Premessa
L’organizzazione (giudaica) Gherush92, consulente dell’ONU, ha dichiarato “Dante antisemita e islamofobo. La Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici”. Ne ha dato notizia nei giorni scorsi il “Corriere della sera”, riportando le affermazioni di questa benemerita setta mondialista nell’articolo seguente: corriere.it. Non è il caso di ribattere alle ridicole accuse di soggetti che vomitano parole sotto l’usbergo dell’ONU per infamare la figura e l’opera del Sommo Poeta, sommo non soltanto per aver “inventato” la lingua italiana, ma per aver dato all’umanità l’opera poetica più “divina” che uomo possa concepire.
Desideriamo ribadire la nostra “fedeltà d’amore” per Dante pubblicando la “lettura” che presentammo alcuni anni fa all’Istituto Italiano di Cultura di San Paolo in occasione dell’inaugurazione dei corsi di letteratura italiana. E’ uno scritto dedicato allo studio di Reghini sui Fedeli d’Amore e in cui il pitagorico fiorentino dimostra che il cristianesimo di Dante era di facciata, mentre sotto “il velame delli versi strani” Dante non faceva che affermare una visione imperialista e pagana, confermata dal fatto che il “maestro” che elesse e a sua guida nella Commedia non è il patriarca Abramo, o il profeta Maometto o il giudeo convertito Paolo di Tarso, ma il pagano, imperialista e romano Virgilio.
Roberto Sestito
Nel 1928 Arturo Reghini, fiorentino come Dante, attirava l’attenzione degli studiosi della Divina Commedia sull’opera di Luigi Valli “Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore”, libro che inaugurava, nel campo degli studi danteschi, una nuova, interessante e affascinante via di ricerca sulla lingua del sommo poeta e sulla misteriosa setta esistita a Firenze nel XIII° secolo.
Citando ampi brani dello scritto di Arturo Reghini intitolato: IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FEDELI D’AMORE apparso sulla rivista UR con lo pseudonimo Pietro Negri, ci occuperemo di un argomento che oggi come allora ha avuto scarsi approfondimenti, nonostante abbia suscitato e continui a suscitare in Italia e in Europa una varietà di commenti e a sollevare appassionati dibattiti. Come avviene in casi come questi, da una parte troviamo gli scettici che reagiscono irritati di fronte alle novità e i negazionisti per partito preso, dall’altra i ricercatori assetati di verità: in una riedizione in chiave moderna dei guelfi e ghibellini essi si combattono senza esclusioni di colpi.
Lo stesso Luigi Valli, nel 1926 (due anni prima della pubblicazione del “Linguaggio Segreto”) aveva già messo in subbuglio l’ambiente letterario conservatore con il libro “La chiave della Divina Commedia”; procedendo felicemente lungo la linea interpretativa tracciata dal Foscolo, seguita dal Rossetti, dal Perez, dal Pascoli, era riuscito a porre in evidenza trenta simmetrie tra l’Aquila e la Croce ed a rintracciare, almeno in parte, sotto il velame delli versi strani la dottrina nascosta di Dante.
Secondo il Valli, il pensiero di Dante abilmente occultato nel suo linguaggio, sarebbe sinteticamente questo: la Croce si è dimostrata impotente a redimere di fatto l’umanità, e non può redimerla da sola. Occorre il concorso dell’Aquila, ossia dell’autorità e della giustizia imperiale; occorre ristabilire l’Impero, ritogliere alla chiesa l’infausta dote datale da Costantino; avrà fine senz’altro la corruzione del clero e l’umanità, grazie alla doppia virtù della croce e dell’aquila potrà finalmente salvarsi.
Dante denunciava apertamente i predicatori di ciance che non possedevano il verace intendimento dato da Cristo al suo primo Convento, e pensava all’intervento dell’Aquila imperiale per salvare l’umanità. Questa concezione ardita e per quei tempi eterodossa inspirava non solo gli scritti ma l’azione stessa di Dante, intesta a realizzare il programma con l’intervento dell’Ordine del Tempio prima e dello stesso Imperatore poi.
Seguendo il filo di questo studio, la storia e le lotte di quei tempi, oggetto de “Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore”, prendono un aspetto inaspettato ed insospettato. Con un lavoro paziente, metodico ed imponente l’autore, riprendendo l’opera incompresa e negletta di Gabriele Rossetti, dimostra l’esistenza nella letteratura italiana degli inizi di un linguaggio segreto, di un gergo settario, il gergo dei Fedeli d’Amore. Ne decifra il senso, l’allegoria dottrinale settaria e politica e riporta alla luce un movimento, ispirato alla tradizione italica, pitagorica e neo-platonica.
Di conseguenza, i poeti d’amore (tra i quali eccellono Dante e Cecco d’Ascoli), gli scrittori del “dolce stil novo”, che sembravano perduti nel canto di un loro amore assurdo, manierato e inconsistente, si trasformano in paladini della loro Fede Santa.
