Hegel[1] e Guénon[2] rappresentano due modalità principiali del pensiero: il primo della visione indoeuropea del mondo ed il secondo della visione orientale ed asiatica. Esempio di ciò, e di una chiarezza lancinante, è il discorso hegeliano sulla realtà che è l’Assoluto, nel senso che l’Assoluto è la realtà e che questa è, coincide con la necessità, “oltre” la necessità che è già presente da sempre, dall’eternità che è essa stessa, non vi può essere “altro” ed “altro” non v’è!
La Possibilità Infinita, che al nostro grado di conoscenza è preclusa, è il concetto, correttamente espresso da Guénon, intimo al pensiero essenzialmente acosmico che egli riferisce. Tale concetto ha per fondamento il discorso intorno al Principio quale unica e vera Realtà che, contenendo tutta la Possibilità Universale, è il Vero non-manifesto ma, nel contempo, acosmicamente, la unica realtà, cioè il non-manifesto che è il Non-Essere, il Vuoto, il Silenzio, in cui tutte le Possibilità di tutte le forme molteplici dell‘Essere di tutti gli Esseri possibili e di tutti i Mondi possibili, sono contenuti, non potenzialmente ma eternamente presenti. Guénon, quindi, non riferisce la dottrina della Potenza primordiale, che deve realizzarsi nell’Atto, Azione prima che produce il Mondo e che si sarebbe potuto ricondurre quasi al discorso aristotelico; dove, però, quella Potenza è già Atto della stessa, in quanto l’Origine, per il pensiero indoeuropeo, non è il non-Atto ma l’Essere più pieno nel vero senso della parola, anzi il più che essere, l’oltre-Ente, l’epékeina tes ousìas. Guénon, invece, espone la dottrina pura della Potenza quale Origine che contiene tutto ciò che può essere e può non essere manifesto, quindi la Possibilità Infinita che, avendo in sé tutti gli Esseri di tutti i Mondi, è un Atto che non è Atto, è l’antimondo, è il senza-mondo e, quindi, è Non-Essere che fonda un pensiero il quale, conseguenzialmente, non conosce il Mondo, poiché conosce solo la Via del riconoscimento che la vera Realtà, che è non-reale, è quella Possibilità Infinita verso la quale fare “ritorno”, è la Divinità come Unico nella quale annullarsi!
Il pensiero indoeuropeo, esemplarmente storicizzato in Hegel, sa che la verità è la realtà dell’atto, di ciò che è, in cui essenza come risultato del concetto, coincide sempre con esistenza che è il risultato dell’apparire; dove non vi è essenza che sia priva di esistenza; e sa che ciò è l’Essere che è l’Idea cioè l’Assoluto, esso è il Manifesto nella Luce, l’Evidente, il necessario, come lo è per la sapienza greca; nella spiritualità indoeuropea, infatti, la polarità è rappresentata dall’Invisibile e dal visibile che sono esistenti e manifesti da sempre e da sé, non sussistendo pertanto alcunché che sia immanifesto, poiché tutto ciò che è non può che essere e tutto ciò che non è non può che non essere. Per Guénon e per il pensiero orientale, invece, il Vero, la Realtà è il non-manifesto, ciò che non è evidente e quindi il non-esistente poiché non-necessario, in quanto non vi è niente di visibile che sia necessario; il che significa, in guisa ancora più grave di quanto avvenga nella credenza creazionistica, che il Mondo è semplicemente “qualcosa” di ibrido, in bilico tra un “essere” pallido ed opaco e un non-essere, quindi è apparenza, illusione, Maya. Tale è la pura teoria che si fonda sul concetto dell’assenza del Mondo: l’acosmismo, cioè il Vuoto e quindi lo Zero, l’Infinito che sono concetti di una tale indeterminatezza che quasi non sono propriamente concetti e sono coincidenti con l’impensabilità del Nulla come apologia della “fede” dualista nell’impotenza dell’Intelletto a conoscere l’Assoluto.
L’origine di tali visioni proviene dall’Oriente; il pensiero greco infatti ignora lo zero e l’astrazione stessa di infinito, àpeiron, è considerato “male”… in quanto non “perfetto”. Ecco la ragione filosofica del sistema del Silenzio, del monachesimo eremitico orientale come “monos”, singolo atomo che nega la Comunità in un rifiuto del Mondo e della Parola, esatto contrario della spiritualità indoeuropea che si fonda sulla Città e sulla “parresìa” come diritto inalienabile dell’uomo libero, dell’àristos, di parlare nell’assemblea dei suoi pari, affermando la Verità. L’acosmismo è, in termini filosofici, pur sempre un passo molto più in là del dualismo che, nella sostanza, è infantilismo del pensiero, poiché non sa andare oltre la apparente frattura tra Io e Mondo (esempio di dualismo infantile è lo psicologismo cristiano…).
