In vari ambiti culturali si comincia a parlare con insistenza di «uomo post-covid» e tra i vari studi vi è quello dello psicoterapeuta Roberto Mucelli, esperto di comportamento animale e linguaggio, secondo il quale “la relazione tra uomo e selvatico sarà uno dei modelli da calibrare nel prossimo futuro: l’equilibrio con il bosco, la manualità, e il fatto che esiste un mondo, lì fuori, con cui dobbiamo ri-entrare in contatto”.
La tesi di Mucelli parte da un assunto molto semplice: dagli animali abbiamo tanto da imparare, essendo animali a nostra volta. L’uomo è cacciatore come il cane, ama il gioco come il gatto, è remissivo come la pecora, è indipendente come l’orso, è veloce come il falco, e via dicendo. Quando se n’è dimenticato? Grosso modo nel momento in cui ha realizzato che «farsi un’idea precisa delle cose» fosse prioritario rispetto a tutto il resto, sospettando tra l’altro che ciò era (è, sarà) umanamente impossibile.
Sotto questo aspetto il Sapiens dell’Origine può essere preso ad esempio quale esemplare incontaminato da considerare, per imparare, nonostante le sue condizioni di vita fossero completamente diverse dalle nostre. Immerso com’era in una diffusa naturalità gli bastava guardarsi attorno per subire impressioni e provare sensazioni forti, ottenendo nel contempo una straordinaria facoltà d’immaginare. Non era nelle sue corde porsi problemi filosofici, la coscienza desiderosa di autogovernarsi era di là da venire e la sua intrinseca animalità godeva di privilegi che le generazioni successive avrebbero perduto irrimediabilmente.
Ma poi la ragione in veste di pratica astuzia diede fuoco alle polveri della rivolta contro l’ordine naturale delle cose. La lucidità dell’istinto si annebbiò gradualmente ed ebbe inizio la decadenza della creatura imperfettamente giudiziosa da noi rappresentata. L’immaginazione uscì dal processo di trasformazione fortemente ridimensionata, tant’è vero che oggi nessun essere umano si considera un «animale» e le specie che sporcano e puzzano sono mal sopportate. Gli animali domestici vengono sistematicamente umanizzati mentre altri finiscono in pentola, sebbene il genere Homo non sia carnivoro per costituzione. O per meglio dire, a tratti smette di esserlo per poi ritornare alla dieta carnea.
Certi tratti anatomici del nostro apparato masticatorio suggeriscono l’inizio del consumo di carne fra il Pliocene e il Pleistocene, quindi già due milioni e mezzo di anni fa. Secondo i paleoantropologi l’uomo sarebbe stato prima un primate frugivoro, poi un ominide granivoro, infine un cacciatore. Ma anche in questo caso non si tratterebbe del sobrio cammino di una specie verso una meta bensì di un percorso confuso e traballante che ultimamente, a giudicare dalle nuove tendenze, sembra orientato verso la dieta vegetariana.
Limitatamente al presente Ciclo umano l’indole carnivora riemerse durante l’ultima Era Glaciale, quando la terra ibernata smise di offrire alle creature terrestri i suoi frutti preziosi. Mangiarsi l’uno con l’altro era il prezzo da pagare alla sopravvivenza, una necessità ineluttabile persino agli occhi di uomini «puri» e spiritualmente integri come i granivori Sapiens primordiali, lontanissimi dalla nostra mentalità di «consumatori seriali». Ma non c’era scelta.
In nome e per conto della comunità gli sciamani cominciarono così a chiedere perdono alla Natura attraverso cerimonie rituali che rendessero onore agli Spiriti delle creature che loro malgrado offrivano il proprio corpo per la sopravvivenza degli umani. Non c’era rito senza l’effige di un uomo-animale capace di rinsaldare il perduto sodalizio ancestrale, e in quelle figure c’era sempre qualche bizzarra anomalia, come ad esempio la taglia gigantesca, la facoltà di parlare e di spostarsi con una velocità sorprendente, l’aspetto terrorizzante. Il tutto unito a un interesse quasi morboso, intimo e complice, per la vita degli uomini.
Da parte loro i cacciatori erano affascinati dalla potenza e dalla forza delle grandi belve, del leone e del toro, succubi dello sguardo magico del gatto e del serpente, stupiti davanti alla capacità della scimmia di salutare ogni giorno il sorgere del sole, impauriti dall’audacia dello sciacallo che minacciava la strada delle anime.
