Nella sua opera Les Fleurs du Mal Charles Baudelaire parla del mare come di una donna: “Tu lo abbracci con gli occhi e con le braccia … “. Altri poeti hanno paragonato l’imprevedibile mutevolezza del mare a quella di una donna, o identificato la strada di casa con il volto di una donna. Ed è possibile che le radici di queste associazioni affondino in un vertiginoso passato, forse tra i tormenti nostalgici dei navigatori paleolitici assillati dal ricordo della patria lontana e di donne amate in attesa sulla terraferma di un ritorno che non si sapeva se ci sarebbe mai stato. Le narrazioni tradizionali pongono l’avvio delle grandi navigazioni d’alto mare e delle esplorazioni nelle terre vergini bagnate dal Pacifico al termine della fase androginica, incorporea ed indifferenziata, relativa al Primo Grande Anno (da 65.000 a 52.000 anni fa) del nostro Manvantara. Sarebbe invece riconducibile al Secondo Grande Anno (da 52.000 a 39.000 anni fa) la separazione maschio-femmina, cioè il punto fondamentale attorno al quale ruoteranno i millenni successivi. Da questo momento in avanti l’uomo assoluto dei primordi (l’Uno) diventa gradualmente un «uomo psichico» mentre la donna (il Due) si fa emblema del concetto «binario», della duplicità, della mutevolezza. E’ la «forma» che annuncia l’avvento dell’Uomo esteriore. In corrispondenza del manifestarsi del femminino Gaston Georgel pone la nascita della prima razza «corporeizzata», cioè sempre meno spirituale, dell’uomo, che nella ricostruzione storico-tradizionale corrisponderebbe alla Razza Gialla. Come tutte le teorie si tratta naturalmente di un’idea opinabile, anche in considerazione dell’età relativamente recente delle caratteristiche morfologiche orientali, la quale tuttavia darebbe un senso all’affermazione secondo cui l’umanità del Ciclo presente «in tempi primordiali avrebbe ereditato il proprio sapere dai Serpenti usciti dal sottosuolo». Non dal cobra o dall’anaconda sbucati da una tana polverosa, come si potrà facilmente immaginare, ma probabilmente da individui fuoriusciti dalle città sotterranee sul finire del Lungo Inverno glaciale le cui sembianze erano vagamente serpentine: corpo filiforme, testa affusolata, zigomi alti, occhi obliqui «splendenti» e ammalianti.
(cultura Ubaid, Iraq, 5000 a.C. circa)
(Probabilmente non è casuale neppure la somiglianza tra il termine arabo “El-Hayah”, appellativo della vita, e il vocabolo “El-Hayyah” che indica il serpente, mentre in ebraico “Hayah” significa vita animale, corporea, biologica. La carne di Eva associata alla tentazione del Serpente? Anche i reperti archeologici ad oggi in nostro possesso confermano che in prossimità dell’ultima fase del Würm (28.000-13.000 a.C. circa,) prese valore nella società tutto ciò che in un popolo era «femmina»: il suolo, la nascita, la passione scatenante per i propri simboli, la voce del sangue. Tra gli uomini non s’era mai visto un simile attaccamento alla parte femminile, né un impulso così forte alla concretezza e alla materialità. Dopo millenni di mortifera arsura provocata dal gelo era comprensibile che il perpetuarsi della vita apparisse tanto inaspettato quanto miracoloso. Risvegliata da un lungo sonno la Terra Madre riprendeva a produrre sulla sua superficie uno strato di terriccio rigoglioso, fiorente e incantato. Le Madri umane partorivano nuove generazioni di uomini mentre le Madri-Nonne, che saggiamente avevano conservato sotto il ghiaccio gli insegnamenti dei Fondatori, dispensavano i consigli di cui le comunità risvegliate necessitavano per crescere.
Quasi ovunque in onore della «regina delle madri» (Madre Natura) lo sciamano-Serpente deputato a «fare il sacro» iniziò a sacrificare con regolarità. Tutti erano chiamati in causa durante quelle occasioni: l’intera comunità, gli antenati, i grandi elementi, le forze naturali, il Cielo, il Giorno, la Notte, la Terra, l’Oceano, il Fuoco, il Tuono, il Vento e così via. Bifido come la Terra che nel corso di una lunga serie di stravolgimenti geologici e climatici era apparsa agli uomini sia in veste di «madre» che di «matrigna», mentre nella maggior parte dei casi, per dirla con Leopardi, era stata «indifferente» alle difficoltà umane, il Serpente divenne così la massima autorità spirituale, culturale e sanitaria in seno alle comunità, nonché uno dei simboli più antichi e rispettati della Terra.
