Alla fine l’inquilino di Santa Marta ha battuto un colpo. Jorge Mario Bergoglio ha smesso per un attimo di strologare sull’ecologia e propagandare l’immigrazione e ha fatto il papa. Ha preso atto del drammatico inverno demografico – non solo d’Italia e d’Occidente – e, dopo aver condannato l’aborto, ha deplorato il dilagante fenomeno di coppie e (ex) popoli senza figli, sostituiti da uno o più animali domestici che girano per casa. Cucce piene, culle vuote: il fenomeno non è nuovo, avanza nell’indifferenza dei governi e nel sonno delle nazioni coinvolte, ma è diventato impressionante nell’ultimo biennio, dell’epidemia che ha segnato la vittoria (apparente?) di zòe, la semplice esistenza, su bìos, la vita umana composta di corpo, anima e spirito. Il papa ha preso atto che “per molte coppie cani e gatti hanno preso il posto dei figli” ricordando che “rifiutare la paternità e la maternità ci sminuisce, ci toglie umanità, in questo modo la civiltà diventa più vecchia e disumana e soffre la patria che non ha più figli”.
L’uomo di Buenos Aires ha colto la serietà del fenomeno, un mattone in più sottratto all’edificio della civiltà umana. Chiede di rinunciare all’egoismo di chi non ha figli per comodità e orrore della responsabilità; implicitamente traccia una linea di confine, una demarcazione precisa tra la creatura uomo e l’animale, prendendo posizione a favore dell’essere umano. Meglio tardi che mai. Infatti, sono piovute le reazioni stizzite, piccate, talvolta violente. Due categorie si sono distinte: le femministe – certe femministe – e gli animalisti. Le femministe rancorose attaccano il papa perché “non ha l’utero” e quindi non può capire. Che cosa non può capire il papa maschio? Che la gestazione è lunga e faticosa, che il parto è tormentoso, non di rado pericoloso, che i bambini cambiano la vita dei genitori? E’ una novità, o è la normalità dell’intera vicenda del creato? E, di grazia, perché la questione demografica dovrebbe essere discussa solo dalle donne? I padri non esistono più, non hanno lavorato fino a sfiancarsi per nutrire i figli, in ogni tempo e sotto ogni cielo?
In bilico tra stupidità e arroganza individualista le reazioni di chi ha rimproverato al papa di intromettersi nei fatti altrui, nella libertà individuale. I più cretini hanno strapazzato il papa perché si permette di giudicare “come spendo i miei soldi, cibo per gatti e cani e non pappine per bambini”. Disgustoso disprezzo, ridicolo suprematismo pseudo intellettuale: parlano perché hanno la lingua in bocca. Per Winston Churchill: il migliore argomento contro la democrazia è una conversazione di cinque minuti con un cittadino medio. Non conosceva, beato lui, le reti sociali. Così è ridotto – e troncato sul nascere – il dibattito sul problema più drammatico della nostra epoca: l’arido rifiuto di trasmettere qualsiasi cosa, a cominciare dalla vita.
Esiste in Occidente – la terra del tramonto – un movimento di donne che si definiscono child free, ossia rinunciano alla maternità consapevolmente, per motivi di carriera, realizzazione personale, paura della gravidanza, del parto, fastidio per la cura dei figli. Spesso, a una certa età cambiano idea, si fa sentire l’orologio biologico; in genere è tardi, qualche volta riescono ad avere un unico erede, oggetto di attenzioni spropositate e perfino patologiche, iperprotetto e solitario. Una generazione senza fratelli, oltreché senza padri, giacché – a parte la triste funzione di donatori di seme, gratuiti o a fattura – molti uomini approfittano della nuova situazione per esercitare il difetto che a ragione le donne attribuiscono loro, l’irresponsabilità. Si fregano le mani e vivono una sessualità falsamente libera, in realtà una compulsione dalla quale è espulso l’amore e sconosciuta la cura. Poi la natura prende il sopravvento, l’amore torna e spesso diventa malato, smania di possesso, con le peggiori conseguenze.