Il cuore pulsante dell’idea del mondo della spiritualità indoeuropea è la Polarità[3] nel Mondo stesso! Non vi sono pertanto “due” realtà (spirito-materia, anima-corpo, Dio-mondo) che sarebbero, e sono, “due” relativi l’uno all’altro e quindi non fondatrici di alcunché; la Realtà è Una ed è Plurale cioè vive della polarità degli Enti che sono essa stessa, ma essa, solo nella sua Interezza e nella sua Infinita-Finitezza e Finita-Infinitezza, come nella sua mobile-immobilità e immobile-mobilità, è la Verità, in quanto, come insegna Hegel, l’Intero è il Vero. È ciò che i Greci chiamano la Polarità nell’Uno dei Molti, dove l’Uno non esclude i Molti ed i Molti non sono senza l’Uno poiché in tutti Esso è e non è (Platone, Parmenide, 156 c). L’acosmismo si esprime nel concetto del Tutto è l’Uno dove l’Uno inghiotte e assorbe il Tutto o il Tutto si annulla nell’Uno; l’Idea teocosmica indoeuropea si esprime, invece, nel concetto Uno è il Tutto, Èn to pàn, il cui significato è palese: l’Uno si identifica con il Tutto, nel senso platonico (vedi il Proclo, Elementi di teologia) in cui Lui è in ognuno degli enti consentendo così il loro essere, quindi è il Tutto! In termini spirituali è la visione del Circolo perfetto e finito, necessario ed eterno, quale simbolo del Mondo che è l’Ouroboros.
Nella sua radicalità, il cuore del pensiero asiatico-orientale è il concetto non esprimibile (il Silenzio) dell’Infinito, è il taoista «wei wu wei» = «agire non agire» che è l’Abisso (l‘Abgrund di Echkardt), il Vuoto (i Greci lo chiamano caos… !), la Possibilità di tutte le possibilità; è il non-manifesto. Pertanto qui il Vero non è espresso, non è manifesto, non è “fuori”, non esce al mondo come “parola”, non vi è Logos, ma Silenzio, anzi Assenza della Parola; è la negazione definitiva dell’Essere nel senso greco del termine, della phýsis, del Cosmo (che per i Greci è l’idea opposta a quella di caos, cioè a quella di Vuoto e quindi di non essere).
Anche il mondo spirituale indoeuropeo ha l’intuizione di “qualcosa” che è “prima” del Manifesto[4], ma quel “prima”, come chiarisce Kerenyi a proposito del Premonadico e del Monadico, è già nel Mondo, anzi è il Mondo; l’Eterno è (il concetto del) il Mondo, il Mondo è l’immagine mobile dell’Eterno, immagine che non muta mentre diviene, essendo mobile, cioè nel tempo, nella storia, anzi è la stessa vicenda degli uomini (lo spirito oggettivo di Hegel); mentre l’Eterno che è l’Istante, pur essendo fuori dal tempo, ma non Immanifesto, muta… e qui si ritorna al Parmenide di Platone…
Nel lessico indoeuropeo l’Immanifesto ed il manifesto sono detti l’Invisibile ed il visibile, con significati semanticamente del tutto differenti, poiché la spiritualità della cultura degli Arii (dalla Germania alla Grecia e Roma e da queste all’India vedica) non può pensare il non essente, cioè il non manifesto, non può pensare il vuoto, il nulla, poiché il nulla non è, quindi non può pensare il falso che equivale ad affermare che il Tutto non è il manifesto oppure che tutto ciò che è manifesto non è il Tutto. La polarità indoeuropea, come abbiamo accennato, é altra: Tutto è manifesto e contiene, consiste nella complessità di Invisibile e visibile; non vi è una Possibilità, anche remota, che si manifesti “qualcosa” che, allo stato attuale, è immanifesta, poiché il Tutto è Reale, attuale ed eternamente presente e ciò che è non può non essere, mentre tutto ciò che può essere, già è da sempre!
