Non ci preoccupiamo di essere solo in tre: fermiamo l’automobile, discendiamo e ci scaraventiamo contro la folla, menando nerbate all’impazzata.
Ci prendono più per tre pazzi che per tre fascisti, ma il risultato è miracoloso: avviene il fuggi-fuggi generale.
(Roberto Farinacci, “Squadrismo”, Roma 1934)
La batosta elettorale di novembre – sia pure circoscritta a Milano perché lì solo i fascisti sono riusciti a presentare una loro lista – non sembra un buon viatico per il secondo anno di vita del movimento mussoliniano nemmeno a Cremona.
Infatti, il “Diario” di Farinacci per il 1920 inizia a giugno, ché prima c’è poco da raccontare, di fronte all’assoluto predominio, in specie nelle campagne, dei forti avversari.
Leggermente diversa è la situazione nel capoluogo, dove più viva è l’influenza dello stesso Farinacci, che riunisce intorno a sé un numero crescente di aderenti. A cominciare dal suo ambiente di lavoro, in Ferrovia.
Infatti, le adesioni allo sciopero di gennaio sono minori del previsto (“500 ferrovieri, vale a dire la grande maggioranza del personale della stazione rimasero al loro posto” scriverà “La Voce del popolo Sovrano” del 26 gennaio), e ciò rappresenta un segnale – preoccupante per i Sindacati tradizionali – di quanto avverrà dopo qualche mese.
Anche nelle campagne si verificano sporadiche iniziative di contrasto all’azione leghista, che fanno riferimento a Farinacci e ne accrescono la fama, locale, ma non solo.
“Conto su di te” gli scrive Mussolini il 23 marzo, prendendo atto del suo attivismo, in vista del Congresso provinciale del 28, dal quale uscirà trionfatore e unico Capo del fascismo cittadino, riconosciuto per tale anche dai vertici milanesi.
Infatti, al Congresso Nazionale di Milano di maggio, egli viene riconfermato nel Comitato Centrale del movimento, e cominciano a circolare voci che vogliono Cremona sede del prossimo Congresso Regionale della Lombardia.
Prima, però, c’è un’altra prova da superare.
Tutto comincia quando i sindacati, per impedire il viaggio di un treno carico di munizioni e diretto a Terni, proclamano lo sciopero contro il Capostazione Lino Bergonzoni.
L’appoggio che il Capo fascista dà al suo collega, contro l’imposizione socialista, esaspera gli animi, così che la richiesta alla Direzione delle Ferrovie diventa quella di allontanare dalla città Bergonzoni e Farinacci, giudicati una minaccia per l’ordine pubblico.
Richiesta che, per il suo contenuto prevaricatore, non può essere esaudita dal datore di lavoro dei due, né imposta dalla Autorità dello Stato. Si aggiunga che la maggioranza della popolazione mostra ben presto di condividere le tesi de “La Voce del Popolo Sovrano”, affidate alla penna di Farinacci, che contestano la stessa compatibilità degli scioperi nei pubblici servizi.
È questa una battaglia che ovunque i fascisti stanno facendo propria. Nel nome dell’interesse della comunità, che viene danneggiata dagli scioperi di trasporti – locali e nazionali –, servizi di nettezza urbana, ospedali, energia elettrica, essi si mobilitano dove e come possono per alleviare i disagi.
Lo fanno perché il danno, in questi casi, va oltre la contrapposizione padrone (che qui sarebbe lo Stato, peraltro)-lavoratore, non è giustificata dalle eventuali motivazioni economiche, per le quali va cercata e percorsa la linea del dialogo, e tanto meno da ragioni politiche che mirano solo a sovvertire l’ordine in un’ottica soviettista.
Lo stesso non accadrà, di qui a qualche mese, in occasione delle occupazioni delle fabbriche, quando i fascisti non penseranno a nessun tipo di intervento (e, addirittura, per voce dello stesso Mussolini manifesteranno iniziale simpatia per le ragioni degli occupanti) e affideranno la risoluzione delle controversie alle tradizionali trattative sindacali.