Narasimha: proteggi te stesso
Narrano le scritture indù che mentre il grande freddo allentava la sua presa i sopravvissuti si trovarono in balìa del demone Hiraṇyakaśipu, il quale non poteva essere ucciso da umani, né da deva (super-umani), né da animali. Al termine di una serie di battaglie epiche il malvagio venne simbolicamente battuto al crepuscolo (né di giorno né di notte) sulla soglia di un cortile (né dentro né fuori) da suo fratello Narasiṃha, l’uomo-leone, il quale pose fine alle calamità sulla Terra ripristinando il dharma. La vittoria fu possibile grazie al fatto che costui non rappresentava nessuna delle categorie citate, essendo una forma di Vishṇu incarnata come parte umana e parte animale.
L’affermarsi dell’uomo-leone segna una tappa importantissima del viaggio dell’uomo nella Storia e nel mondo. Dopo oltre 10mila anni di vagabondaggi e meticciamenti i discendenti dei Sapiens scesi dall’Artico avevano fondato altre patrie (in Siberia, Europa, Nordamerica) ma per appartenere veramente a quei luoghi dovevano prima tagliare i ponti con un passato ormai concluso, cioè ripensare le loro vite. Lo avrebbero fatto sotto il segno di Narasimha, un significativo simbolo di resistenza fisica, creativa e di speranza contro ogni ragionevole dubbio, che li avrebbe protetti non solo dal male esteriore (le calamità ambientali) ma anche da quello interiore (corpo, parola, mente).
La scelta potrebbe essere derivata dal fatto che il leone delle caverne, o leone della steppa (Panthera leo spelaea), molto più grande di quello africano di oggi, era una presenza comune nell’Eurasia del Pleistocene. Quelli che abitavano la Yakutia siberiana, l’Alaska e lo Yukon canadese (Panthera leo vereshchagini), conosciuti anche come «leoni di Beringia», avevano dimensioni persino maggiori, e quindi si prestavano egregiamente a rappresentare l’idea di forza e potenza di cui la nuova umanità aveva bisogno per reinventarsi.
Una scoperta inaspettata
Risale al 1939 il ritrovamento di circa duecento frammenti di zanna di mammut nella falesia di Hohlenstein, non lontano da Ulm, nel sud-ovest della Germania, appena a nord del Danubio. La guerra era alle porte e ci vollero ben trent’anni prima che qualcuno trovasse il tempo di assemblarli in modo da ricostruire la figura eretta leggermente protesa in avanti di un uomo-leone alto di una trentina di centimetri.
L’artistico manufatto è conosciuto oggi con il nome di «uomo-leone di Hohlenstein Stadel», ha circa 40mila anni di età e chi l’ha realizzato viveva in un ambiente caratterizzato da temperature piuttosto basse, aveva una profonda conoscenza dell’avorio come materiale e una buona padronanza nell’uso di diversi strumenti.
La curvatura della zanna di un mammut giovane è stata abilmente sfruttata per replicare la postura in avanti di qualcuno che procede in punta di piedi. Le gambe sono divaricate, le braccia appena discoste ai due lati, i polpacci ben torniti, l’ombelico in evidenza, le orecchie dotate di canale auricolare, lo sguardo diretto e potente è sottolineato da una bocca piegata in un vago sorriso.
La vera identità di questo personaggio è tuttora incerta, e il fatto che l’esame al microscopio digitale abbia rivelato nel cavo della bocca una sostanza organica molto simile al sangue apre scenari attualmente fuori dalla nostra (limitata) portata immaginativa. Non sappiamo se rappresentasse una divinità, il simbolo di un’esperienza spirituale, il ricordo di Narasimha, un amuleto per fronteggiare le forze della natura, o qualcos’altro. Ma di sicuro alle sue spalle c’era la condivisione di una narrazione millenaria basata sul rapporto uomini-animali e tesa ad infondere coraggio a comunità costantemente in lotta con ogni genere di difficoltà.
Nella stessa regione, in una grande grotta dalla forma vagamente rettangolare, è stata ritrovata una statuetta simile alla precedente, chiamata il «piccolo uomo-leone» perché più giovane di circa 10mila anni, segno evidente che i cerimoniali legati a questo genere di manufatti furono assai longevi. In una stanza adiacente c’erano anche denti di volpi artiche, di lupi e di cervi, forati per farne ciondoli, insieme a frammenti di corno di renna.
