11 Ottobre 2024
Filosofia

Dal Positivismo al Pessimismo: la Scuola di Francoforte – Umberto Bianchi

Qualcuno l’ha voluta chiamare scuola, forse in omaggio alla nutrita schiera di pensatori che a partire dagli anni Trenta e Quaranta del Novecento furono accomunati da una copiosa produzione intellettuale che, sebbene effettuata nelle più svariate branche del sapere, dalla filosofia, alla psicanalisi, all’economia, alla sociologia, etc., sono state tutte accomunate dall’idea dell’elaborazione di una “teoria critica”, in grado cioè di effettuare un’analisi complessiva della società muovendo per l’appunto da diverse prospettive culturali. Una forma di sapere in grado cioè di esercitare un’azione critica sui propri fondamenti, in grado quindi di effettuare un continuo autorinnovamento, proseguendo in questo sul solco di un’iniziale intuizione marxista. Un progetto ambizioso dunque, la cui premessa stava nell’idea di una società potenzialmente emancipata, arrivata cioè al superamento della fase liberale del pensiero socio economico, all’interno della quale erano venuti a sorgere nuovi rapporti di forza tra struttura e sovrastruttura, sempre più repressivi ed alienanti che per l’appunto la nuova teoria avrebbe avuto il compito di superare avvalendosi di molteplici branche del sapere, tra cui in primis la psicanalisi, scienza in grado di analizzare e descrivere il sedimentarsi di certi processi culturali a livello inconscio. La nuova teoria si contrapporrà alla scienza positivista, determinando così una grave frattura all’interno della grande “koinè” culturale progressista.

Il lavoro della scuola di Francoforte non rimarrà senza influenze sugli eventi del secondo Novecento, Sessantotto in primis. E. Fromm per la psicanalisi, T.W. Adorno per la musicologia, Pollock per l’economia, Horkheimer e Marcuse per la speculazione filosofica, assieme a moltri altri, ognuno di costoro sarà protagonista di un’avventura intellettuale i cui risultati andranno ben oltre le iniziali confutazioni. Di tutti questi autori due in particolare ci interessano ai fini del nostro studio: Max Horkheimer e Herbert Marcuse, i cui percorsi stanno lì a simboleggiare le tematiche di un’epoca intera.

HORKHEIMER IL PESSIMISTA

Dell’intera scuola di Francoforte Horkheimer sembra un po’ rappresentare il battistrada ed il rappresentante più in vista; questo sia perché il suo lavoro si intrecciò in un vero e proprio rapporto sodalizio intellettuale con Pollock, Adorno e Marcuse, arrivando con gli ultimi due a pubblicare dei tedti fondamnentali. Horkheimer parte dall’iniziale considerazione che l’unica realtà in grado di contrapporsi al pensiero alienante della fase più tarda del capitalismo è quella rappresentata dall’individualità borghese in grado di confutare e denunciare mediante la teoria critica la connessione tra ideologia, processo produttivo e strutture caratteriali inconsce. I suoi monumentali studi sul pregiudizio antisemita, al pari di quelli sull’autoritarismo alla base dei regimi totalitari, sono tutti protesi a ribadire questa inscindibile connessione. Tornato negli anni ’50 a Francoforte in Germania, Horkheimer dovrà però assistere sconsolato al processo di mercificazione che andrà via via permeando la società occidentale, e di cui sarà protagonista proprio quella progredita coscienza borghese su cui tanto aveva fatto affidamento, rendendo in tal modo vane le speranze di riscatto e di ribellione dalla proteiforme struttura del capitalismo Post Moderno. Gli ultimi scritti di Horkheimer saranno sempre più improntati ad uno scetticismo e ad un pessimismo che ne avvicinano le posizioni a quelle di uno Schopenauer, irriducibile nemico di qualsiasi razionalismo “critico” di stampo pseudo-illuminista. Verso il ’68, sempre più lontano dalle iniziali istanze ribelliste e progressiste, autorizzerà a malincuore e non senza diffidenze la ripubblicazione dei testi scritti negli anni ’30. La vicenda di Horkheimer e dell’intera scuola di Francoforte sancisce con quarant’anni di anticipo la crisi e l’insufficienza dell’intera struttura del pensiero individualista borghese e delle sue propaggini “politicamente corrette”, oggi invece anacronisticamente tanto in auge.

MARCUSE: LA MARCIA RIVOLUZIONARIA VERSO IL NULLA

Se Horkheimer trasforma le proprie iniziali istanze in un percorso che via via va facendosi sempre più pessimistico sino a giungere ad una dimensione di intimistico chiudersi ad un mondo sempre più incomprensibile, Marcuse partecipa delle medesime iniziali istanze “critiche” cercando di trasformarle in una prassi per l’azione rivoluzionaria. Partendo dall’iniziale considerazione sulla fondamentale importanza dell’hegelismo e del marxismo in quanto esempi di pensiero “negativo”, ovverosia volti a rimarcare la propria vitale differenza rispetto alla corrente razionalità. Marx ed Hegel, ma anche la psicanalisi, sono per Marcuse strumenti da cui partire per identificare le cause prime dell’alienazione e dello sfruttamento, ed indicare una via alla felicità dell’uomo. Da degno aderente alla scuola di Francoforte, Marcuse finirà con il rivolgere la propria critica verso l’intera impostazione di pensiero positivista, andando ad attaccare proprio quelle che, sino a quel momento erano state le sue principali fonti d’ispirazione: il marxismo e la psicanalisi. Nel primo critica l’isterilimento da ideologia della rivolta ad espressione ideologica di un arido e dogmatico positivismo, mentre nella seconda critica la funzione di supporto all’inserimento della psiche individuale all’interno dei meccanismi della società occidentale, funzione questa assunta dal freudismo.

A quel punto Marcuse si assume l’onere di una radicale critica della società dei consumi, che egli ritiene animata da un principio repressivo di tutte le istanze di liberazione individuali e sociali. Tale società giustifica e camuffa i propri reali intenti attraverso il mito del consumo, che rende l’uomo l’inconsapevole schiavo di un infernale ed alienante meccanismo economico e sociale. Superate le iniziali posizioni marxiste Marcuse non può più affidare ad una classe operaia totalmente assorbita dall’imperante economicismo, il compito di guidare una rivolta, di cui invece saranno investite tutte quelle figure appartenenti alle nuove marginalità. Nel “lumpenproletariat” ed in genere nelle figure che sopravvivono ai margini della società come sacche di disagio, Marcuse identifica la nuova aristocrazia rivoluzionaria, la nuova elite che dovrà aprire il faticoso cammino in direzione di una sempre più difficile liberazione. Il percorso della scuola di Francoforte inizialmente partito da posizioni di ottimistico criticismo, nel corso degli anni approda alla conclusione che l’Occidente “non si può” cambiare, perlomeno non con le premesse con cui aveva inizialmente animato il proprio percorso. All’ottimistica fede in un analitico eclettismo culturale di stampo progressista si sostituisce il progressivo senso di disagio e di impotenza di fronte all’ineluttabile destino che sembra silenziosamente avvolgere l’Occidente nelle sue spire…

Tratto da “Il Fascino discreto dell’Occidente “ di UMBERTO BIANCHI

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