A Cremona, quindi, prevale la linea dura, che viene sposata per primi dai Sindacati, con la proclamazione, il 13 giugno, dello sciopero generale, che si estende a tutta la Lombardia e all’Emilia.
Farinacci è in prima linea nell’azione di contrasto, presente ovunque, senza paura. Accompagnato da un solo militare assegnatogli come “scorta”, si reca, in bicicletta, a Castelvetro, dove la linea ferroviaria è stata ostruita con sassi e terra, e viene impedita la partenza di un treno bloccato.
Pistola alla mano, fa sgombrare le rotaie, obbliga il conducente a rimettere in moto la locomotiva, libera il Capostazione “sequestrato” nel suo ufficio, e può così far ritorno a Cremona, sia pure con una vistosa fasciatura che gli copre una ferita al capo.
Dopo tre settimane di sciopero, viene sancito il fallimento dell’iniziativa socialista e la vittoria dell’azione fascista, che si regala il piacere di una beffa finale:
Siamo stati pregati di non recarci in stazione per una sola mattina, in modo che i ferrovieri, credendo ad un nostro allontanamento, potessero riprendere servizio.
Abbiamo finto di accondiscendere al nobile desiderio.
…
Al mattino seguente, i ferrovieri, con le loro famiglie e molti altri sovversivi, con la musica in testa, e al canto dei loro inni, si sono recati in corteo alla stazione.
Ma qui, a riceverli, siamo proprio io e Bergonzoni.
Quando veniamo riconosciuti, gli strumenti non ricevono più fiato, le bandiere si piegano con tristezza come alla vista di un funerale, cessano i canti e gli inni della vittoria. Grave è lo strazio della sconfitta, più grave la vergogna che la vile astuzia dei capi ha imposto ai poveri ferrovieri.
A sera rientrano tutti in servizio… (1)
Una dura lezione che non sarà capita da chi, qualche mese dopo, ancora si esibirà in divagazioni che dimostrano incapacità a comprendere la realtà, nascondendola dietro fumoserie intellettual-snobistiche, per le quali:
…questo fenomeno del giorno (il fascismo ndr) altro non era che una forma qualunque di associazione a delinquere, come la camorra di Napoli, la mafia siciliana, la teppa dei bassifondi delle grandi città, senza un programma definito, senza un ideale da raggiungere, senza un fine a cui tendere. (2)
Espresso in maniera dozzinale, è, nella realtà cremonese, lo stesso concetto, figlio della stessa incomprensione che, qualche giorno dopo, farà suo, con l’aggiunta di un finale minaccioso, Giacomo Matteotti:
Il fascista è il figlio di papà, il professore di storia patria, l’impiegato ma cento franchi al mese, il viveur stimolato da qualche cocotte, l’ex arnese di questura, l’artista teatrale che ti fa gli sberleffi nelle riviste che san di fiele, il vecchio Ufficiale a riposo, il discendente che si vanta di aver avuto il padre, il nonno garibaldino, il nobile che grida viva la guerra per sposare la figlia del pescecane.
Il fenomeno fascista è il fenomeno della delinquenza politica, della vigliaccheria civile, delle nullità intellettuali, dell’arditismo militare. A colpi di rivoltella è il loro motto. Parole che colpiscono il tipo della criminalità. Ma la borghesia esprimerà sui giornali che sono parole esprimenti uno stato intellettuale e psichico morboso.
Ah, la morale borghese. Ebbene, dinanzi a questi pazzi, se pazzi sono, il Partito Socialista alzi ancor la testa.
O sian messi nell’impossibilità di nuocere, o noi faremo giustizia sommaria.
A Rovigo, come altrove, occhio ai mali passi. (3)
Non sono “figli di papà… arnesi di questura delinquenti politici … vili civili” né Bergonzoni né, soprattutto Farinacci, del quale ci occupiamo qui, e questo disorienta gli avversari, aldilà delle articolesse di giornale.
Che a Cremona, con la prima sonora sconfitta sovversiva, la lotta sia giunta ad un punto decisivo lo capiscono entrambe le parti, ed entrambe sentono il bisogno di accelerare la loro azione, per la spallata finale.