Apparsi subito come i conservatori dell’idea del Sacro appartenuta alla concezione spirituale connessa all’Era precedente, i «rettili umani» possono essere dunque considerati i primi Maestri dell’umanità del Ciclo presente. Negli ultimi anni del XIX secolo fu scoperta nella città sacra di Nippur l’ekur, o duranki, letteralmente «la casa della montagna», e tra le tante tavolette rinvenute in mezzo alle rovine vi era un cilindro di terracotta che citava una «stirpe principesca» dai tratti fortemente serpentini chiamata «Anannage» (Anunnaki). Calati da un imprecisato settentrione i «figli del cielo e della terra» si erano stabiliti in una fertile valle detta «edin», che nella lingua accadica significa «altopiano», o «gradone». Lì era sorto un «kharsag», cioè una «zona recintata elevata», dove aveva prosperato per un certo periodo una «democrazia religiosa» pacifica e organizzata, finché il gruppo fu colpito da una tremenda epidemia. Anche la casa della Signora Serpente, il medico-farmacista della comunità, venne invasa dal male. Molti avevano la febbre alta, colpiti dal morbo misterioso. E siccome i farmaci non producevano gli effetti sperati, la suprema figura sanitaria del gruppo chiese che tutte le luci fossero mantenute spente, giorno e notte, per consentirle di compiere riti. Qualche tempo dopo la situazione migliorò (immunità di gregge?), ma da quel momento in poi la Signora pretese la rigorosa osservanza di alcune norme igieniche, quali ad esempio mantenere le distanze dalle popolazioni autoctone, cuocere meglio il cibo, lavare con maggiore attenzione tutto ciò che proveniva da fuori. Prescrizioni che sembrano scritte ieri.
(scavo di un tempio a Nippur 1893)
La congiuntura fu superata, ma venne un inverno gelido come nessuno in edin aveva mai visto. Per un po’ gli Anannage riuscirono a resistere al freddo sceso dalle montagne del nord perché i granai erano pieni e fino a quel momento c’era stata una generale abbondanza. Finché alla neve si aggiunse una grande tempesta di sassi ghiacciati, seguita da un’alluvione, probabilmente causata dal disgelo improvviso di estese aree settentrionali. Fu scavato un canale di scarico che scendeva dall’alto della montagna fino al limite delle coltivazioni, e per qualche settimana la costruzione tenne basse le acque di deflusso. Un freddo demoniaco continuava tuttavia a ricoprire la Terra, le tempeste si susseguivano oscurando il Cielo e il popolo era profondamente infelice. Anche la Casa della Montagna fu coperta dalla neve e le sue stanze ne furono sepolte. Non restava che confidare nella robustezza delle quattro mura che proteggevano il granaio, dove fu allestito un grande focolare.
Ma proprio quando iniziò a salire dal rogo centrale un flebile filo di speranza, una nuova alluvione si abbatté sul kharsag e anche i rinforzi che erano stati messi al granaio furono travolti. Il resto del racconto sulla tavoletta è troppo danneggiato per poterlo leggere fino in fondo e perciò non sapremo mai come si concluse il calvario della sfortunata stirpe principesca. Né abbiamo altre notizie sulla Signora Serpente, un medico-virologo dell’antichità che in presenza di un virus raccomandava distanziamento sociale (dagli autoctoni), igiene nel vivere e correttezza nel mangiare, proprio come i suoi colleghi moderni. Tutto cambia affinché nulla cambi. Ieri il nomadismo indotto dalle intemperanze del clima aumentava in maniera esponenziale le possibilità d’infezione, oggi i contagi sono favoriti dall’eccessiva mobilità e dall’inquinamento atmosferico. Da sempre salubrità ambientale, intensità degli spostamenti e circolazione dei contagi sono anelli di una catena inossidabile.
Non sappiamo se le cose andassero meglio all’epoca della fuoriuscita del sapiens dalla sua sede originaria, cioè alla fine del Primo Grande Anno del nostro Manvantara, ma forse la tempra ancora «integra» dei protagonisti della primordiale emigrazione partita dall’Artico era più resistente agli attacchi virali rispetto a quella dei loro discendenti, indeboliti dal susseguirsi degli apparentamenti. Di sicuro i più assidui compagni di viaggio delle migrazioni del Paleolitico Superiore (30.000 – 10.000 a.C. circa) furono gli agenti patogeni, mali ben peggiori del freddo glaciale che i gruppi erranti si stavano lasciando alle spalle. Nelle patrie ritrovate non solo ci si doveva reinventare in continuazione, o battere con animali sconosciuti correndo il rischio di lasciarci la pelle, ma era necessario avere rapporti stretti con stirpi incivili, arretrate e primitive, che spesso rappresentavano una micidiale fonte di contagio. Anche per questo motivo, probabilmente, mettendo radici in un luogo «i Serpenti» andavano a vivere in «zone recintate elevate». Un uso, quello dei «giardini chiusi» custoditi e ben protetti, che si protrasse fino alle porte del mondo classico. Esempi entrati nel mito furono il giardino greco delle Esperidi, in cui il drago Ladone custodiva l’Albero dai Pomi d’Oro; il giardino mesopotamico in cui i draghi marini nascosero la pianta dell’immortalità cercata da Gilgamesh; il giardino dei Calmucchi sorvegliato da un Dragone che conteneva l’albero Zambu; il recinto dei Buriati in cui il gigantesco serpente Abyrga fu sconfitto da un Uccello altrettanto potente; il giardino di delizie che circondava l’Albero del Bene e del Male sorvegliato dal tentatore biblico.