Se affermiamo, pertanto, che la polarità è quella che appare nel Tutto già manifesto, che è ab aeterno, per lo effetto la distinzione è tra il manifesto, essere-esistenza, attuale, nella dimensione dell’Invisibile ed il manifesto, essere-esistenza, attuale nella dimensione del visibile; pertanto, in una parola, è proprio il concetto di “immanifesto” che l’uomo indoeuropeo non pensa, poiché la sua anima è aliena, estranea all’astrazione del pensiero che nega se stesso e cioè la realtà, giungendo a “pensare”, in guisa non logica, “qualcosa” in potenza, cioè del tutto inesistente.
Comprendere la radicale differenza che sussiste tra le due prospettive equivale a tematizzare da un lato, la natura dell’acosmismo del Tutto che si annulla, si annichila nell’Uno, non come Attualità ma come Possibilità Infinita ed è il pensiero di Guénon, come sopra abbiamo evidenziato, nonché di tutte le culture orientali, e dall’altro, tutta la cultura indoeuropea dalla Scandinavia all’India, la quale afferma la realtà dell’Uno che è il Tutto, che è nel Tutto e dei Molti che sono Uno che è già qui, presente, da sempre, nella sua luminosa attualità, perché è il Pieno che viene dal Pieno e che dà il Pieno, è l’Essere che viene dall’Essere e dà l’Essere, è Atto che viene dall’Atto puro e genera Atto: il Mondo come Idea è Atto! È d’uopo, a questo punto, evidenziare, anche se incidentalmente, che la visione del mondo che si può trarre dalla fisica dei quanti e dalla sua meccanica, non fa che confermare, nel merito ed in pieno XX secolo, tale antica sapienza indoeuropea, ribadendo infatti che il vuoto non esiste e non può esistere atteso il fatto che l’Universo nella sua intera complessità, consiste in una realtà che chiamiamo campi gravitazionali di energia, definita imperfettamente “particelle” che, quale realtà molto simile al concetto platonico di Chòra, che si può “pensare” solo con un pensiero bastardo (Platone, Timeo), è la matrice universale di tutte le forme da cui emergono, senza che il “campo di energia” sia mai alcuna di esse, costituendo le stesse di esistenza e sostanza sia nell’infinitamente piccolo che nell’infinitamente grande (e si ritorna al concetto platonico della Dualità di grande e piccolo), il tutto secondo l’Ordine dell’Intelligenza universale che, nel livello di conoscenza fisica, è l’Energia medesima di cui parla la stessa teoria dei quanti.
Tali sono le ragioni filosofiche per cui alla polarità non indoeuropea di Immanifesto-manifesto, è da contemplare quella di Invisibile-visibile.
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È noto che Hegel, nel dissentire da coloro i quali definivano Spinoza “panteista”, giunge, in virtù del suo spirito indoeuropeo, a precisare, in termini filosofici, che la prospettiva spinoziana è “acosmica” in senso giudaico-cristiano, e non panteista, e ciò vuol significare che il Tutto, il Mondo è assorbito, annichilito nella Sostanza; simile, a nostro avviso, è la spiritualità di Meister Echkardt che, non a caso, nella sua sapienza, tematizza il concetto di Divinità quale Abgrund cioè “Abisso senza fondo”, che altro non è che lo Zero metafisico o Vuoto assoluto, concetti radicalmente assenti nella spiritualità occidentale, dove l’Uno-Principio, anche nella prospettiva apofatica, pur essendo “al di là dell’essere”, come afferma Platone, non è assolutamente da considerare come se fosse il Vuoto.
