“Mostrati dunque più umano che critico…” (Domenico Scarlatti)
Il nostro tempo soffre di un eccesso di spirito critico, cui corrisponde un eguale e contrario difetto di umanità. Criticare è diventato un vizio comune, quasi una necessità fisiologica. Anche la denuncia dei mali moderni, con la sua diuturna, litigiosa animosità, rischia di diventare uno di quei mali. Tanto che, chi volesse realmente criticare la società attuale dovrebbe, paradossalmente, astenersi dal criticarla.
Gli ambiti dei conflitti, delle logomachie, coprono i fatti politici e storici, le teorie scientifiche o economiche, i costumi sociali, le questioni morali e metafisiche. Basti pensare ai gineprai nati sul problema dei vaccini o del 5g, dell’etica sessuale o dei nuovi modelli familiari. Molti si sentono minacciati non tanto dallo ‘straniero’, dal ‘nemico’ lontano, quanto dalla stessa società in cui vivono, dal suo progresso e dalla sua complessità incontrollabile.
Vediamo un proliferare di Sillabi tesi a denunciare errori e colpe del modernismo. A volte tali requisitorie possono sembrano inutili, perché attirano l’attenzione su ciò che dovrebbe essere evidente a tutti, perché cent’anni fa i veleni del modernismo potevano agire ancora in forme subdole e latenti, ingannando anche fini olfatti intellettuali, ma oggi i loro effetti sono talmente palesi che pare pleonastico doverli mostrare. Come convincere qualcuno che una cloaca non è un giardino di rose. Evidentemente molti son assuefatti al fetore, e forse troverebbero insopportabile il profumo dei fiori e l’aria pura.
Ecco perché il critico si sente obbligato a prelevare campioni maleodoranti, analizzarli e spiegarne la reale natura. Tuttavia, addentrarsi nei mali moderni, anche se per ragioni didattiche, espone al rischio di assorbirne inconsciamente la semantica, di adottarne i presupposti intellettuali e psicologici. Così vediamo chi si oppone violentemente alla violenza, chi alimenta nuovi fideismi per denunciare i vecchi, chi per argomentare contro la scienza ne accetta i paradigmi, chi condivide la moderna venerazione per dati e statistiche, chi fa un certo uso di sotterfugi retorici e morali ecc. La critica diventa in tal modo parte integrante di ciò che vorrebbe contraddire, disegnando solo piccoli nei sull’epidermide del pensiero comune o rimestando facili emozioni.
Non si tratta di migliorare l’ortografia ma di correggere la sintassi dei sentimenti e delle idee. La propaganda ufficiale sa perfettamente come far leva sugli epidermici strati dell’animo, vuoi per spingerla a odiare il Nemico di turno, vuoi per convincere la gente a devolvere denaro in sedicenti opere di carità, vuoi per impaurirla, con pandemie o stravolgimenti climatici. Gli effetti che si ottengono in tal modo, benché spesso impressionanti e tragici, sono sempre effimeri e incostanti, e non possono certo porre nuove fondamenta alla società. Una critica che usi simili mezzi si allinea al sistema criticato e ne convalida le strutture portanti.
Purtroppo un diffuso machiavellismo ci ha abituati all’idea che si possa perseguire un buon fine con cattivi mezzi. In realtà, questo è uno espediente del male per proteggere sé stesso. Chi voglia studiare i miasmi del modernismo, le sue decadenti evoluzioni (se mi si concede l’ossimoro) senza esserne contaminato, deve riconoscere la naturale permeabilità del subconscio agli influssi esterni e rispettare scrupolosi accorgimenti intellettuali. Difettando di tale prudenza, per quanto denunci, combatta, lanci invettive e anatemi, anche la critica finisce, per così dire, col puzzare e intossicare.
Inoltre, col loro monotono girare intorno ai soliti problemi, i moderni Sillabi anti-sistema offrono un comodo e illusorio canale di scarico al dissenso. Mentre si agitano in interminabili denunce e indagini e dibattiti, finiscono col garantire la continuità del male generando un sostanziale immobilismo, traducendosi in una serie di prevedibili stereotipi e innocui automatismi intellettuali. I critici diventano i guru di una contestazione ai quali spesso si crede non per un assenso ragionato ma perché danno voce al nostro risentimento.
