9 Ottobre 2024
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Dell’Acqua o del Principio: la filosofia degli elementi di Massimo Donà – Giovanni Sessa

La filosofia, fin dal suo sorgere, si è confrontata con il problema dell’arché e con gli elementi. Aristotele, tra i primi, nel De Anima, si lagnò del fatto che i suoi illustri predecessori, dei quattro stoicheia, avessero trascurato la Terra, dato il suo essere ricettacolo delle determinazioni materiali. La filosofia del Novecento ha conosciuto un vivace ritorno del dibattito attorno agli elementi. Si pensi solo a Carl Schmitt con il suo Terra e mare, oppure alla rivista Antaios di Jünger ed Eliade che, fin nella titolazione, richiama il mito di Anteo, personaggio che traeva la sua forza dal rapporto con il mondo tellurico. In quest’ultimo periodo uno dei filosofi italiani più noti e fuori dal coro dell’ ‘accademicamente corretto’, Massimo Donà, ha arricchito la sua vasta produzione teoretica di un ‘volumetto’(il vezzeggiativo si riferisce esclusivamente al numero di pagine), che in realtà è una sorta di presentazione in vitro di alcuni aspetti cruciali della sua speculazione. Si tratta di Dell’acqua, edito da La nave di Teseo (pp. 89, euro 11,00).

L’autore propone una sorta di itinerario erudito nel quale, con maestria, il lettore viene accompagnato alle sorgenti (per rimanere in tema) del sapere. Oggetto dell’analisi di Donà è l’acqua, uno dei quattro elementi che, come viene ricordato nell’incipit del libro, è metafora sia del tempo che della memoria. Per quanto attiene al tempo, basti ricordare il noto frammento eracliteo, nel quale il sapiente di Efeso sostenne che nello stesso fiume è impossibile bagnarsi due volte, per l’acqua-memoria, si faccia mente locale alla poesia di Ungaretti, Fiumi. Il bagno nell’Isonzo innescò nel poeta la memoria involontaria, facendogli rivivere esperienze lontane e facendo riemergere davanti a lui un intero mondo, quello dell’infanzia, fino ad allora obliato. L’acqua svolge un ruolo centrale nelle tradizioni religiose, nel mito, nella filosofia che, si suol dire, ebbe inizio con Talete, che individuò nell’acqua il principio. Questa, nei diversi ambiti del conoscere, è stata esperita quale elemento dal duplice volto: desiderata e salutare, può mostrarsi violenta e devastante. Può essere chiara e limpida, ma anche stagnante e torbida.

L’acqua simbolizza il bisogno più profondo degli uomini. La beviamo per sete, purifica, espelle le impunità, ma il tornare ogni volta a desiderarla, a volerla sorseggiare, rammenta il bisogno di conoscenza che ci pervade. L’acqua è fondamentalmente sorgente di vita, per questo nel mondo antico le polle era abitate da ninfe e geni. Donà è memore della lezione di Porfirio. Il filosofo neoplatonico nel, De antro Nympharum, racconta che Apollo, dio della misura e del metro, ricevette dalle Ninfe il dono, lo ricorda Calasso, delle ‘acque mentali’: un sapere metamorfico, fluido, ben simbolizzato dalle acque originarie che, nella Scienza d’Ermete, precedono, anche cronologicamente, l’emersione del logos, del concetto. Si tratta di ciò che Paracelso chiamerà nymphidica natura. Essa tutto anima: «Facendoci tutti perennemente assetati di un’origine mai davvero posseduta; che, proprio con il gesto del bere, continuiamo a rammemorare» (p. 28). Nel Cristianesimo l’acqua è accomunata al pneuma, soffio vitale, che determina il rigoglio di ciò che è, ma in rapporto alla natura, chiosa Donà: «essere non significa altro che ritrovarsi-in-movimento» (p. 28).

La nostra ex-sistenza, il nostro star fuori, è sospeso tra passato e presente, siamo memoria di ciò che non è più e attesa di quel che ancora non è. Il precedente autorevole dell’esegesi compiuta dal filosofo veneziano va rintracciato in Agostino e nella sua problematizzazione del tempo. Fondamentalmente noi, le cose del mondo, non-stiamo, ma tendiamo, ci protendiamo verso qualcosa. E tale movimento ci con-vince (cosa diversa, ricordava Colli, dall’esser persuasi!) della nostra libertà. Proprio per questo, in psicanalisi, l’acqua rinvia all’energia inconscia, è elemento psichico afferente all’emersione, sempre possibile, della dimensione ctonia ed entropica della vita. Untersteiner parlò di una religione ‘delle acque’, di un culto dell’elemento femminile nel mondo classico, testimoniato dalla nascita di Afrodite dalla spuma di mare. Quindi, per la sua femminilità, l’acqua: «custodisce nel proprio grembo e lascia apparire ciò di cui si fa carico» (p. 43). Leonardo da Vinci nel volume, Delle acque, sostenne l’elemento acqueo non aver pace, esso ambirebbe raggiungere il mare, nella cui apparente immobilità poter risolvere la propria inquietudo. Il mare accoglie l’acqua riconsegnandola al tutto-uno, da cui proviene.

L’acqua è metamorfosi: può farsi aria, ghiaccio, solo la stabilità ne tradisce la natura, rendendola stagnante, ferma. Penetra i corpi e la natura senza tracotanza: «perché, quel che essa finisce per bagnare non viene mai escluso o messo a tacere; […] ma al contrario vivificato» (p. 54). Ciò non cancella la sua costitutiva ambiguità. Melville rilevò come l’elemento acqueo sia connotato dalla capacità di riflettere le immagini, presentandole però all’osservatore come irriconoscibili. L’immagine, per catturare la quale, non casualmente, Narciso si perse, indica l’inafferrabile fantasma della vita. L’acqua è simbolo dell’indeterminatezza del Principio che, dandosi in ogni cosa, si tradisce. Ma, si badi, sottolinea con forza Donà, tale principio: «non sta prima; e neppure sta in qualche luogo; ma indica piuttosto il centro incollocabile e mai esperibile cui tutto […] continua a far cenno» (pp. 58-59). L’acqua tutto avvolge, ma da nulla è realmente trattenuta. Essa possiede, rispetto al tempo, la medesima qualità del presente: tutto attraversa con la propria inconsistenza, con il suo nulla. Senza caratteristiche positive, l’acqua-principio può, per questo, assumerle tutte. La malia dell’acqua rammenta quella dell’arte, che riduce ogni rappresentato al medesimo ed insensato principio, sottraendolo alla dimensione del significato.

Le cose tornano ad essere in essa divine, libere, riscattate dall’utilizzo e riconsegnate all’essenza, vale a dire non al loro lato nascosto: «ma all’esteriorità propria […] dell’ apparire» (p. 74). L’arte, nota Donà, rinviando all’identico, sdetermina ogni determinazione e mostra la costitutiva ingannevolezza degli enti, che è la stessa presente nell’elemento acquatico, fatto di trasparenze fuorvianti. Se ciò è vero, sostiene il filosofo, sarà proprio la perdita dell’aura dovuta alla riproducibilità tecnica, esperita nella nostra epoca, a mostrare la straordinarietà dell’arte: «irripetibili essendo forse solo le cose appartenenti all’orizzonte della quotidianità e della prassi» (p. 79). Con buona pace di Benjamin e di ogni passatismo estetico.

Giovanni Sessa

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