(iscrizione e rappresentazione di Anannage)
Sotto questo aspetto non si può certo parlare di miglioramento, visto che in nostro «giardino chiuso» è spesso un appartamento al quarto piano di un palazzo di cemento armato costruito a ridosso di un’insicura strada di città. Anche noi lì dentro conserviamo le nostre cose, il nostro piccolo o grande sapere, i nostri affetti più cari, tentando invano di difenderci dall’attacco di virus influenzali potenziati nel frattempo dalla fattiva collaborazione dell’uomo, che nella speranza di renderli inoffensivi li ha resi ancora più aggressivi. Abbiamo visto cosa è accaduto nel laboratorio di sperimentazione di Wuhan, autorizzato a lavorare con i patogeni più pericolosi del mondo «a beneficio di tutti», secondo la dichiarazione del direttore dell’Accademia Cinese delle Scienze rilasciata qualche tempo prima del disastro annunciato. Infervorati dalla ricerca gli addetti ai lavori tendono troppo spesso a minimizzare la capacità di virus soggetti a continui eventi di ricombinazione di sfuggire al controllo umano acquisendo nuove forme. Eppure dopo millenni di errori e successi dovremmo sapere che qualsiasi organismo, elementare o complesso che sia, lotta fino allo stremo per la propria sopravvivenza e riproduzione.
Invece di coltivare il malefico desiderio di mettere a punto armi biologiche che tengano sotto controllo la Natura, forse dovremmo iniziare ad affinare le nostre armi immunitarie affinché tengano a bada i nemici nascosti. Nel corso dei millenni il genere umano si è fortificato anche superando micidiali attacchi di virus e batteri, con la differenza che gli uomini che ci hanno preceduto non erano indeboliti dagli eccessi alimentari, dal cibo spazzatura, dall’inattività fisica e dall’abuso di farmaci. Il che significa che il nostro impegno nei prossimi anni dovrà essere doppio, o triplo, e non sarà finalizzato alla salvezza di questa civiltà, destinata in ogni caso al dissolvimento, bensì alla necessità di fare spazio a qualcos’altro.
Scrisse Gramsci nei Quaderni dal carcere: “la crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere. È in questo interregno dunque che si verificano i fenomeni morbosi più svariati.” Ed è proprio in una fase di «tempo sospeso» che noi ci troviamo adesso. Alla vigilia della Quarta Rivoluzione Industriale, quella delle cosiddette intelligenze artificiali, fluttuiamo nell’interregno gramsciano come migliaia di anni fa gli Anannage fluttuarono nei secoli tribolati che precedettero l’avvento di grandi civiltà. Entrambi colpiti da virus sconosciuti e annichiliti dalla paura di vivere in un mondo incerto in cui il vecchio se n’è andato ma il nuovo stenta a mostrare il suo volto.
Volendo tuttavia vedere il bicchiere mezzo pieno non si possono ignorare alcuni vantaggi offerti dall’inattività del tempo sospeso: ore per pensare ce n’è finché si vuole, il silenzio e la solitudine riempiono le nostre giornate. Perché non dedicare dunque qualche riflessione al concetto di «civiltà», che poi sarà il punto di partenza della prossima fase. Per definizione (cfr. vocabolario Treccani) civiltà significa “forma particolare con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale d’un popolo (eventualmente di più popoli uniti in stretta relazione) – sia in tutta la durata della sua esistenza sia in un particolare periodo della sua evoluzione storica – o anche la vita di un’età, di un’epoca.”
Niente di tutto questo rientra attualmente nei nostri progetti. Qui non c’entrano l’efficientamento energetico degli edifici, la diffusione della banda larga, il riciclaggio dei rifiuti, l’eliminazione della plastica e l’introduzione della robotica in ogni ambito, tutte cose utilissime e raccomandabili che però non implicano alcun processo di crescita individuale e/o collettiva. Siamo ancora lontani dalla civiltà, una mirabile costruzione umana che comprende idee, valori, tradizioni, visioni condivise, e implica soprattutto la maturità spirituale di un popolo.
Rita Remagnino
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