Come l’asino che gira alla macina e si ritrova sempre allo stesso punto, il critico traccia la circonferenza di argomenti che lo tengono legato al biasimo e alla condanna del mondo esterno senza favorire un vero cambiamento di sé e della società. Questo vale tanto per chi pronuncia accorate catilinarie quanto per chi le ascolta e le condivide. Vediamo critiche percorse da canti di guerra e chiamate alle armi, inneggianti ad atti di resistenza eroica e bellicosa virilità destinati quasi sempre a restare sulla carta. Ci appaga quel sentimento di indignazione, di collera morale, che fa sentire virtuosi, che produce un certo compiacimento di sé, ma resta bloccato in uno sterile malessere, in una sorta di impotente animus pugnandi.
Un assioma apparentemente intoccabile della critica moderna è che si debba lottare, combattere. Non vedo nessuno prendere sul serio il consiglio evangelico di non resistere al male. Forse perché tale precetto implica una reale critica del nostro sistema socio-morale e psicologico, e presuppone una rara maturità dello spirito. Questo pare renderlo adatto a personalità d’eccezione come Tolstoj o Gandhi, ma inapplicabile alla comunità. In pratica, pensiamo che “chi non punisce il male comanda che si facci”. Come si può pretendere che l’uomo comune – nella sua medietà di valori – porga l’altra guancia, perdoni chi lo deruba, chi lo incatena? Inoltre, l’indulgenza verso le colpe altrui porterebbe, così si crede, a un dilagare incontrastato del male.
In realtà, l’applicazione di leggi e pene severe, persino crudeli e disumane, non ha mai avuto effetto deterrente. Anche le rivoluzioni moderne, tese a eliminare le palesi ingiustizie e i loro responsabili con mezzi feroci, hanno di fatto accelerato il declino dell’umanità e il suo imbarbarimento. D’altro canto, un sistema sociale basato sul perdono non è mai esistito. Non abbiamo quindi prove dei suoi possibili effetti. La Chiesa stessa, più che ispirarsi alla mansuetudine evangelica, ha preferito affidarsi alla durezza dello Stato nel reprimere il dissenso. E anche la critica più avveduta non riesce a liberarsi di questo antico pregiudizio sulla natura conflittuale della realtà.
Da millenni siamo incatenati a uno schema interiore che ci impedisce di costruire una società accogliente e pacifica. Ed è inutile sperare che riforme politiche o economiche, conquiste tecniche e scientifiche, determinino di per sé un’evoluzione benigna. Sono infatti sovrastrutture che non toccano la base spirituale dell’uomo. Né di questo atavico fallimento possiamo dar sempre la colpa agli altri e ignorare il sostegno che noi stessi diamo a una struttura antropologica malata, da un lato accettandone le premesse fondamentali, dall’altro usando le sue armi e i suoi metodi per combatterla.
Così, dall’antichità a oggi l’umanità è rimasta sempre lo stesso animale stupido e crudele. “L’uomo gode nell’annientare l’uomo” scriveva Seneca. E se pensiamo che gli antichi romani ci fossero eticamente inferiori perché si sollazzavano guardando persone sbranate dalle belve, o perché non riconoscevano dignità di esseri umani agli schiavi, cadiamo in un’ingenua illusione ottica. L’Uomo nuovo, dotato di un’anima matura e compassionevole, non è ancora nato. E anche oggi, quando immaginiamo il futuro, ci appaiono scenari post-umani o transumani retti dalla violenza e dalla sopraffazione.
Quale utile e sensata funzione può allora assolvere la critica della modernità? Si dirà che ha scopo diagnostico, utile a riconoscere e descrivere gli aspetti patologici della vita. Ma nel momento in cui un intero sistema impazzisce, si corrompe e cade in mano a un’élite criminale, non ci si può illudere, con le nostre critiche, di indurlo al rinsavimento o alla contrizione. Sarà invece chi critica a subire forzate ‘rieducazioni’. Poste tali funeste circostanze, il saggio può filosoficamente scegliere di isolarsi, di ritirarsi in rassegnata solitudine. Oppure, come Catone, optare per un dignitoso suicidio.
