazione tra le due funzioni (oggi cristallizzato nell’art. 4 D.Lgsl. 30 marzo 2001 n. 165), veniva rivoluzionata la dirigenza. Maggior potere ai dirigenti, soliti slogan ed anglismi come “managerialità”, con improponibili paragoni tra amministrazione pubblica ed impresa privata. E riforma del sistema di reclutamento dei dirigenti. Via ogni requisito “serio”, scelta basata sulla “fiducia”, così praticamente “consegnando” i dirigenti nelle mani dei politici che li nominano. Qualunque laureato che abbia maturato cinque anni di “esperienza” (la legge parla fumosamente di “concrete esperienze di lavoro”, puòessere chiamato ad esercitare mansioni dirigenziali, contestualmente il politico è libero, senza alcuna motivazione, di far “ruotare” i dirigenti, così potendo allontanare un dirigente “scomodo” al momento opportuno.
Proprio i fatti di Lonate Pozzolo dimostrano nel modo più evidente gli effetti criminogeni dell’attuale disciplina della dirigenza. Il sindaco aveva minacciato di rimozione il comandante della polizia municipale che non si piegava alle pressioni. Il problema è che– come detto – è improponibile il parallelo tra impresa privata e pubblica amministrazione. L’imprenditore ha come fine il profitto, la pubblica amministrazione l’interesse pubblico. L’imprenditore amministra soldi propri, la pubblica amministrazione soldi dei cittadini. Perciò l’imprenditore può essere libero di scegliere il dirigente secondo la fiducia che gli ispira, il pubblico amministratore no, perché l’imprenditore rischia in proprio ed è giusto che abbia la massima discrezionalità nel decidere chi debba amministrare il suo capitale. Il pubblico amministratore non può godere della stessa discrezionalità.
Perché va detto che il sistema Italia, oltre ad essere corrotto, è anche inefficiente. Sempre il CGIA di Mestre, ha accertato che la burocrazia italiana è la meno efficiente d’Europa (comunicato del 22 febbraio 2014). E l’inefficienza è vizio ancora più grave della corruzione. Per copiare un’espressione di Aldo Giannuli, “meglio corrotto che cretino”. Purtroppo, i criteri di selezione dei dirigenti e – soprattutto – l’assenza di previsione di severi requisiti per ricoprire cariche dirigenziali, ha creato una classe burocratica inefficiente e corrotta, legata al potere politico molto più ogni rispetto all’epoca in cui la classe politica aveva anche poteri di gestione. Neanche la tanto strombazzata “riforma Madia” varata dal Consiglio dei Ministri ha messo mano al sistema di selezione della dirigenza.
Misure demagogiche, ancora una volta “figlie” di un malinteso senso di assimilabilità tra impresa privata e pubblica amministrazione. Il “giudizio dei cittadini” così tanto sbandierato, fa pensare più ad un cliente non soddisfatto della qualità di un hamburger da Mc Donald’s che non ad un giudizio sull’efficienza della pubblica amministrazione. Il cittadino comune non solo non ha i mezzi tecnici per valutare l’operato del dipendente, ma – nell’ambito del suo “particulare” di guicciardiniana memoria – potrebbe essere indotto ad utilizzare il giudizio negativo quale mezzo di pressione per ottenere provvedimenti non dovuti. E c’è il concreto rischio che le grosse lobbies possano utilizzare sistematicamente proprio questa arma di pressione.
Ma, si ripete, il punto è che occorre riformare ab imis il sistema di selezione e di valutazione della classe dirigente. In attesa di una palingenesi del “sentire comune” che faccia stimare le persone per ciò che sono e non per ciò che hanno, bisogna fissare requisiti rigorosi e dotati di SPECIFICITÀ per l’esercizio di funzioni dirigenziali, prevedere prestigiosi corsi di formazione, affidati al mondo universitario, per gli aspiranti dirigenti, escludere i politici dal procedimento di scelta dei dirigenti e da qualunque gestione delle loro mansioni, prevedendo controlli inflessibili affidati, anche questi, al mondo universitario, per valutare l’efficienza dei dirigenti: solo allora la separazione tra funzioni di indirizzo e funzioni di gestione potrà raggiungere il fine di svelenire la politica dagli affari ed avere dirigenti con le potenzialità necessarie per guidare la classe burocratica di una nazione. I corrotti ci sono sempre stati e ci saranno sempre, ma la netta separazione tra chi fa politica e chi gestisce il denaro pubblico, con la conseguente reciproca vigilanza, ed un adeguato sistema di controlli, potrà diminuire le occasioni corruttive.
Luigi Morrone