Alla luce di tali considerazioni, Evola, essendo un platonico e quindi non un dualista, in quanto anche egli spiritualmente indoeuropeo, ha il medesimo pensiero di Hegel nei confronti dell’acosmismo orientale, dove il Tutto è Uno e il Mondo, il Divenire, le vicende degli uomini, le civiltà, l’Impero, lungi dall’essere ritenute sacre, poiché ritualmente sacralizzate e pertanto salvate dalla dissoluzione del Tempo (Impero Sacro = Uno è il Tutto dove l’Uno è trascendente immanente e il Sacro è nel Mondo…) sono solo in Dio, nel senso che l’unica Realtà è la Divinità che è Infinito ed il Mondo è apparenza. Infatti, la spiritualità orientale ignora l’irruzione attiva del Mito e del Sacro nel Mondo che, secondo la visione indoeuropea (vedi Roma…!), viene sacralizzato mediante l’azione rituale, consentendo così il movimento, il divenire, il conflitto quindi la polarità, salvando però tutto ciò, cioè il Mondo nel suo complesso, poiché lo stesso è coniugato con il Principio che ne è il Fondamento[5] ed è in esso medesimo in quanto fondato e questo è il concetto di Trascendenza Immanente tematizzato da Evola; il Principio, pertanto, secondo la visione asiatica, non è, come in Occidente, l’Essere finito e perfetto, nel senso di compiuto e non bisognevole di altro, ma è l’Immanifesto ed è la Possibilità Infinita; quindi il Mondo, lungi dall’essere ciò che non può non essere, è in quanto uscito dalla Possibilità, potendo anche non essere mai stato o essere altro da ciò che è; opzioni che il creazionismo fideistico “risolve”, a modo suo, ipostatizzando l’astrazione dell’actus essendi tematizzata da Tommaso d’Aquino. La via per l’unità, che è il fine iniziatico di ogni Tradizione, quindi, secondo la spiritualità orientale, è la Liberazione dal Mondo[6] che è non-essere e inganno poiché è il Manifesto, per sciogliersi nella Divinità che, essendo l’Immanifesto, è il Vero.
Infatti, nello Yoga sutra di Patanjali, l’assimilazione all’oggetto della meditazione – samadhi – non è l’aphè o l’epharmogè plotiniana, proprio perché nella prima c’è un’ idea-anelito di annullamento che è tutt’altro dall’identificazione- mònos pros mònon, di cui parla Plotino al termine dell’Enneadi, che è, in sostanza, la omòiosis Theò della Tradizione platonica. Per tale ragione, nella spiritualità occidentale, al contrario, la via per l’unità passa attraverso la Libertà Ellenica e Romana (eleutherìa e libèrtas sono, infatti, concetti fondamentali poiché costituenti la dignitas indoeuropea) di agire nel Mondo che è la phýsis ed è Atto puro nella sua Idea, mediante l’Ascesi o Contemplativa o dell’Azione, dove il Tutto è Manifesto e Attuale e consiste nella polarità, intrinseca allo stesso, di Limite-illimite (Platone, Filebo) ed è l’Intero ed è l’Atto da sempre, nel senso in cui Aristotele precisa che comunque l’Atto è sempre logicamente anteriore ad ogni Potenza.
A nostro avviso, tali sono le ragioni profonde, filosofiche, che inducono Evola a dialogare con l’Oriente e la sua spiritualità, privilegiando però la ricerca, se così si può dire, dell’Occidente presente nell’Oriente, cioè di quelle culture e spiritualità indoeuropee, come la Iranica[7] e la Vedica arcaica o come la Dottrina del Risveglio del Buddha, in cui Evola ritrova se stesso e l’eterna radice universale del Platonismo come unificazione-identificatrice, quale suprema legge della teosofia iniziatica; essa consiste nell’essere Uno che non nega il Mondo, ma Uno che è nel Mondo, pur essendo altro dal Mondo, ad esso vicinissimo ma nel contempo lontanissimo.
La Via dell’Occidente, pertanto, è la sublimazione dell’Io in quanto si riconosce Se: “Io sono Te!” (Plotino afferma: “Il compito non è essere buoni e virtuosi ma essere Dei!”- “Non devo io andare agli Dei, ma gli Dei venire a me!”); la via dell’Oriente è, invece, lo scioglimento-annullamento dell’Io nell’Assoluto quale “Abisso senza fondo” o Possibilità Infinita, dove il significato spirituale di tutto ciò è: “Io non sono, Tu sei il Tutto!”
Giandomenico Casalino
NOTE
[1] G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, 2 voll., Bari 1994.
[2] R. GUÈNON, Gli stati molteplici dell’essere, Milano 1996.
[3] G.E.R. LLOYD, Polarità ed analogia. Due modi di argomentazione nel pensiero greco classico, Napoli 1992.
[4] Vedi il discorso sviluppato in G. CASALINO, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Roma 2003, pp. 151 ss..
[5] G. CASALINO, Sul fondamento. Pensare l’assoluto come risultato, Genova 2014.
[6] Sulla polarità liberazione-libertà cfr. J. Evola, L’uomo come potenza, Edizioni Mediterranee, Roma 2011, pp 17 ss..
[7] È noto l’interesse dell’ Accademia platonica per la spiritualità zoroastriana iranica, nonché la presenza, Platone vivente, di alcuni persiani tra i discepoli della medesima Accademia. Su ciò cfr. V. Pisani RSO (1934) – 14.
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