In altri casi, si ricorre all’adozione che non sempre è un atto d’amore – il principio di dare una famiglia a un bambino – ma il suo contrario, l’acquisto di merce umana nello squallido segmento di mercato internazionale. Da noi, tra aborti e contraccezione, le nascite indesiderate seguite da abbandoni sono drasticamente diminuite, quindi si ricorre al Terzo Mondo, per placare una sete d’amore (e di completamento della vita) che talvolta è egoismo. Molti altri comprano una cuccia e acquistano animali da compagnia; il surrogato dei figli. Lo stupore di qualche anno fa si è convertito in abitudine: le strade delle città piene di persone con al guinzaglio uno, due, tre cani, trattati come principi, vestiti secondo stagione, alimentati con una linea di prodotti che riempiono scaffali interi dei supermercati.
Chi scrive non si sottometterà al rito della giustificazione preventiva. L’animalismo di risulta sta diventando altrettanto aggressivo e agonistico del femminismo peggiore, ma non metteremo le mani avanti dichiarandoci amanti degli animali. Il problema non è quello: ciascuno ha diritto a dirigere il proprio affetto verso chi gli pare, uomo, donna, gatto o furetto. Esiste tuttavia – o meglio esisteva – un confine che è stato oltrepassato, uno scarto qualitativo tra l’essere umano e gli altri esseri senzienti. Legislazioni che attribuiscono diritti giuridici ad alcune specie animali, evidentemente in assenza dei doveri e della consapevolezza di entrambi. Detrazioni fiscali per spese relative alle bestie (pardon, il sinonimo è vietato…) mentre poco o nulla va agli umani. Intemerate e ordinanze municipali contro i botti di Capodanno – oggettivamente stupidi – in quanto spaventano alcune specie. Ossessione contro la caccia, che è la storia della creatura umana, peraltro stranamente non accompagnata da analogo accanimento verso la pesca.
Tutti sintomi, effetti di una patologia contemporanea. La radice comune sta in due fenomeni assai diversi: da un lato l’equiparazione dell’animale all’ uomo, prodotto di una civilizzazione estenuata piena di odio di sé. Dall’altro un desiderio confuso, ma forte e positivo, di dare e ricevere amore. Non ci fidiamo più dei conspecifici – una ricerca del Censis rivela che tre italiani su quattro diffidano degli altri esseri umani – non riusciamo più ad amarli, spesso ne abbiamo addirittura paura o orrore, allora ci rivolgiamo agli animali. Non avere figli –il papa ha ragione – è un atto di egoismo. Nessun fastidio, nessuna responsabilità, la paura della sofferenza (eh sì, i figli fanno soffrire). In più un figlio, come il diamante della pubblicità, è per sempre: un impegno a vita che confligge con la società liquida, con la provvisorietà elevata a criterio. E’ anche un spesa, sissignore: infatti ci dicono che l’immigrazione – ovvero l’importazione dei figli altrui – risolve il problema previdenziale. Non è vero, ma l’argomento attrae, in una società basata sul denaro, il regno della partita doppia, l’Occidente dei ragionieri, delle statistiche e degli algoritmi.
Non c’è ancora un algoritmo dei sentimenti, eppure l’essere umano senza amore non può stare. L’amore più naturale è verso i figli, i genitori, i parenti, gli amici, i connazionali. In mancanza, funziona benissimo il gattino e il simpatico bastardino (ahi, si deve dire meticcio) preso al canile. Abbiamo bisogno – fisico e spirituale – di dare amore e di riceverlo. L’animale “sociale e politico” di Aristotele aborre la solitudine, non sa vivere distanziato, non può fare a meno di offrire, per così dire, un’apertura di credito sentimentale. In questo senso, purtroppo, delude più l’uomo che l’amico a quattro zampe, che tendiamo a trattare come se fosse “umano”. Non lo è e non lo dobbiamo snaturare.
