Nell’era degli anni ’80 fummo abituati e indotti a usare la parola ‘post’. Forse fu J.F. Lyotard, già esponente del post-strutturalismo, a introdurla nel ’79 con un suo libro, “La condizione postmoderna”. E poi il romanziere Tondelli con il suo “Un week-end post-moderno”. La parola ‘post’ fu usata anche singolarmente, quasi a significare uno stato d’animo, una presa di posizione, una dichiarazione ideologica oltre l’ideologia. Una posizione post-ideologica, appunto. Chi la usava se ne faceva vanto, segno di distinzione tra lui, che aveva accettato la fine di qualcosa e si trovava oltre i bastioni, e il resto del mondo, che invece era ancora vincolato e soggiogato ai cascami ormai superati del ‘900.
La parola cadde nell’oblio.
Come un fenomeno carsico ricompare adesso, premessa a ‘verità’.
O forse a premessa di verità.
Meglio ancora: promessa di veri-tà.
Ma la radice di verità ci sussurra che essa, la verità, non può essere promessa; la verità può essere solo svelata, poiché la sua essenza risiede nell’essere nascosta. Può essere raggiunta e contemplata, quale sinonimo di divina bellezza alla quale associarsi: “Io sono verità” e non “Io ho la verità”, “Io so la verità”. La verità deve essere incarnata, praticata, la verità deve essere agita, e contemporaneamente essere agiti da essa.
Ben altro scenario si appresta per questa parola nell’era del capitalismo selvaggio, nell’era del dominio del mercato, nel regno di Shudra e Vaishya. Ovvero l’età dell’infotainment, della società dello spettacolo hard, dell’informazione salottiera permanente, della dittatura dell’ultim’ora (sia concesso anche a me qualche piccolo orrore lessicale), dell’aggiornamento continuo, del blablabla ininterrotto, della ripetizione ossessiva, del copia/incolla, della bufala sovrana, del pettegolezzo nobilitato e nobiliare, degli ospiti in studio, degli esperti che ci consigliano, del pubblico che da casa può intervenire, anzi interagire. Potremmo proseguire indisturbati nell’elenco, vittime anche noi della polverizzazione semantica all’incanto degli accostamenti più pornografici. Non ci interessa, non è questa la via.
Il caos lemmatico nel quale siamo affondati, per l’uomo di Tradizione è solo un cappio di riflessione, dal quale partire per poi squarciare il velo di Maya: la verità, nella sua essenza (ancora!) è più che mai ineffabile, e la sua virginea virilità (e lasciatemi divertire…) la si assapora quanto più ci si allontana dalla realtà manifestata e dalla sua interpretazione, e ci si avvicina alla Realtà autentica. Certo, è un percorso ermetico. La selva oscura densa di affermazioni e smentite, aforismi sciancati e pensierini rachitici, detti e contraddetti, non è altro che la gigantesca trappola tesa dall’avversario per tenerci incatenati nell’oscurità semantica e farci credere che la Verità non esiste.
Resta l’interpretazione, o meglio la manipolazione dell’accaduto e di ciò che accade; anzi di una sua parte, lasciando il resto che non è funzionale alla produzione o che disturba la venerazione del tiranno, all’oblio e alla mercé di hacker complottardi e altri funamboli della rivoluzione social-digital-virtuale i quali, ossessivamente e compulsivamente autistici, denunciano a se stessi e solo a se stessi, che il re è nudo.
L’umanità primordiale non necessita dell’interpretazione: il suo universo è solo Simbolo e correlazione di Simboli; all’agricoltore esperto, al pastore esperto non interessano i fatti, le notizie, la loro interpretazione, la loro narrazione. Sufficiente è la conoscenza delle fasi lunari. Sufficiente è la Conoscenza. Suggerisco, a chi ne sia in grado e non l’avesse già fatto, la lettura e lo studio de “Gli stati molteplici dell’essere”((L’omissione dell’Autore del testo è intenzionale. Chi già lo conosce sa l’argomento del nostro trattare, malgrado le lacune strutturali e operative dello scrivente. Agli altri il piacere della grottesca danza nel pantano.)). Un’ottima e salutare schiarita dello spirito.
Giorgio Bulzi
Milano, nel segno di Giano