L’amore di cui ardeva il cuore dei Fedeli d’Amore ricorda i versi mistici della poesia persiana e quelli del “Cantico dei Cantici”. Gabriele Rossetti lo fa discendere dal mistero dell’amor platonico che, nonostante la trasparente bellezza e la sublime perfezione, continua ancor oggi a sollevare curiosi dubbi e indecenti interrogativi.
Il Valli ha dimostrato che la rosa, il fiore, la donna, l’unico oggetto di questo amore sotto vari nomi, è l’intelligenza attiva che innamora di sé l’intelletto possibile; è, come canta Dino Compagni nella poesia L’Intelligenza:
L’Amorosa Madonna Intelligenza
Che fa nell’alma la sua residenza
Che con la sua beltà m’ha innamorato
o, come Dante, che al principio della Commedia parla della
… divina potestate, la somma sapienza e il primo amore,
ponendo il suo amore in una triade simile alla sephirot della Cabala: kether, cochma, binah, ossia la Corona, la Sapienza e l’Intelligenza, sulla quale alcuni secoli dopo Tommaso Campanella costruirà la sua Metafisica.
Se questa è la donna, la domina dei Fedeli d’Amore, appare logico che Francesco da Barberino nei suoi “documenti d’Amore” ponga la docilitas, la docilità, per prima tra le dodici virtù che l’Amore deve risvegliare.
Questa verità era conosciuta fin dai tempi più antichi, perché ne troviamo l’impronta in più di una lingua. In latino (e in italiano) la parola disciplina ha il duplice senso di scienza e di costrizione. Alla voce discere che significa apprendere, è dunque intimamente legato il concetto che nel linguaggio cristiano denominava disciplina il tenore rigoroso di vita e la regola monastica dei religiosi. La voce docile che esprime la mansuetudine di carattere, la remissività dell’animo, viene dal verbo docere che vuol dire insegnare; è docile, cioè atto ad essere istruito, chi è docile di carattere. La passività della coscienza è dunque conforme alla docilità di carattere. Nè questa conformazione si limita all’antichissima sapienza italica che Vico ricercava nelle origini della lingua latina.
La parola sanscrita yoga , il metodo, la regola, la pratica per raggiungere la conoscenza è affine alla parola jugum di cui parla Gesù nel Vangelo (Matt.II, 24-30).
Luigi Valli riteneva che Gabriele Rossetti, nella sua imponente opera in 5 volumi su “Il Mistero dell’Amor platonico nel Medio Evo”, attingesse alla conoscenza di antiche tradizioni segrete e soprattutto allo studio sistematico del gergo settario medievale.
Abbiamo veduto che l’Amore è l’Intelligenza attiva ed è, dice Dante nell’ultimo verso della Commedia, l’Amor che move il sole e l’altre stelle.
Nell’intelletto possibile del Fedele d’Amore questa intelligenza è desta ed attiva, mentre nel profano è dormiente e inoperosa. Conseguentemente, nel gergo settario dormire significa essere nell’errore, essere lontano dalla verità. E’ il simbolismo usato da Dante negli ultimi canti del Purgatorio, in cui all’immersione nel fiume Lete, il fiume del sonno e dell’oblio, segue quella nell’Eunoé, in virtù della quale, come pianta novella (neo-fita) rinnovellata di novella fronda, Dante diviene puro e disposto a salire alle stelle, ossia capace si ascendere al “regno dei cieli”.
Com’è noto si tratta di un simbolismo pagano, adoperato da Virgilio e da Platone, e che si ritrova nell’orfismo e nei misteri eleusini. Ivi al fiume Lete che travolge la coscienza degli uomini, è contrapposta la fresca sorgente della Memoria o la virtù mnemonica del melograno, che dona il risveglio e l’immortalità.
L’anamnesi platonica, il ricordo, si identifica con la conoscenza e, di conseguenza, la verità, la a-leteia, si ottiene con la negazione, col superamento del Lete. Il conseguimento della verità è una conquista della coscienza sopra il sonno e la morte; occorre mantenere la continuità della coscienza attraverso il sonno e la morte.
L’amore ha dunque la capacità di sottrarre il neo-fita al sonno e alla morte, dando al Fedele d’Amore una vita nuova.
Ciò si raggiunge per gradi di perfezionamento successivo, come è provato nei “Documenti d’Amore” di Francesco da Barberino, dove nei primi gradi il Fedele d’Amore è rappresentato trafitto dal dardo d’amore e negli ultimi è rappresentato con delle rose in mano.
Interessanti analogie ci è dato di scoprire inoltre tra il simbolismo dei Fedeli d’Amore con l’ermetismo e l’alchimia, ciò che prova certamente un legame poco esplorato tra le confraternite medievali e le correnti sapienziali italiane.
L’affinità tra il simbolismo d’amore e quello ermetico ed il legame tra le due tradizioni risultano manifeste per la presenza del Rebis ermetico in uno dei disegni che illustrano i “Documenti d’Amore” di Francesco da Barberino.