Bergoglio ha usato, nel suo intervento a favore della ripresa demografica, un argomento che la gente non capisce più: ha detto che saranno loro, i nostri figli, a chiuderci gli occhi. Questa era la speranza delle generazioni precedenti; adesso si muore in solitudine, in un asettico reparto ospedaliero, le ultime immagini sulla retina sono camici bianchi e siringhe. Non vale più la consolazione di ieri, i vecchi necrologi: “circondato dall’affetto dei suoi cari e munito dei conforti religiosi, è spirato …”. Ieri, i figli erano una benedizione di Dio, oggi un fardello. Alla larga: per fortuna i sentimenti resistono. Sostituiamo i figli con gli animali domestici e soffriamo sinceramente per loro, ce ne prendiamo cura, dimostrando così di essere ancora “umani”. Su questo occorre fare leva per animare un rinnovato umanesimo.
Nella nostra infanzia, nella piazzetta sotto casa dettava legge una distinta professoressa d’inglese che tutti chiamavano la Signorina. Adorava un cagnolino di nome Giacinto e odiava noi bambini, impedendoci di giocare e di fare quel po’ di chiasso che è normale a quell’età. Quell’inversione di affetti, quel malanimo antiumano lo detestiamo da allora e continuiamo a considerarlo una malattia. Il rispetto per il creato e le creature non può diventare capovolgimento, disprezzo per l’essere umano. Unito all’egoismo di chi non vuole figli per “godersi la vita” e alla paura di prendersi responsabilità, l’odio di noi stessi è ciò che spaventa del mondo che abbiamo sotto gli occhi.
Non è normale amare Giacinto più dell’essere umano e respingere l’idea di avere figli. Nessuno ci chiuderà gli occhi – basta la punturina – e non guardiamo più in faccia qualcuno riconoscendo noi stessi, non lavoriamo per nessuno tranne che per noi, ci sacrifichiamo solo per una vacanza alle Maldive o un abito firmato, dimentichiamo la gioia di dare, di trasmettere, l’esaltante fatica di educare, ci chiudiamo al futuro. Dopo di me il diluvio, disse Luigi XV alla sua amante, la Pompadour. Thomas Mann, nella Montagna Incantata, osserva che il denaro sarebbe diventato imperatore, sino alla demonizzazione dell’umanità. Denaro sterile, poiché non lasciamo eredi. Il papa ha parlato, ma ha trascurato di chiedere scusa per aver dileggiato, anni addietro, chi fa figli “come conigli”, rovesciando l’insegnamento della chiesa di cui è capo.
Le cucce sono piene perché vogliamo disperatamente un pezzetto d’amore, perché abbiamo in petto tesori di altruismo e anche – diciamolo – perché degli animali noi possiamo mantenere il controllo: impegnano meno, non ci sfuggono come i figli, raramente si ribellano, si accontentano di poco. Le culle sono vuote per mille ragioni, ma la più grave è la perdita del senso dell’esistenza, quella che i nostri vecchi, meno istruiti di noi, ma più saggi e “umani”, chiamavano la ruota della vita. Sterili per scelta, non possiamo deprecare le conseguenze di ciò che abbiamo tenacemente distrutto: la famiglia, la trasmissione dei principi, la comunità, l’identità, l’orgoglio di costruire qualcosa innanzitutto per i figli, il futuro con il nostro nome e il nostro volto. Nella vita “usa e getta” c’è posto per Fido, non per nuovi membri della specie umana, allevati, educati, pardon, “mantenuti” da noi. Nella triste partita doppia, i figli costano troppo, occupano la vita h.24, non si possono noleggiare, restituire o sostituire. Aveva ragione Thomas Mann: vittoria del calcolo, fine dell’uomo.
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