Sotto un cespuglio, su un terreno di ciottoli, una enorme pozza di sangue in parte già rappreso. Lungo la strada che porta ad Afabet. La grande vittoria sull’esercito etiope da parte dell’EPLF (Fronte di liberazione del popolo eritreo), iniziatasi il 17 marzo del 1988, e che aprì la via all’indipendenza tre anni dopo. Un brandello di carne umana, il cuore intatto, tutto quanto rimaneva di un combattente eritreo – a pochi metri di distanza una giacca mimetica consentiva di stabilire l’appartenenza. Un simbolo e la risposta all’autore – scrittore e corrispondente di guerra -, insofferente a limitarsi al blocchetto di notes, alla cronaca di quei giorni, certo importanti e pur esaltanti, ai semplici rapporti e schede e cifre della battaglia con il conteggio dei morti delle armi distrutte o conquistate al nemico delle file di prigionieri. Tutto giusto da descrivere e testimoniare e tramandare alle generazioni a venire, agli storici, eppure poco, arido e povero, se non dare voce allo spirito di quegli uomini, di quelle donne che furono e si temprarono nei lunghi anni di lotte e sacrificio e di sangue sparso. Così nascono le scarne pagine di Cuore di Tegadalai, momento centrale della raccolta degli scritti di Alemseged Tesfai, editi sotto il titolo Due settimane nelle trincee.
Ricevo il libro in regalo da Rodolfo per il mio compleanno – è una consuetudine che ci concediamo da ormai dieci anni, compreso a Natale. Su Internet vi sono diverse immagini della presentazione ad Asmara di questa traduzione in italiano – dopo la precedente in lingua inglese. Laura, che insegna nella scuola elementare italiana, gli ha segnalato l’avvenimento e Rodolfo s’è fatto spedire il libro con tanto d’autografo. Sa che oramai i miei interessi e la mia scrittura sono più prossimi alla storia narrata che al saggio. Io stesso mi sono cimentato nel genere (racconti con ambientazione e rimandi a reali vicende) con Atmosfere in nero (2011) dove si trova Alima, è andata via!, ambientato in Etiopia al tempo della conquista e fino ai giorni nostri. Lo sfoglio. Permane una sua forza espressiva…
Forza espressiva di cui è capace l’autore fin da racconti brevi, inseriti in questo libro in numero di tre, esili ma non superficiali. Prove giovanili che mostrano già come egli sappia muoversi dal piano descrittivo – luoghi volti gesti – allo scavo dei sentimenti delle emozioni di anime semplici e nobili al contempo. Mi riferisco, in particolare, al secondo, Grazmatch Tsegu, di un vecchio con la carriola carica di ossa da vendere ad una fabbrica di bottoni. Figura misteriosa che alcuni ritengono di riconoscere in un ex soldato dell’esercito coloniale italiano, promosso con il grado di Shumbashi, il più elevato nei reggimenti eritrei. Scomparso poi e che, negando la propria identità, si sottrarrà ancora una volta al rapporto con il mondo esterno. Le ragioni? Insoluta la domanda, tanti i perché senza risposta. Ma, simile all’autore, preferisco accettare quella espressa dal padre ‘non poteva andare al passo coi tempi’. Nostalgia verso la propria giovinezza eroica e vissuta in un tempo eroico, al servizio di un’Italia, certo dominatrice e con velleità coloniali, ma in nome di una dimensione di civiltà eroica. E, qui, sono io che mi lascio trasportare, immedesimandomi.
Prima colonia italiana (1890), alla fine del secondo conflitto mondiale, ad opera degli inglesi in primo luogo, si andò smantellando quanto il Fascismo s’era adoperato per renderla moderna. Fiore all’occhiello dell’idea coloniale dell’Italia – tuttora Asmara, la capitale, mostra tutte le caratteristiche delle città di fondazione anni Trenta. Forse per questo ‘la perfida Albione’ fu tenace fautrice del suo smembramento a favore di Etiopia e Sudan. L’ONU decise per accorpare l’Eritrea all’Impero d’Etiopia con ampia autonomia, durata pochi anni, chè già nel ’62 venne annessa come provincia a tutti gli effetti (più simile a sottomissione che a modello federativo). Intanto si andava a costituire un fronte teso ad ottenere l’indipendenza e, ben presto, rendendosi armi alla mano vera e propria lotta di liberazione. Con alterne vicende militari.
Alemseged Tesfai (19 ottobre 1944) nasce in una piccola località del sud dell’Eritrea, Adi Quala; studia legge all’università di Addis Abeba dove si laurea; nel 1974, mentre segue un master negli USA, in Wisconsin, premessa di brillante carriera da avvocato, abbandona gli studi per aderire all’allora nascente Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea, partecipando quindi ai lunghi incerti anni di lotta contro la dominazione etiope. Si fece notare quale scrittore con un romanzo su un bandito che sposa la causa della rivoluzione, ora in fase di realizzazione cinematografica. Due settimane nelle trincee, come le opere di teatro qui incluse (Le’ul e L’altra guerra, quest’ultima messa in scena da una compagnia inglese), sono vivido spezzone della sua esistenza spesa in armi e con la penna.
