Giunto a una certa età, dopo aver fatto sessanta o settanta giri intorno al Sole, ruotando come un derviscio, preso ora dall’estasi, ora dalla nausea, in questa vertigine di stagioni, di albe e tramonti, un uomo potrebbe chiedersi quale sia lo scopo o il senso di questo continuo girare. Alcuni dicono che la vita è un dono di Dio, ma questo è per me incomprensibile. Non si può donare l’esistenza a chi già esiste, e chi non esiste non può ricevere un dono. Prima d’esser concepito e cadere tra le ruote dentate del tempo v’era in me una quieta eternità. Ero ignoto a me stesso.
“Elusivo eppur completo.
Anteriore a cielo e terra.
Silente e infinito.
Solitario e immutabile”.
È un vuoto indiviso, un sonno senza sogni che improvvisamente si desta, impigliato non sa come negli ingranaggi della vita. E non sa perché ora esiste, quale oscuro incantesimo lo abbia tolto dall’oceano del nulla per deporlo sulla spiaggia del mondo. Un profondo oblio cade su di lui, ma ogni tanto soffre di oscure nostalgie, come rimpiangendo l’antico non essere. Per questo ogni giorno, addormentandosi, oblitera il mondo.
L’Essere, come la puntura di un insetto, ha infettato il Nulla, gli ha trasmesso una malattia mortale, questa brama d’esistere simile a un tormentoso prurito. Nessuno può dire come sia accaduto o trovarvi rimedio. Dopo aver analizzato la vita e fatto le più meticolose diagnosi, questa infezione resta un mistero. E poco aiutano le nostre pozioni magico-religiose, le ricette filosofiche o scientifiche. Tutta la nostra conoscenza è in fondo un’ansiosa semeiotica, studio di sintomi che dimentica il malato, questo Vuoto che diventa Volto e Immagine. Mi tornano alla mente i versi di Stefan George:
“Quello che ancora medito
e quel che ancora compongo,
quel che ancora amo
ha sempre lo stesso volto”.
Anch’ io ho avuto un viso di bimbo e di ragazzo, poi di uomo adulto e di anziano. Ma quando mi fisso allo specchio vedo un volto sempre uguale. Quel tizio incanutito, solcato da rughe profonde, è solo un’immagine che si frappone fra me e me stesso, come un velo che avvolge la mia vuota essenza. Me lo porto addosso da una vita e mi sembra un abito sgualcito, qua e là con qualche scucitura, qualche ferita malamente rammendata e macchie sbiadite, ma incancellabili, di vecchi peccati. Ne sento il respiro, il battito del cuore mentre gira intorno al Sole. Sembra così denso e reale!
La vita scorre tra febbri malinconiche e ribelli, soffre di confuse allucinazioni. Finché lentamente guarisce e torna in sé. Tutto in lei è caduco. Eterno è solo il vuoto luminoso dove i ricordi danzano, come pulviscolo in un raggio di sole. Lì scorrono i volti amati, si consumano nel tempo e svaniscono. In quella luce i destini sembrano incontrarsi per caso e dividersi per logica necessità. Restano solo i ricordi, come frammenti luminosi che si inabissano in un mare senza fondo, che non poggia su nulla.
“A che ti reggi – questo tu non sai”.
L’Essere si regge sul Vuoto, e al vuoto non servono appoggi. Non posso vedere il fondamento del mio essere perché non v’è fondamento. Non poggio sulla terra che mi nutre, ma aderisco a lei, impregnato delle cose che mi danno un corpo e un’anima. Nascono così, per magia, sensazioni e pensieri che sembrano avere un nome, un’età. Ma se lo osservo da vicino, se cerco di afferrarlo, l’essere delle cose dilegua. Come quando in un bosco par di scorgere da lontano una sagoma umana ma è solo un intrico di rami nell’ombra.