I fascisti ottengono, dal vertice, l’autorizzazione a che il Congresso Regionale Lombardo si svolga nella loro città, in riconoscimento dell’azione svolta. Causano così le ire dei socialisti, che giudicano questa l’ennesima provocazione e intendono rendere pan per focaccia dopo la vicenda Bergonzoni.
Tutto normale, se vogliamo, in un contesto che vede prevalere le passioni “forti” e il costante ricorso alla violenza per affermare le proprie ragioni.
Un sintomo, minore ma significativo, si ha proprio nella disavventura capitata a Mussolini e Farinacci durante il viaggio che fanno insieme, diretti al Congresso di Cremona:
Nel passare per Rogoredo in auto, insieme a Farinacci che era andato a prenderlo a Milano, (Mussolini) dovette sostare ad un passaggio a livello, tra una massa di operai armati di moschetto. Eravamo ai tempi dell’occupazione delle fabbriche.
Mussolini non fu riconosciuto, e Farinacci, per evitare inconvenienti, ottenne di poter transitare, non appena passato il treno, dicendo agli operai che si recava insieme ai compagni a Codogno, in aiuto ai lavoratori che colà scioperavano. (4)
L’episodio non mette di cattivo umore il direttore de “Il Popolo d’Italia”, che fa, al Politeama Verdi, uno dei suoi migliori discorsi, con un esordio “possibilista” come mai:
Il nostro programma? Siamo una minoranza, e non ci teniamo ad essere molti. Alla quantità bruta preferiamo la qualità eccellente. Un milione di pecore –lo ricordino i nostri avversari che se ne intendono- sarà sempre disperso dal ruggito di un leone.
Noi non competiamo con essi in fatto di vendita di marchette e di tessere. Siamo una formazione di combattimento e siamo anche gli zingari della politica italiana.
Zingari, perché abbiamo anche una lunga via da percorrere, e, pur avendo una meta, essa non è dogmatica; zingari perché nel nostro accampamento vi è posto per tutte le fedi, purchè abbiano un fondo comune di amore per la Nazione. (5)
E prosegue su questa linea:
Io sono reazionario e rivoluzionario, a seconda delle circostanze. Farei meglio a dire – se mi permettete questo termine chimico – che sono un reagente. Se il carro precipita, credo di far bene se cerco di fermarlo; se il popolo corre verso un abisso, non sono reazionario se lo fermo, anche colla violenza.
Ma sono certamente rivoluzionario quando vado contro ogni superata rigidezza conservatrice o contro ogni sopraffazione interna. (6)
Il finale, poi, è quasi anticipatore di quello che avverrà la sera stessa:
Sono stato esplicito, chiaro e leale. Noi non siamo per la guerra, ma a chi ci aggredisce, spareremo sempre sul grugno. Poiché non siamo seguaci di San Filippo Neri che insegnava di tendere, dopo la prima percossa, l’altra guancia ad un nuovo schiaffo. (7)
È facile profeta il Capo milanese. Il desiderio di rivincita di quelli che sono stati sconfitti con lo sciopero ferroviario di giugno, e poi umiliati dalla dimostrazione di forza del Congresso di settembre, individua subito l’obiettivo.
È Farinacci che bisogna colpire, ed a lui è rivolta la sfida a non farsi vedere più in giro:
Alcuni fascisti, fra i quali Sperlari, Ronconi, Priori e Podestà, vengono a casa mia all’ora di cena per pregarmi di non uscire, perché gravi cose si stanno tramando ai miei danni.
Naturalmente io non posso dimostrare di avere paura, e verso le 20,30 esco, ed attraversando il centro della città, mi reco all’Aquarium, bar da me frequentato. Podestà, Ronconi e Priori si uniscono a me.
Sono appena arrivato all’angolo di via Solferino-corso Umberto, che mi vedo circondato da circa trecento uomini venuti dai rioni, scamiciati ed armati di randello.
Alla loro testa vi sono Boldori, Pozzoli, Verzelletti, Caporali. Tutto ad un tratto, obbedendo certo ad una parola d’ordine, i sovversivi, con i bastoni alzati e le rivoltelle in pugno, ci stringono in un cerchio.