Tuttavia, anche se impotente, la critica conserva la nobile e necessaria missione di fornir lumi e dissipare le false credenze, di guarire l’intelligenza dai luoghi comuni e dalle illusioni. Non deve essere per forza costruttiva, ma piuttosto decostruire la realtà e reinterpretarla. In tal senso, l’invito di San Paolo a non conformarsi e a rinnovare la propria mente rappresenta il più puro atteggiamento critico. Non si tratta di imporre alla gente norme di condotta o chiavi di lettura del reale – spingendola verso nuovi conformismi – ma di stimolare una conversione radicale del pensiero prima ancora che del nostro modus operandi.
Per questo, la critica dovrebbe trascendere gli ambiti politici o storici, sociali o scientifici, e porre innanzitutto una questione ontologica, ovvero discutere quelle tematiche in cui appare la necessità di una revisione dell’essere dal suo fondamento. Il critico dovrebbe a tal fine esser munito non tanto di capacità analitiche quanto di forza profetica. Non semplicemente lamentare che la verità e la giustizia siano orribilmente conculcate e invocare rivoluzioni o inversioni di rotta, ma tendere a una comprensione radicale dell’uomo e dei suoi modelli esistenziali.
Quando accusiamo il mondo circostante per le sue difformità dai nostri ideali teorici, non vediamo come tale negatività sia l’ombra di noi stessi, come il mondo cambi in rapporto alla qualità della nostra coscienza. La critica che non ne tenga conto diviene un atto essenzialmente cieco e arrogante, mediante il quale possiamo sentirci migliori di altri, rassicurarci sul fatto che il ‘peccato’, la colpa, il male, sono fuori di noi. Questo ci esime da un’auto-critica, ovvero da un’auto-analisi, che mostri la nostra responsabilità nella disarmonia dell’essere. Criticando gli altri, assolviamo noi stessi.
La critica è in realtà un atto di discernimento tra ciò che afferma un valore e ciò che lo nega. Noi diciamo in sostanza: questo è bene, questo è male, questo è vero, questo è falso ecc. All’origine di ogni atto critico sta dunque una serie di opzioni intellettuali mediante cui cerchiamo di portare ordine nella confusione e di rimettere, per così dire, le cose al giusto posto. Ogni critica è una ricerca di verità che esprime la nostra posizione nel cosmo e il nostro atteggiamento di fronte al suo mistero. Essenziale è perciò comprendere quale sia il nucleo delle nostre prospettive personali, il cuore da cui, attraversando le arterie e i capillari della vita, prende impulso un’idea di Senso e di Valore che dà alle cose la loro importanza.
Malebranche, ad esempio, diceva come il pensiero della morte cangiasse ogni veduta e ogni disegno. Pensando all’eternità, capiva come la mente dell’uomo fosse piena di scienze vane, che aumentano non la sua saggezza e felicità ma solo le sue pene e le sue inquietudini. L’idea del dover morire, della perfezione spirituale, era per lui misura del valore. Allo stesso modo, dobbiamo capire quanta ‘scienza vana’ si insinui nel nostro spirito critico e ne disturbi le ragioni essenziali. Ossia, fare una critica della critica. Facendosi autoriflessiva, la mente critica non rinuncia alla propria funzione, solo la rivolge su di sé e la purifica.
La ragion d’essere della critica decadrebbe solo nel momento in cui ogni cosa ci apparisse perfetta in sé. Come dice Angela da Foligno, vedremmo allora che nell’assassinio, nell’adulterio, nel demone e nell’inferno, in qualsiasi cosa abbia esistenza, non importa se nel bene o nel male, è presente Dio. E la critica si estinguerebbe nell’accettazione incondizionata, in ciò che con un termine oggi mistificato si definisce ‘amore’. “Nel momento in cui sto in questa verità mi diletto allo stesso modo” dice Angela. Ma questo è infinitamente più di quanto il nostro apparato critico possa capire e accettare.
7 Comments