Di Mario M. Merlino
Nella contrapposizione tra l’anima e il corpo è quest’ultimo ad avere la peggio. Su questo, tanto il mito quanto la filosofia e, va da sé, le religioni sono stati lungamente d’accordo. Da una parte vi è tutto un coro di elogi alla sua immortalità e dall’altra la constatazione del suo essere finito; da una parte l’armonia delle forme di contro l’imperfezione della materia; da un lato la si eleva a luogo privilegiato della retta conoscenza e al suo opposto l’erroneità inevitabile dei sensi prigionieri dell’hic et nunc. Dalla Gaia Scienza, Nietzsche: “A- ti allontani sempre più dai viventi, presto ti depenneranno dalle loro liste. B- è l’unico mezzo per partecipare al privilegio dei morti. A- a quale privilegio?. B- quello di non più morire”. E il gioco si potrebbe arricchire di nuove mosse e tasselli.
(Non appaia arbitrario come, nella Scuola di Atene, ai Musei Vaticani, Raffaello metta al centro Platone e lo tratteggi con il dito – l’indice e non il medio! – rivolto verso il cielo. Difatti ne è riprova il dialogo Fedone ove si discetta intorno all’immortalità dell’anima con varie dimostrazioni, tutte le più suggestive e acute, nella cella ove Socrate è in attesa di bere la cicuta.
E il Maestro, che vede la morte un atto liberatorio, rimprovera i discepoli che si disperano e si danno al pianto, fino a pregare Critone, quale ultima sua volontà ed estreme sue parole, di portare a suo nome un dono, quel gallo divenuto celeberrimo, al dio della guarigione… Forse, sospettano i filologi e i critici, atto mai avvenuto perché – e si rileggano gli ultimi passi dell’Apologia di Socrate, scritta da un Platone giovane e desideroso di riportare fedelmente le parole pronunciate di fronte ai giudici – egli lascia aperta la domanda se sia meglio per i suoi carnefici restare in vita o per lui andare serenamente incontro al proprio destino… Ma si sa che lo scorrere degli anni rende sempre più il Socrate storico un pretesto, un artifizio, una pallida ombra, un dispetto e postuma vendetta. Quel plebeo e demagogo e trattato quale volgare sofista da Aristofane e tanto odiato dal Nietzsche de La nascita della tragedia si trasforma in un aristocratico che distingue gli uomini tramite la funzione che devono esercitare nella pòlis).
Plotino racconta come fosse desiderio dell’anima – ‘un potere senza pace’ la definisce – di avere la visione del mondo ideale non più sotto forma di compiuta totalità ma di poterne cogliere l’essenza tramite ‘frammenti e successioni’, cioè ‘materializzare’ il tempo e portarlo con sé nei fenomeni del mondo. Non è ancora la dissoluzione del sapere l’assoluto a dominio delle idee – permane, certo, il patimento di essa in terra e il bisogno di ricercare la via verso la Patria che sta in cielo. Eppure, se essa abbisogna della temporalità, concedendosi all’imperfezione, non si rende essa stessa espressione di quell’imperfezione? Il conoscere si realizza per connessioni relazione e somiglianza, cioè com-unione (vicinanza)…
Il percorso verso questa consapevolezza e delle sue (tragiche) conseguenze sarà lungo contorto doloroso contraddittorio ma, osiamo dire alla luce di queste brevi e incompiute annotazioni, inevitabile necessario e, chissà?, di feconda liberazione… Insomma la storia dell’anima nel suo essere nel corpo dissolve l’idea teologica e finalista degli accadimenti, ma attraverso la rete di connessioni – causali o casuali? – rettifica il senso di se stessa nel suo essere senza scopo. La filosofia dell’assurdo, utilizzando il titolo acuto del libro, edito nel 1937, di Giuseppe Renzi (il cui recupero avviene negli anni ’70 soprattutto ad opera dell’Adelphi) quale sfida provocazione e, se vogliamo ardire spingersi oltre e ancora, un destino, anzi il Destino… È l’anima, dunque, che volutamente accetta d’essere ‘miserrima’, il mettersi in gioco, o è il corpo che trova la consapevolezza di spezzare le catene, il suo essere egli il diseredato e chiedere pari dignità? Il campo del conflitto del ritrovarsi del superamento, né vincitori né vinti, non può essere che la storia ove il tempo si misura e misura.
E di nuovo attingiamo alla parola del padre di Zarathustra: “Anima mia, io ti restituii la libertà su tutte le cose create e increate; e chi conosce, come tu la conosci la voluttà di ciò che verrà? … E, in verità, il tuo respiro ha già il profumo di canti futuri”. Sono costoro canti di gioia canti d’amore o canti di guerra? Nietzsche non ce lo dice… Sta a noi, ripercorrendo il legame dell’anima e del corpo, della nostra anima e del nostro corpo, dare risposta.