Sarebbe tuttavia riduttivo parlare di semplice zoolatria, cioè di culti primitivi dedicati agli animali. Non dimentichiamo che l’Homo sapiens divenne Homo religiosus nel Gravettiano (da 29.000 a 20.000 anni fa circa), se non prima, e fin dall’inizio di questa vocazione il sottosuolo è stato il suo tempio consacrato. Il luogo deputato all’esperienza. Durante il grande gelo le caverne furono, sì, aree privilegiate (lontane dai pericoli) in cui ci si metteva tutti attorno al fuoco a raccontare e ascoltare storie, ma anche punti di osservazione in cui studiare le tante «cose strane» che avvenivano lontano dalla luce del sole. Dagli incontri fuori del comune agli avvistamenti di teriantropi inspiegabilmente interessati al mondo umano, e quindi in costante e vigile ascolto.
Teriantropia
Per millenni gli uomini hanno stretto rapporti con i loro «animali padroni» nelle caverne popolate da serpenti giganteschi e cornuti, uccelli parlanti, creature acquatiche che nuotavano in luoghi subacquei, ectoplasmi che fluttuavano nell’aria, strani uomini che salivano in cielo appesi a funi invisibili.
Completamente obnubilata dalla tecnologia la mente umana ha ormai perduto la consapevolezza dell’enorme potenza spirituale di Madre Natura, i cui araldi sono appunto i pesci, i corvi, i lupi, le aquile, i leoni, gli orsi, le tartarughe e via dicendo. E dove la tecnologia non è arrivata a fare piazza pulita ha provveduto l’ideologia, come ha dimostrato la follia iconoclasta promossa dalla cultura della cancellazione che ultimamente ha fatto rimuovere i tre leoni simbolo del regno Britannico (un retaggio dei tempi di Riccardo Cuor di Leone) dal logo della nazionale di calcio inglese per sostituirli con un leone, una leonessa e un cucciolo, emblemi della «vera diversità».
Viviamo purtroppo in gabbie di regole e disciplina che ci hanno fatto abiurare i Grandi Spiriti che albergano intorno a noi. La nostra «indole animale», però, non è morta. Si è momentaneamente assopita e prima o poi ri-emergerà dall’oscurità in cui la coscienza l’ha confinata, dopo di che nessuno sa cosa accadrà.
Lungi da me la tentazione di battere la pista neuropsicologica, mi limito a constatare la «libertà di testa» di cui godevano gli uomini che ci hanno preceduto, provenienti da una cultura fortemente sciamanica e perciò naturalmente predisposti alla ricerca attraverso l’esperienza. All’opposto di noi quei lontani antenati non ricercavano l’oblio per dimenticare la vita ma della vita volevano assaporare tutto, nel bene come nel male, perciò facevano un uso attivo di allucinogeni vegetali per entrare in universi paralleli dov’era possibile incontrare entità altre capaci di fornire indicazioni e consigli. Oppure, cambiando prospettiva, dove era possibile entrare nelle profondità della subcoscienza per trovare la soluzione a un problema in relazione al momento dato.
Durante l’ultima Era Glaciale la droga più diffusa in Eurasia era il Psilocybe semilanceata – chiamato dai micologi moderni Liberty cap, il berretto frigio – un fungo allucinogeno piccolo e marrone che oggi cresce agevolmente alle fredde latitudini nordiche. Nelle Americhe c’era l’ayahuasca, contenente principi attivi simili. Ancora nel mondo dei Pellerossa, prima del massacro dei nativi portato a termine dagli europei per motivi d’interesse, una grande quantità di teriantropi descritti come i creatori dell’universo e della razza umana si muoveva liberamente tra le tribù, raccontava storie, parlava, trattava, stringeva accordi e portava cultura.
Nell’immaginario indiano non c’erano differenze tra la sfera animale e quella umana, ciascuna prendeva gli abiti dell’altra, cambiando sembianze a volontà. Per gli sciamani era «normale» intrattenere conversazioni con animali di cui evidentemente comprendevano il linguaggio. Ingenuità primitive? Intervistato da un giornalista che non riusciva a trattenere un sorrisetto beffardo davanti a certe allusioni sulla capacità di poter comprendere gli uccelli, il capo sioux Cervo Zoppo, classe 1877, asfaltò l’interlocutore con queste parole: “Nella vostra Bibbia una signora parla ad un serpente. Io, per lo meno, parlo alle aquile.”
Il beneficio del dubbio
Viene spontaneo domandarsi per quale motivo negli universi paralleli prendano forma dappertutto gli stessi «animali padroni». A prescindere dal continente osservato, dall’epoca in esame, dalla cultura e da tutto il resto, gli sciamani in trance «vedono» gli stessi identici esseri. Perché?