Due settimane fra gli anfratti rocciosi, le caverne a rifugio, salire e scendere gli aspri monti del suo paese, la pistola e il taccuino, ormai quaranta anni (quasi un vecchio per quei combattenti in prima linea – giovanissimi – con i capelli e la barba striati di grigio), il fiato corto e la volontà, in contrasto, a imporsi quale testimone, tenere il passo, essere non solo corrispondente ma un soldato, un Tegadalai (un combattente della libertà e molto di più nel suo significato, per valenza religiosa e spirituale). Due settimane possono sembrare e sono poche (nel centenario della Grande Guerra il pensiero rimanda ai nostri fanti nelle trincee del Carso o a quei soldati d’opposte nazioni in territorio francese, fra pietraie fango pidocchi per mesi per anni). Eppure possono bastare se le parole si fanno traduzione di sentimenti di emozioni capacità d’entrare oltre le immagini dei visi il giaciglio a terra le armi a fianco i gesti di uomini e donne che si portano il senso di morte annunciata con un sorriso la battuta il canto la danza. Questo è ‘cuore di tegadalai’…
Torniamo, dunque, a quella parte centrale del libro ove – l’abbiamo scritto – l’autore s’interroga in cosa consista lo spirito del combattente eritreo, quale la sua essenza, prendendo le mosse dal ritrovamento occasionale di un cuore sotto un cespuglio. Per anni egli era stato insegnante presso la Revolution School nel deserto del Sahel dove l’EPLF s’era ritirato sotto l’incalzare dell’esercito etiope. A lui erano venuti i giovani e giovanissimi, uomini e donne, che volevano arruolarsi e combattere e non impigrire intristirsi essere rinunciatari nei campi profughi del Sudan. Egli ne incontra alcuni nella sua esperienza in prima fila. Di alcuni apprende, prima e dopo, che sono caduti in combattimento. Ferite aperte, mai sanabili.
E’ il caso di una ragazza, soprannominata Chu Chu, di circa vent’anni, che gli rivela il senso stesso di quella sua presenza fra quei combattenti, lui ormai ingrigito e lei la sopravvissuta a tante battaglie. ‘Sopravvivere ai propri coetanei, ai propri compagni di studio e agli amici è la cosa peggiore che ci possa succedere’. Poi, arruffandogli i capelli con gesto affettuoso e scuotendo la testa, gli suggerisce l’intimo ruolo del suo essere fra loro, ormai uomo in avanti con gli anni e forse poco adatto a impugnare il fucile ‘… perché è venuto a seppellire i suoi figli’. Non con la vanga, certo, ma dando loro un nome da preservare nella memoria con la penna rispetto ai tanti che cadono anonimi. Incontro duro aspro rivelatore.
Seguono momenti concitati di uomini che avanzano sotto il cannone e le raffiche del nemico di notizie contrastanti di amici che se ne vanno fieri e silenziosi nella lotta. E giunge il momento – trascorse le due settimane – di riprendere il cammino verso le retrovie. Con una nuova dolorosa consapevolezza. Annota nel suo diario: ‘Quando ho lasciato le trincee per tornare ad Arag pochi giorni dopo, l’ho fatto con il cuore gonfio. Chu Chu aveva ragione. Ero venuto a Nakfa a seppellire i miei ragazzi’…
A quei ragazzi, a cui ha dato un nome e ai tanti che se ne sono andati in silenzio, il cuore appartiene, rappresenta ‘tutti i martiri che sono caduti … in prima linea o nelle retrovie, nelle città o nelle campagne, per la terra per la quale ha sanguinato’. (Forse sono parole che ci appaiono grondanti retorica, a noi figli di un’Europa morta fra le macerie di Berlino, aprile ’45, di cui non vogliamo preservare il lutto. Preferiamo i gessetti colorati per disegnare fiori sull’asfalto delle piazze di Bruxelles Londra Parigi in risposta alle cinture esplosive il fucile mitragliatore i veicoli lanciati scientemente contro la folla). Un cuore – di uno e di tutti – in cui ‘odio e sfida reclamano una parte uguale nelle sue passioni ed emozioni’ – e ‘la rabbia e il terrore’ in combattimento, simile a veleno iniettato negli occhi del nemico. Certo. Eppure, dopo il momento del-le armi, ‘una insita delicatezza, un mare di compassione’ (forse l’autore ha in mente le parole del Che sul preservare comunque la tenerezza…). Il Cuore di Tegadalai.
Quel cuore, stupido e inutile, che vorremmo possedere in noi…