Tuttavia, ho appreso che è necessario illudersi, come l’amare e il sognare. Chi cerca una verità senza illusioni e senza sogni non trova che il nulla. Per amarle occorre circondare le cose di illusioni protettive. Devi fermarti al velo che le copre, senza andare oltre, o le vedrai svanire. Ma svaniranno anche se ti allontani troppo. Devi trovare la giusta distanza da loro. È un arte del controllo e dell’abbandono, e non si impara sui libri.
Sentii un giorno un anziano filosofo, cautamente scettico, timidamente agnostico, chiuso nella camicia di forza della sua ragione, negare il valore della fede. Disse che era come buttarsi in un precipizio, senza sapere cosa ci fosse in fondo. Che inutile, insipida prudenza! Non c’è un fondo e non dipende da noi buttarsi. Nascendo cadiamo in una voragine misteriosa. Dobbiamo solo imparare a cader bene, come gatti, per istinto. La fede è questo istinto. Solo così potremo camminare sull’ampia e provvida terra, abitare solide case, bere alla fonte di semplici pensieri, paghi di coltivar fiori che appassiranno. Siamo il riflesso di qualcosa che non conosciamo, un’eco, un arcobaleno, creati da Forze insondabili. Eppure siamo liberi e padroni di noi stessi. Dobbiamo vivere come se dipendesse da noi, sapendo che non è così.
Non serve cercarvi una logica, la vita è un paradosso. Se le vuoi trovare un senso, appare il suo contrario e ti contraddice. Se dici che è assurda, si mostrerà assolutamente razionale. Se la credi una scuola di saggezza, ti insegnerà a esser folle. La vita rompe tutte le gabbie che i nostri concetti le alzano intorno. Se ci aggrappiamo a un’idea, per quanto elevata, ne facciamo una semplice ossessione. Leggiamo una parola sulla pagina di un libro immenso e pensiamo di conoscerlo per intero.
Io l’immagino come un sacro Mistero, un’antica rappresentazione teatrale. È sciocco esser riluttanti a recitare la nostra parte in questa commedia, rifiutare il personaggio che il Fato ci assegna. Forse dobbiam dire una sola parola, ma il nostro ruolo, che ci piaccia o no, serve all’economia generale della storia. Non possiamo cambiarlo, ma possiamo interpretarlo con espressione sincera. È questo il limite e la dignità dell’arte di vivere. E, giunti al naturale declivio, è giusto scender la china e uscir di scena senza rimpianti.
Agli attori più giovani, carichi di attese, indicheremo gli erti sentieri che salgono. Diremo che sulla cima, dopo una faticosa salita, troveranno l’amore, la bellezza, e tutte quelle cose senza cui la vita sarebbe una maledizione. Meglio tener per noi i nostri dubbi, e condividere con gli altri il coraggio e le speranze. A che serve lamentarsi che ogni cosa bella sfiorisce e che l’amore scava vaste ferite? Occorre nutrire la fede in quel fiume di latte e miele che forse scorre realmente in una terra promessa, credere nel Mistero che ci rende infiniti. Perché la fede è un fuoco sacro e chi lo spegne merita d’essere proscritto dalla vita.
Ma chi ha fatto tante rivoluzioni, disegnando lunghi circoli nel vuoto, può ricordare infine d’esser vuoto lui stesso. Fiorisce così un distacco che è un amore diverso per la vita, una compassione che rende erranti e solitari. Viene il tempo di perdersi, camminando soli, con paziente lentezza. Giriamo intorno a un Sole ora calante e ancora non sappiamo perché. Forse una corrente ci trascina, come gli atomi, le nuvole e le stelle. Ci condanna a un eterno periplo intorno al Nulla, a trarre sempre nuove parole dal suo grembo silenzioso. Tuttavia, quando scende la sera e le ombre dei ricordi si allungano, ci trapassano come lame, ci volgiamo indietro alle cose perdute, e vorremmo tornare. Ma non c’è, sul declivio, una strada che ritorna.
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