Diceva Franklin che “una società disposta a rinunciare a una libertà essenziale per acquisire un po’ di sicurezza temporanea non merita né l’una né l’altra e le perderà entrambe.” L’equilibrio delicato tra libertà e sicurezza sembra oggi, nella nostra società, in grave pericolo. A minacciarlo, a mio parere, è la nostra visione dei fatti e il modo in cui viene colpevolmente manipolata. Si sa che la prospettiva è un’illusione. La vicinanza fa apparire grandi alcune cose, la lontananza ne rimpicciolisce altre, e la realtà cambia così secondo il nostro punto di vista. Per questo io diffido dell’attualità e delle sue prospettive. L’importanza oggi straordinaria di alcuni fatti potrebbe domani apparirci come l’effetto di un inganno prospettico. Anche il prestare eccessiva attenzione a un oggetto, aggravarlo di risonanze affettive e simboliche, può falsarne la percezione. Per chi voglia trovare le giuste proporzioni vi sono due vie. La prima è uno sguardo sub specie aeternitatis. Un esempio di ciò si trova in “Guerra e pace”, quando, nel fragore della battaglia, il principe Andrea viene colpito e cade riverso al suolo. Vede allora il cielo che silenzioso sovrasta gli orrori e gli eroismi degli uomini, e questo provoca in lui una revulsione della coscienza, inattesa e indipendente dalla volontà. La seconda via consiste invece nell’analizzare i fatti sforzandosi di essere obiettivi e di ricavarne conclusioni coerenti. A questo, in teoria, dovremmo attenerci nel giudicare e nel decidere.
Tuttavia, la conoscenza dei fatti e la loro comprensione non è oggi mediata dalla nostra esperienza diretta e neppure dalla testimonianza di persone fidate, ma dalle informazioni fornite da giornali, reti televisive e schermi di computer. Tali strumenti di comunicazione incoraggiano una passiva bulimia, filtrano per noi l’esperienza della realtà, sostituendosi ai nostri sensi e alla nostra intelligenza. Il messaggio mediatico acquista spesso un carattere apodittico. Questo porta il nostro senso critico ad assopirsi e, nei casi più gravi, determina un’atrofia delle nostre capacità autonome di giudizio.
Prendo, in quanto emblematico, il caso della recente ‘pandemia’. Nonostante le profezie calamitose, guardando i dati relativi alla mortalità complessiva notiamo che non si discostano sostanzialmente da quelli delle passate sindromi influenzali. Le dimensioni apocalittiche presenti nell’immaginario collettivo nascono dunque da altro, forse da una falsa prospettiva. Anche questa prudenza maniacale, questa ossessione per la sicurezza, sembrano originate da una visione deformata dei fatti. Le varie ordinanze, nel loro rigore caotico e volubile, sembrano più forme di difesa isteriche che provvedimenti razionali. Il confinamento, la paralisi dei commerci, la chiusura della scuola, dei tribunali, dei teatri, le coazioni terapeutiche, l’indigenza di moltitudini disoccupate, niente sembra un prezzo irragionevole da pagare per ridurre il rischio di un contagio. Bastano quattro o cinque soggetti asintomatici, trovati con dubbie metodiche, per minacciare nuovi spaventosi focolai di morte. Con l’alibi della responsabilità, parola ormai magica, sembra allora doveroso ricorrere a restrizioni draconiane, a invadenti spionaggi, a ricoveri obbligatori, alla costruzione di lazzaretti. Invece di rassicurare la gente, le autorità sembrano voler alimentare uno stato d’angoscia collettiva costante e insanabile.
Io parlerei quindi non di pandemia ma di pandemenza. Le persone sembrano chiuse in bolle psicotiche, senza contatto con la realtà. Eppure basterebbe quella seconda modesta via, sub specie temporis, per ristabilire proporzioni più assennate. La peste sterminò un terzo degli europei, uccidendo in alcune città il 60% degli abitanti, vecchi, adulti, giovani e bambini. Eppure il mondo non si fermò né allora né durante la famigerata ‘spagnola’, che uccise il tre o il 5% della popolazione mondiale. Certi animali usano la tanatosi, simulano cioè una rigidità cadaverica, per ingannare il predatore; allo stesso modo noi abbiamo stretto il mondo nella morsa di un rigor mortis per sfuggire a un’influenza che ha ucciso forse lo 0,005% della popolazione. E questa striminzita percentuale è quasi interamente formata da infermi, da ottuagenari e nonagenari già in condizioni critiche. Solo una società alienata, che ha evacuato il senso della morte, può considerare una sciagura questo naturale esito della senilità. Le vere tragedie vengono invece ignorate. A qualcuno importa solo mantenere viva questa assurda virofobia mentre, nell’indifferenza generale, ogni giorno muoiono di fame venticinquemila persone. E non voglio qui fare il noioso elenco dei conflitti d’interessi, delle collusioni che legano il mondo degli affari al mondo della scienza, della politica e dell’informazione, legami che renderebbero più logica e comprensibile l’apparente assurdità della situazione.
