Di recente sono emerse critiche all’approccio riduttivo nei confronti dello studio dei miti esiodei, opponendosi a quegli studiosi che vedono nel corpus delle opere di quel celebre cantore un’espressione equipollente di grecità e modelli orientali. Uno su tutti, Joshua Katz ha messo in luce la povertà di studi indoeuropeistici sul poeta di Ascra. Altro contributo fondamentale è quello di C. Metcalf, il quale ha dimostrato come gli attacchi innodici della Teogonia non abbiano di fatto alcun parallelismo con l’Oriente. Piuttosto, l’Iliade (mènin), la Teogonia (mousàon) e l’Inno omerico ad Apollo (mnèsomai) principiano tutti con lemmi derivati dalla sillaba indoeuropea *men-, “attività mentale.” A molti, questa deliberata insistenza fonetica ha ricordato l’onnipresenza della sillaba om (o meglio aum) dei mantra vedici, altro prodotto dell’arte innodica indoeuropea. Un’analisi soddisfacente degli omologhi con una letteratura così remota come quella vedica adempirebbe al criterio (pristinamente linguistico, ma applicabile parimenti allo studio delle letterature comparate) secondo cui un dato culturale, se comune a un compartimento linguistico quanto più distante, soddisfa l’inchiesta sull’antichità indoeuropea di quel reperto. Un tema che potremmo facilmente sottoscrivere a questo metodo è quello della “violenza sacra” con la quale gli dei si liberano delle forze del Caos. Nella Teogonia, Urano violenta ripetutamente la moglie Gaia, respingendo i figli nel suo grembo, di modo da bloccarne la nascita ed evitare così di essere detronizzato, e, conseguentemente, Gaia affida al figlio Crono il compito di castrare il marito.
Nei Brahmana, testi compendiari ai libri vedici sorti in India intorno all’XI secolo a.C., Prajapati, il progenitore di tutte le creature (che i Veda indicano come Purusha), in seguito identificato con Brahma, viene accusato di aver violentato sua figlia; gli dei, allora, decidono di punirlo smembrandolo, e dal suo corpo creano il mondo, secondo un tema cosmogonico notissimo. Una versione ancora più esauriente del mitema dello smembramento si trova nella cosmogonia orfica del papiro di Derveni, in cui castrazione e smembramento vengono riportati come momenti di una stessa gradualità rituale. Inoltre, sempre nel papiro orfico, il mondo inizia dal caos di Notte; ma, differentemente da quanto avviene in Esiodo, si afferma che Crono è figlio di Helios e Gaia, e la mutilazione di Urano non è attribuita al figlio Crono, ma al nipote, Zeus, che ne ingoia l’organo reciso, investendo così se stesso del potere di procreare nuovamente l’universo. Il Prajapati indiano (così come anche, per esempio, il Tifone esiodeo) rappresenta la figura titanica che gli dei dell’ordine, dopo averla sopraffatta, non scartano, gettandola nel nulla, ma “riciclano”, piuttosto, in funzione di guardiania. Dopo il laceramento cosmogonico, infatti, Prajapati è risuscitato (“guarirono Prajapati e rimossero la spada dal suo corpo”), guarito e preposto alla custodia del corretto rituale sacrificale. L’ordine cosmico è ristabilito senza che nulla sia ricacciato nel nulla. E questo ricalca perfettamente i presupposti della forma mentis indoeuropea.
Inoltre, l’arma con la quale Crono evira il padre Urano è la famosa harpe, il falcetto messorio, che verrà poi utilizzato da Tifone, nel mito narrato da Apollodoro, per privare dei nervi lo stesso Zeus, sconfitto in una curiosa Chaoskampf al contrario. Burkert annovera harpe fra le (esigue) componenti del lemmario greco derivate da un adstrato semitico. Seppur consapevole della consistenza dell’etimologia indoeuropea per questo lemma fornita da Chantraine, Burkert rimanda speditamente il termine all’aramaico harba, “scimitarra”, esonerando immotivatamente dalle discussione le chiarissime analogie di harpe col latino sarpo, “cimare, potare una vite”, e con l’antico slavonico sripu, “falce”.
È opinione comune nell’ambito accademico che il mito della castrazione divina provenga dall’Oriente: eppure, alcuni miti, “orientali” per pura collocazione geografica, come quello della Madre Cibele e del fanciullo castrato Attis (che cominciò a serpeggiare in Grecia già nel IV secolo a. C.), sono a ben vedere indoeuropei. Il mito urrita che narra della castrazione del dio dei cieli Alalu da parte del suo coppiere Anu, che verrà a sua volta mutilato dopo un regno novennale dal figlio Kumarbi, è invece di origini incerte; nulla infatti si sa di questo mito urrita prima che gli dei che ne dipanano la trama venissero sincretizzati con gli eufratici El, Enlil e Inanna-Ishtar. Il personaggio esiodeo di Tifone, il gigante incoronato di serpi, viene a sua volta ricondotto a origini orientali: ma, daccapo, visto che il paragone è istituito con il racconto ittita del gigante Ullikummi, si tratta di un Oriente puramente ubicativo, e non culturale, visto che gli Ittiti erano governati da una aristocrazia indo-ariana. Ad ogni modo, la derivazione così spiccatamente naturalistica del nome di Tifone (da typho, connesso al latino suffio, “fumigare, levare fumo”), la sua relazione indubbia con fenomeni naturali violenti, nonché la sua chiara associazione a una qualche figura serpentiforme archetipica dei greci, costituiscono elementi di evidente distanziamento dal modello oreo-ittita.
Il tentativo di associare il ruolo di Tifone a quello del drago ittita Illuyanka da parte degli orientalisti, poi, è ancora una volta una mossa controproducente al punto da fornire uno spunto chiave ai grecisti che si oppongono all’iperdiffusionismo degli orientalisti. Essendo infatti che il racconto della vittoria sul drago primordiale da parte del Dio delle Tempeste (Zeus in Esiodo, Teshub nelle tavolette ittite) risale a un chiaro mitema indoeuropeo ancestrale, sarebbe controintuitivo ammettere l’“orientalità” di Tifone, visto che sia il mito greco sia quello ittita mostrano una trama cosmogonica in comune.
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Come per la questione sulle origini dell’alfabeto, appare come anche nel caso di Tifone si possa presupporre una filiazione inversa da quella così acriticamente presentata dai “suprematisti” dell’Oriente. Si tratta sicuramente della penetrazione in Mesopotamia e in Siria (e non dalla Mesopotamia e dalla Siria) di un modello indoeuropeo, cristallizzatosi plausibilmente nel substrato mitannico o luvio-anatolico delle culture urartea e aramaica. Illuyanka è semplicemente Pitone, l’Idra, Vritra, Jǫrmungandr, Ladone, Tifone, e tutti i grandi serpenti delle tradizioni antiche dalla Norvegia al Bangladesh. Il nome e l’iconografia di Illuyanka sono addirittura penetrate nel mondo semitico, dove era conosciuto col nome di Lotan (Litanu, Litan), da cui l’ebraico Leviatano, menzionato per la prima volta nel celebre passo di Isaia 27:2.
Stefano Gabriele Manza è un giovane neo laureato da tempo interessato alle tematiche della Tradizione. Appassionato di Indoeuropeismo e Mitica Occidentale è sensibile alla Cultura Greca Arcaica e alle immaginazioni tolkeniane