Com’è possibile che 35.000 anni fa i siberiani, i catabrici e i san/boscimani del Sud Africa dipingessero sui muri dei loro templi sotterranei identiche figure allungate con teste di animale immortalate nell’atto di cacciare, volare, saltare, avanzare in paesaggi irreali? Perché nei Reami dello Spirito ci sono bestie fantastiche, ibridi, chimere e «teriantropi», ossia creature in parte umane e in parte animali per le quali non esiste, né probabilmente è mai esistito, alcun modello nel mondo naturale? Il cervello umano possiede naturalmente un immutabile archivio neurale di «forme iconiche» che raffigurano regni e creature di altri mondi? E in tal caso, chi o cosa lo ha cablato?
La modernità ha aggirato l’ostacolo inserendo nella categoria «allegorie» tutte le entità teriantropiche presenti nelle mitologie e nelle religioni del mondo. Il tempo è danaro, non è il caso di farla troppo lunga ponendosi domande per le quali non vi sono risposte. I «misteri» sono cose d’altri tempi e i bardi dell’antichità erano degli ingenui cantastorie, sprovveduti privi di pensiero scientifico. Fine della storia.
Sta di fatto che persino in una società d’inguaribili riduzionisti dipendenti dalla tecnologia come l’attuale lo sciamano in estasi continua a «vedere» teriantropi che si presentano a lui in forma animale, prima di assumere le loro «vere» sembianze e dare inizio all’opera d’istruzione. Puro spirito di emulazione? Consuetudini che passano per forza d’inerzia dai Maestri ai discepoli?
Utilizzando il «metodo analogico» e fregandosene dell’ostracismo dei colleghi, un gruppo di ricercatori (Graham Hancock, Sciamani. I maestri dell’umanità, 2009) ha stabilito un nesso tra alcune manifestazioni apparentemente diverse tra di loro: il mondo degli Spiriti magicamente espresso nell’arte rupestre preistorica, certi riti di culture sciamaniche che sopravvivono nei luoghi più remoti del mondo, le «creature fatate» che hanno catturato l’immaginazione dell’Europa medioevale, l’esperienza moderna di incontri con Ufo e alieni particolarmente forte in Nordamerica. Troppi ingredienti per una pietanza sola?
La tesi si basa sul principio di uguaglianza che accomuna gli sciamani paleolitici che vivendo in simbiosi con la Natura incontravano nell’Oltremondo l’«essere-serpente», l’«uomo-corvo» o il «mago-leone», le persone che nelle società più complesse e raffinate del Medioevo avevano contatti con i fairy e l’uomo contemporaneo coinvolto in esperienze di abduction, iniziazioni ad opera di veri o presunti extraterrestri con gli occhi obliqui, le gambe corte e le teste sproporzionate. Una teoria discutibile finché si vuole che, però, ha il merito di sollevare dubbi, un esercizio salutare in un mondo ossessionato dalle certezze.
In determinate condizioni, la subcoscienza può staccarsi temporaneamente dal corpo e «viaggiare» in regni non fisici interagendo con le intelligenze che vi abitano, alle quali, essendo esse incorporee, cioè Spiriti, la mente umana «dà una forma»? Gli «esseri-spirito» e gli «animali-padroni» ci sarebbero, se l’Uomo non ci fosse?
Se rispondiamo NO, non possiamo dimostrarlo, se invece rispondiamo SI siamo costretti ad ammettere di non essere le uniche creature intelligenti di questo universo. Una circostanza tutto sommato confortante; è bello sapere che «qualcuno» in determinate condizioni può interagire con la nostra realtà tridimensionale, o intervenire a sua discrezione nei momenti cruciali allo scopo catalizzare lo sviluppo umano.
Leoni contemporanei
Poco distante dall’«uomo-leone di Hohlenstein Stadel» sono stati ritrovati dei flauti ricavati da ossa di uccelli già cave all’origine, insieme ad altri strumenti a fiato più complessi intagliati nell’avorio e ad una figurina che sta chiaramente danzando. Tutti oggetti che non solo parlano di uomini disposti ad abitare altri mondi, compiendo balzi immaginativi enormi, ma anche di una «società artistica» bene avviata e di cervelli come i nostri perfettamente in grado di andare oltre il qui ed ora.
Dall’esplorazione degli universi paralleli tutto è cominciato, e lì torneremo grazie alla fisica quantistica, sebbene siano cambiati i mezzi utilizzati dall’uomo per ritagliarsi il suo posto nel cosmo (dal fungo del Sapiens dell’Inizio siamo passati alle intelligenze artificiali di quello della Fine). Diversissimo è inoltre lo spirito con cui l’umanità si appresta a fondare il nuovo mondo che rimetterà in ordine la sua vita.