La figura del Rebis o androgino ermetico riprodotta dal Valli risale al tempo di Dante, ma la più antica rappresentazione dell’ermafrodito ermetico e la sua connessione con l’alchimia viene attribuita a Zosimo di Panopoli filosofo vissuto tra il III° e il IV° secolo dell’era volgare.
Altre concordanze col simbolismo e con la terminologia alchemica si ritrovano nei versi di un oscuro poeta d’amore, Nicolò dei Rossi, il quale in una sua canzone esprime i gradi e la virtude del vero amore. Questi gradi sono quattro: il primo si chiama liquefatio, che si oppone – dice il de Rossi – alla congelazione; il secondo grado si chiama languor, il terzo zelus e nel quarto l’amore attinge il punto sommo mediante l’estasi o excessus mentis.
Si comprende dunque come una delle più importanti opere della letteratura d’amore, il “Roman de la Rose” (di cui il “Fiore” è la versione italiana dovuta quasi sicuramente a Dante), tratti esplicitamente di alchimia e venga catalogato nella letteratura alchemica. Questa rosa cantata con così commovente accordo da tutti questi poeti, a cominciare da Ciullo d’Alcamo, la candida rosa dantesca, è evidentemente affine, se non identica, alla rosa ermetica dei Rosacroce.
Tutti i dantisti inoltre ammettono, anche quando non lo comprendono, un valore notevole al simbolismo numerico contenuto nei versi della Divina Commedia. Basti ricordare l’importanza data da Dante al tre ed al nove e con quanta frequenza il nove ricorra nella Vita Nuova. Il Valli cita dei versi in cui Jacopo da Lentini, anche questi rimatore d’amore manifesta il medesimo grado di padronanza della numerologia riferita alla poesia amorosa.
Dante nella Via Nuova fa morire Beatrice nel nono giorno del mese di giugno del 1281, avendo cura di specificare che in Siria il mese di giugno è il nono e che Beatrice era morta quando lo perfetto numero nove volte era compiuto nel terzo decismo secolo,ossia nel 1281. Per quanto riguarda l’81 Dante aveva scritto nel “Convivio”: Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse maturato… vivette ottantun anno…” considerata l’età ottimale per morire.
Scrive Gabriele Rossetti nel “Il Mistero dell’Amor Platonico” (V° Vol. pag.1626): “… poichè 81 era perfezione, secondo l’età per Platone, secondo il secolo per Beatrice. Dante dunque, (se vogliamo stare alla lettera) volle indicare che la sua Beatrice nove si partì nell’anno 81 di quel secolo, quando il perfetto numero (9) era compiuto nove volte (81) in quel centinaio (Vita Nuova), cioè nel 1281”.
Vale la pena infine accennare all’unica Fenice di cui si fa un continuo parlare nella letteratura amorosa del Medio Evo, che come dimostra il Valli, rappresenta i Fedeli d’Amore e la tradizione spirituale da essi incarnata, sempre rinascente in mezzo alle fiamme che di volta in volta la divorano.
La purpurea fenice, simbolo alchemico dell’opera al rosso, vive tra le fiamme del fuoco filosofico, come il Fedele d’Amore ardendo di santo zelo, lo zelus di Niccolò de Rossi, rinasce alla vita nuova mediante l’excessus mentis.
Amore e il cor gentile sono una cosa…
dice Dante prendendo da Virgilio lo bello stile che si esprime con il latin sangue gentile.
Per concludere questa lettura che affronta solo in maniera sintetica un movimento filosofico ed esoterico di portata universale, mi è doveroso ricordare che è stato Dante nel Convivio a sostenere che nel linguaggio allegorico fossero quattro i sensi da considerare, corrispondenti forse ai quattro gradi della setta.
Di questi quattro significati il più importante, a mio vedere, è l’ultimo, ossia il senso anagogico.
Naturalmente questo senso speciale che si riferisce al perfezionamento spirituale dell’uomo, non può essere inteso e talora semplicemente intraveduto fuori dall’esperienza personale: intender non lo può chi non lo prova, dice Dante. Ed è per questo che esso è sfuggito quasi sempre all’attenzione di coloro che si sono occupati sin ora dei Fedeli d’Amore.
A differenza del senso che potremmo chiamare sinagogico, dove, per esempio dormire significa allegoricamente vivere nell’ignoranza, nell’inerzia dell’intelletto, moralmente significa non partecipare al lavoro della setta, anagogicamente la incoscienza durante il sonno, l’incapacità a raggiungere la coscienza estatica.
Il senso anagogico è necessariamente nascosto sotto il velo del simbolismo, e per interpretarlo occorre possedere l’esperienza degli stati di coscienza cui si riferisce e la conoscenza dei simboli tradizionalmente adoperati per indicarli. Per questa ragione il vero e supremo significato del linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore rimane e rimarrà sempre un mistero per tutti coloro che dormono e seguiteranno a dormire.
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