Bassa istruzione degli elettori, rabbia sociale, diffusione di fake news? No, la spiegazione del successo di una certa comunicazione politica è da ricercarsi nell’atteggiamento tribale dell’individuo, retaggio del processo di adattamento della specie. Proprio così. L’avvento dei social network e il loro utilizzo da parte di personaggi pubblici e politici hanno creato una prateria sconfinata, dentro la quale l’utente va a caccia delle informazioni e dei messaggi utili per la propria “tribù”. Così come l’uomo primitivo, il moderno internauta è mosso dall’istinto di sopravvivenza, iscritto nel DNA, e di fronte a una miriade di stimoli esterni potenzialmente pericolosi cerca nell’aggregazione e nel gruppo un riparo sicuro. Poco importa che il contesto sia quello della savana o di un social network, in un mondo dove i telefonini sono divenuti un’estensione del nostro corpo e la vita virtuale è spesso più impegnativa di quella reale. All’interno della Rete, dove tutti possiamo interagire liberamente e con gli stessi mezzi, le distanze con i personaggi pubblici si accorciano, l’empatia diviene più forte con l’aumentare della vicinanza percepita. L’influencer e il leader politico – spesso coincidenti – diventano presto il capo tribù, necessario per tenere coeso un gruppo, che lotterà strenuamente per la difesa del proprio territorio e del proprio leader contro minacce di nemici esterni. Per mantenere unita e sempre agguerrita la tribù occorre l’esistenza di miti in cui credere e nemici sempre in agguato. A ciò serve la narrazione semplicistica e spesso priva di rigore logico e fattuale divulgata attraverso i social network. I membri del gruppo hanno un’istintiva inclinazione alla conformazione, accettando come plausibile qualsiasi informazione che avvalora l’identità del gruppo e ne giustifica la difesa. Come già insegnava il sociologo francese G. Le Bon oltre un secolo fa, nel suo celebre saggio Psicologia delle folle, perché un messaggio sia efficace e faccia presa sul grande pubblico occorre che sia semplice e diretto, senza troppi giri di parole. Niente di più indovinato che un tweet di 280 caratteri. La veridicità del contenuto non è fondamentale, poiché:
“Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Dinanzi alle evidenze che a loro dispiacciono, si voltano da un’altra parte, preferendo deificare l’errore, se questo le seduce. Chi sa illuderle, può facilmente diventare loro padrone, chi tenta di disilluderle è sempre loro vittima”.
Gustave Le Bon (1841-1931)
Nella folla, intesa da Le Bon dal punto di vista psicologico e non come mero aggregato di persone, il soggetto perde le proprie caratteristiche distintive e diviene come un essere nuovo, con un’anima diversa, collettiva. Rispondendo a tale dinamica ogni individuo, anche il più colto, reagisce per istinto all’interno di essa. La massa viene completamente governata dall’inconscio, che inibisce i meccanismi di controllo e di conseguenza lascia affiorare i comportamenti umani più primitivi. L’assenza dell’aspetto cosciente priva le folle di capacità critica, spingendole ad accettare giudizi imposti e incontestati. Se, al suo interno, una singola persona può maturare nel proprio conscio un atteggiamento critico nei confronti dell’evento cui sta assistendo, baderà bene a tenerselo per sé e a reprimerlo, poiché la maggioranza dei presenti non si muove controcorrente come suggerirebbe la logica individuale. Il singolo acquista, sostenuto dal numero, un sentimento di potenza invincibile e cede a istinti che, in solitudine, avrebbe necessariamente tenuto a freno: essendo la folla anonima, scompare anche il senso di responsabilità. Insomma, emerge la parte più istintiva e primordiale, vince la logica tribale.
L’identikit degli elettori
A seguito dei recenti risultati elettorali in Ungheria e Polonia è stata condotta una ricerca sugli elettori (Beyond populism – tribalism in Poland and Hungary, Political Capital, 2018): a smentita delle aspettative è stato riscontrato come coloro che avevano votato per i partiti populisti non condividevano necessariamente atteggiamenti populisti né nutrivano avversione per le cosiddette élite. Alla base delle loro scelte non c’era l’adesione alla “retorica populista”, ma una forte attrazione per le narrazioni semplicistiche che dipingono la scena politica come una lotta tra due parti, una buona e una cattiva, e una predisposizione spontanea ad accordare fiducia a un leader percepito come forte. L’elettorato presenta, dunque, le caratteristiche di una tribù che si coalizza intorno al suo capo, pronta a combattere contro quella avversaria. Pertanto, i fiumi di parole spesi sulla disinformazione e sull’ignoranza dell’elettorato non servono a spiegare la polarizzazione e la radicalizzazione dell’attuale scena politica. Non si tratta di populismo, ma di qualcosa di congenito e atavico, il tribalismo appunto, che nei media attuali trova l’humus ideale.
Ilaria Bifarini (http://ilariabifarini.com/)
è nata a Rieti l’1 aprile del 1980 e si è diplomata al Liceo classico “Terenzio Varrone”. Dopo essersi trasferita nel 1999 a Milano, nel 2004 si è laureata col massimo dei voti in Economia della Pubblica amministrazione e delle Organizzazioni internazionali all’Università “Luigi Bocconi” di Milano. In seguito ha frequentato la Scuola Italiana per le Organizzazioni Internazionali di Roma ed il Corso di Liberalismo presso l’Istituto “Luigi Einaudi” di Roma. Ha conseguito inoltre l’abilitazione alla professione di dottoressa commercialista e revisore contabile, oltre al SIOI (master in studi diplomatici). Dopo esperienze professionali nel pubblico e nel privato, attraverso un cammino fatto di studio ed introspezione, si è via via discostata dalla formazione prettamente neoliberista derivante dai suoi studi. Collabora con varie testate giornalistiche in rete e intervengo a convegni e trasmissioni televisive.
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