Reagisco immediatamente, ma sono gettato a terra, mentre echeggiano numerosi colpi di rivoltella. Gli spari servono ad alleggerire la pressione su di me. Ho addosso una ventina di scalmanati che, nella confusione, non riescono più ad individuarmi. Estraggo la rivoltella e sparo in alto diversi colpi. Riesco così a fugare gli aggressori e a rialzarmi.
Vi sono diversi feriti e due morti: Luciano Priori e Vittorio Podestà. (8)
Questo l’andamento dei fatti, passati poi alla storia come “l’eccidio di piazza Roma”, nel racconto del principale protagonista, che dobbiamo ritenere veritiero, anche per il tono non trionfalistico né fascisticamente “strafottente”, ma quasi rassegnato, come di chi non può sottrarsi ad un appuntamento che gli è stato imposto (“Naturalmente io non posso dimostrare di avere paura…”).
Ciò, nonostante nessuno dubiti, nemmeno i più maldisposti nei suoi confronti, né allora né dopo della sua audacia e del suo sprezzo del pericolo. Di “coraggio fisico non comune” parlerà Festorazzi e Vicini e Dossena così concluderanno la loro malevola biografia: “Mantiene il suo sangue freddo anche quando i partigiani sparano la prima raffica in alto, mancandolo di proposito, e quando, prima della seconda raffica, lo schiaffeggiano perché si volti: vogliono fucilarlo alla schiena. Ma la seconda raffica colpirà Farinacci in pieno petto. Il suo cadavere sarà orrendamente oltraggiato dalla folla scatenata”.
Eppure, per tornare a questo 6 di settembre del 1920, anche nella narrazione che verrà data dell’episodio, ci sarà chi mesterà nel torbido, intravedendo una provocazione (sic!) farinacciana, che trarrebbe origine nella sua natura violenta e incontinente, e che ne fa (e farà) obiettivo ideale di critiche, anche in campo “amico”:
Massimo esponente dello squadrismo prima (sempre si rivolse alle camicie nere nella veste di capo degli squadristi), del “rassismo” e dell’intransigentismo poi, negli anni della dittatura finì per essere apertamente osteggiato da Mussolini e dal “sistema”.
Con la sua morte, Farinacci ha rappresentato, più di ogni altro, lo stereotipo del gerarca su cui scaricare ogni colpa di una ideologia e di un intero regime.
Esecranda figura, insomma, di un uomo politico capace di tutte le nefandezze e a cui tutte le nefandezze e le colpe e le più aberranti azioni possono essere facilmente ascritte.
Pure in campo fascista, i sopravvissuti non esitarono, a guerra conclusa, a scaricare sule spalle di Farinacci, nella memorialistica anche a buon mercato, ogni genere di accusa e di responsabilità, tanto politica quanto morale; i “buoni” fascisti non tardarono ad individuare nel “cattivo” Farinacci colui che rappresentasse per intero tutte le nequizie e le infamie, sollecitate da una “attenta” auto-rilettura di vicende, epoche, uomini e fatti ormai superati e da leggere, in modo meno disinteressato, nella nuova Italia democratica. (9)
FOTO 3: tipico atteggiamento oratorio di Farinacci
FOTO 4: squadristi cremonesi a Milano
NOTE
- Roberto Farinacci, Squadrismo, dal mio diario della vigilia, Roma 1934, pag. 49
- “L’Eco del Popolo” del 13 novembre 1920, in: Giuseppe Pardini, Roberto Farinacci ovvero dalla rivoluzione fascista, Firenze 2007, pag. 38
- “La Lotta” del 27 novembre 1920, in: Michelangelo Bellinetti, Squadrismo di provincia, Rovigo 1985, pag. 16
- Paolo Pantaleo, il fascismo cremonese, Cremona 1931, pag. 61
- (a cura di) Edoardo e Duilio Susmel, Opera omnia di Benito Mussolini, Firenze 1954, vol. XV, pag. 183
- Ibidem, pag. 187
- Ibidem, pag. 189
- Roberto Farinacci, cit., pag. 65
- Giuseppe Pardini, Roberto Farinacci ovvero dalla rivoluzione fascista, Firenze 2007, pag. 5