Se però ci allontaniamo dai fatti contingenti e allarghiamo la nostra prospettiva, vediamo emergere un’altra realtà, quella di una pestilenza spirituale, di una pandemia che non intacca gli organi fisici dell’uomo ma i suoi organi morali e intellettuali. Veicolo di contagio non è un virus trasmesso da goccioline di saliva ma la forza corruttrice delle parole e delle immagini. Chi ne viene infettato somiglia a quell’uomo precipitato a testa in giù, il quale
“ordinò il mondo a immagine della sua inclinazione, cioè del capovolgimento di ogni valore, conseguenza della caduta. Egli dichiarò destro ciò che è sinistro; mutò tutti i segni della natura al punto che considerava bello ciò che non lo era e buono ciò che in realtà era cattivo”.
È un morbo secolare che ciclicamente, in forme diverse si ripresenta, annunciando il declino e la dissoluzione di una civiltà. In esso si consuma il dramma, o il miracolo, della morte e della rinascita. Non esiste una cura, il male si esaurisce spontaneamente quando la sua opera di distruzione è compiuta e la terra è pronta a ricevere nuovi semi. L’attuale pandemenza è dunque solo un’epifania storica, una fra le tante, di una peste eterna e metafisica. Mentre scende la notte della civiltà, è come il rintocco di una campana nei cui suoni si fondono nemesi e catarsi.
Vi possiamo riconoscere quasi i gesti di una rappresentazione misterica. Officianti sono virologi ed esperti, nuova casta sacerdotale che media tra il popolo e il Deus sive Natura, questa entità che dovrebbe dispensare dannazione e salvezza con rigore scientifico ma, in realtà, rimane avvolta in una nube di contraddizioni a noi incomprensibili. Il virus tiene il posto di quegli antichi demoni che si diceva portassero morbi e pestilenze. Nuovi flagellanti, in processioni senza volto, cercano la salvezza nella mortificazione del respiro. Portano la mascherina come un moderno cilicio, si affidano alla mistica del distanziamento sociale e a riti apotropaici con cui esorcizzano l’invisibile nemico. Nuovi predicatori si arruolano in un grigio, petulante esercito della salvezza, a difesa della moralità igienico-sanitaria. Nuovi asceti son pronti a chiudersi in gusci di plastica, come tra le pareti di una cella inespugnabile, isolati dal mondo per non assorbirne i miasmi letali. Tamponi e test sierologici surrogano la confessione dei peccati, cui far seguire congrue espiazioni, purificanti clausure. In ore canoniche si celebrano compunte litanie dei morti, si recitano breviari profilattici, si profetizzano castighi divini, si emanano decreti simili a bolle pontificie. Soprattutto si attende la venuta messianica di un vaccino, come un nuovo battesimo, o come lo Spirito della Pentecoste che, trovandoci prudentemente chiusi in casa, scenderà su di noi e ci libererà dalla paura. E tutto questo avviene perché “gli dei rendono pazzi coloro che vogliono perdere”.
Dall’osservazione di questa psico-fenomenologia si può dunque arguire che viviamo in un mondo fondato essenzialmente su stati allucinatori, contraffazioni sistematiche della realtà, distorsioni cognitive. Nessuno può mettere in dubbio la mitologica narrazione dei fatti senza venir interdetto e scomunicato. Il governo del mondo è affidato a un nuovo totalitarismo di stampo satanico, ma dal volto materno e protettivo, che ci rende schiavi con il nostro consenso. Non v’è bisogno di forze esterne che costringano l’uomo a obbedire, perché lui stesso interiorizza i comandi del Sistema e vi si adegua spontaneamente, come fossero sue libere scelte. Inibito ogni impulso ribelle, si adagia in un piacere morboso, quasi masochistico, d’esser dominato. Il mainstream è la sua religione, un nuovo e universale fondamentalismo. Per i liberi pensatori, non essendovi alternativa alla sconfitta, combattere è solo una questione d’onore. Chi non vuol compiere tale gesto nobile e vano, dovrà aspettare che l’umanità si estingua per eccesso di antibiotici e vaccini.
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