Se quella dell’uomo-leone di Hohlenstein Stadel è stata un’esperienza profonda in quanto lo sciamano paleolitico testava i suoi «poteri» in prima persona, la comunicazione incorporea dell’Era Digitale ha tutta l’aria di essere una finzione. Un ologramma. Un’allucinazione pilotata da una manciata di potentissimi umani che procede in disparte su una strada completamente diversa. Quella di sempre, probabilmente, che è la sola possibile.
Ad alcuni è riservata l’«esperienza», cioè la crescita, tutti gli altri partecipano inconsapevolmente ad «esperimenti» su scala mondiale che di quell’esperienza privilegiata ed esclusiva sono parte integrante. I test sono iniziati subito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, quando la rivoluzione psichedelica portò milioni di giovani hippie a provare l’LSD, un progetto riconvertito dalla nascente Era informatica nel linguaggio virtuale dell’elettronica.
Solo dei grandi visionari potevano escogitare una soluzione che apparisse salvifica, e nella fattispecie gli sciamani digitali portavano il nome di Paul Allen e Steve Jobs, personaggi decisamente sopra le righe che non fecero mai mistero dei loro «viaggi» ultramondani. Ma purtroppo il destino di chi guarda lontano è quello di inciampare nel sasso che ha sotto il naso, e questo caso non fece eccezione.
Per inesperienza i «giovani psichedelici» degli Anni 60/70 sottovalutarono il potere del burattinaio che tirava le fila del Teatrino delle Libertà, ignorando lo straordinario spirito adattivo del grande capitale, più che mai deciso ad incoraggiare il «solismo» di massa attraverso lo smarrimento e la depressione al fine di disgregare, cioè controllare più agevolmente, la società. Nei successivi Anni Ottanta giunsero a dare manforte al Sistema i profeti del cyberpunk, Timothy Leary in testa, promuovendo una filosofia sgangherata che era un miscuglio di magia, neurologia, psiconautica e cybernautica pensato per veicolare un messaggio preciso: la realtà virtuale ha enormi potenzialità, se saggiamente dosata. Un’illusione, come sappiamo, essendo praticamente assente il senso del limite nell’incolto uomo contemporaneo, spinto ad andare sempre avanti dalla speranza di superare (scongiurare) la morte.
Apparso fin dapprincipio come una fase degenerativa dell’esperienza sciamanica e sbocciato da una legittima nostalgia del passato, il periodo psichedelico finì così per diventare la gallina dalle uova d’oro del Terzo Millennio. Ma siccome nessuno si accontenta del semplice guadagno materiale, si cercò di dargli una parvenza di cultura con alcune teorie alquanto discutibili. Vanno in questa direzione testi come Il Tao della Silicon Valley di Randy Komisar, un manuale in cui l’indirizzo spiritualista si concretizza nell’ossessione di trovare l’armonia tra l’essenza e lo scopo dei programmi informatici creati dall’azienda.
Se non riusciamo a inventarci qualcosa di realmente nuovo nei prossimi anni, il cerchio aperto dai «leoni di Beringia» rischia di chiudersi per mano dei leoni da tastiera, semplici pedine a disposizione del gioco di esaltati onnipotenti che mirano alla costruzione di una «coscienza digitalizzata». Anche se non è detto che l’essere trans-umano che costoro hanno in mente sia realizzabile.
Si vedrà in corso d’opera se la costruzione crollerà insieme all’impalcatura o se ne verrà fuori un meraviglioso palazzo, nel frattempo chi ha gli occhi per vedere e un cuore per capire stia in guardia. Gli eroi non hanno ancora ucciso i giganti, il caos regna sovrano e nel mirino c’è il corpo, quotidianamente violato con protesi e farmaci in grado di modificare il DNA, con microchip e impianti neurali.
Non ci vuole un genio per cogliere il filo diabolico che attraversa tutto questo. Quasi non ci si crede, ma sotto i nostri occhi si sta materializzando quel famoso passo dell’Apocalisse in cui si parla del «marchio della Bestia» (XIII, 16-17) impresso a «piccoli e grandi, ricchi e poveri sulla mano destra e sulla fronte», senza il quale «nessuno potrà comprare e vendere».
Dopo aver distrutto l’anima dell’uomo recidendo ogni suo legame con il Sacro, la tecnocrazia delirante sta procedendo a grandi passi verso l’annientamento della forma humanitatis. Il disegno è chiaro: prima si getta via il liquido, poi si frantuma la bottiglia, infine si fanno sparire i frammenti vitrei affinché nessuno possa ricordare com’era fatto il contenitore originale. Non sarà il caso di bussare alla porta del leone che c’è in noi? Servono forza, potenza, fierezza, coraggio e generosità per immaginare un mondo nuovo.
Rita Remagnino
10 Comments