Prendo le mosse dall’appena conclusa protesta della Coldiretti al Brennero e da quella — in corso — dei Forconi siciliani, per abbozzare alcune considerazioni sulla lenta agonia dell’agricoltura italiana. Una agricoltura naturalmente ricca e che potrebbe recare ricchezza all’Italia intera. Eppure, la nostra agricoltura e la nostra zootecnia stanno morendo di consunzione, mentre un numero sempre crescente di famiglie italiane rischia la povertà.
La nostra industria agroalimentare — un tempo volano dell’economia nazionale — è stata oramai liquidata. Prima quella statale: l’Italgel (ceduta alla svizzera Nestlè), la GS (alla francese Carrefour), la Bertolli (alla multinazionale anglo-olandese UNI-LEVER). Poi quella privata, strangolata dalla globalizzazione: Galbani, Invernizzi, Locatelli, Parmalat e San Pellegrino ai francesi, Carapelli, Star e Scotti agli spagnoli, Buitoni agli svizzeri, Peroni agli inglesi, Algida agli anglo-olandesi, Molteni agli svedesi, Plasmon agli americani, Gancia ai russi, Pernigotti ai turchi, Fiorucci ai giapponesi, Chianti ai cinesi.
Il nostro buon cibo — che tutto il mondo ci invidia — trasmigra all’estero, e a noi non rimangono neanche i benefici economici dell’esportazione, destinati ad arricchire svizzeri, francesi, turchi e cinesi. Quelle poche piccole industrie alimentari italiane che ancòra resistono hanno sempre maggiori difficoltà ad esportare, trovando i mercati saturi di tutte le porcherie che la similindustria della contraffazione spaccia per cibo italiano: dalla mozzarella campana fatta in Scandinavia al parmigiano reggiano prodotto nel Far West, a tutte le bufale made in China.
In compenso, in nome della libertà dei commerci (per cui i buoni americani hanno fatto due guerre mondiali) da noi arriva di tutto; e in primo luogo arrivano quei prodotti scadenti e spesso nocivi che spiazzano la nostra produzione di pregio, impossibilitata a reggere la concorrenza di merci — apparentemente simili — immesse sul mercato a prezzi stracciati. «Sono le regole del mercato» sentenziano gli imbecilli iperliberisti che sbavano sullo spread e sul “politicamente corretto”. Non è vero: sono le regole di un mercato unico mondiale pensato appositamente per uccidere le economie dei paesi europei. E, mentre negli scambi internazionali regna la legge della giungla e l’Organizzazione Mondiale del Commercio — proprio ieri — ha varato un altro tragico programma di liberalizzazione globale, l’Unione Europea ci assedia con raffiche di direttive, regolamenti, prescrizioni ed angherie varie che frenano il nostro sviluppo: non possiamo produrre quello che potremmo, ma dobbiamo rispettare le quote latte, dobbiamo portare al macero le arance raccolte in più, non possiamo piantare un vigneto ed anzi ci pagano per estirpare quelli che abbiamo. Potremmo produrre agevolmente tutto quanto ci serve per sfamare gli italiani, ma questo sarebbe un delitto di lesa maestà comunitaria, un rigurgito autarchico di mussoliniana memoria. Dobbiamo obbligatoriamente — in nome della democrazia e della libera circolazione delle merci — importare latte dalla Germania e dalla Slovacchia, arance dal Maghreb, uva dal Cile e dal Sud Africa, carne dall’Argentina, olio dalla Spagna, e così via; dobbiamo acquistare di tutto, ivi comprese certe carni macellate che sono spesso veicolo di epidemie.
Né, ad onor del vero, dal mercato nazionale giungono segnali incoraggianti: i produttori sono costretti a vendere a prezzi da fame quei prodotti che — dopo troppi passaggi non sempre limpidi — giungono sugli scaffali dei supermercati a prezzi da gioielleria. In mezzo, fra gli anelli della catena di intermediazione, qualcuno si arricchisce sulla pelle degli agricoltori e dei consumatori. Ma anche queste sono le regole di sua maestà il Mercato. E se le metti in discussione diventi fascista o — a scelta — comunista.