Uno degli inganni più creduti del presente è che democrazia e liberalismo siano sinonimi. Il punto di intersezione sarebbe il parlamentarismo, luogo d’elezione dell’ideologia liberale, prova invincibile della relazione tra la democrazia (governo del popolo) e la libertà economica, totem della dogmatica liberale. Il nesso, costruito a partire dalle due grandi rivoluzioni borghesi del Settecento, americana e francese, saldato sino alla fusione al termine del Novecento, compimento della storia per vittoria del mercato, è facilmente confutabile. Sistemi sociali basati sulla proprietà privata hanno convissuto per secoli con i più diversi regimi politici, sino al caso della Cina del XXI secolo, capitalistica, poco liberale e per nulla democratica. Già a un’analisi superficiale, risulta chiaro che il potere del popolo è incompatibile con un regime economico fondato sulla prevalenza programmatica degli interessi privati. Tocqueville comprese per primo che il successo della democrazia liberale è legato alla continua espansione della sua base borghese, continuata per quasi due secoli sino a divenire classe dominante. Abbattuti dopo il 1968 i residui valori tradizionali della vecchia borghesia, sconfitta nel 1989 l’alternativa comunista, l’egemonia è passata alla classe dei grandi azionisti e dei dirigenti delle sempre più gigantesche entità industriali e finanziarie private, estranee al metodo e al principio democratico. “I voti non si contano, si pesano” (Giovanni Agnelli), è il credo degli alfieri di un capitalismo il cui modello è il consiglio di amministrazione e il cui obiettivo è il dominio attraverso la privatizzazione del mondo e il possesso della tecnologia.
Suoi nemici politici restano la democrazia e lo Stato; avversari culturali le identità collettive: religioni, popoli, nazioni, comunità. Il liberalismo non è che l’involucro, la maschera benevola del liberismo globalista. Il tarlo della modernità non è la democrazia, bensì la prevalenza al suo interno della ragione liberale, liberista in economia, formalista nel diritto, parlamentarista in politica. Questo è il nucleo del nostro “pensiero forte”. Al riguardo, è interessante riassumere l’opinione di due grandi critici della democrazia parlamentare, Oswald Spengler e Carl Schmitt. Spengler osteggiò la democrazia in quanto regime falso, orientato attraverso la manipolazione dei mezzi di informazione, con cui il popolo scambia per libertà la propria mutevole opinione eterodiretta. Un secolo dopo, l’analisi dell’autore del Tramonto dell’Occidente conserva la sua pregnanza.
La critica di Schmitt è più sottile e insieme più radicale. Secondo il grande giurista, la democrazia si risolve e dissolve nella pratica del parlamentarismo, assai diversa dalla sovranità popolare. Nel mirino dell’autore delle Categorie del Politico entra il più munito dei santuari del pensiero liberale, la separazione dei poteri, quei meccanismi impersonali check and balance che finiscono per innestare un “pilota automatico” nella democrazia ridotta a periodico spettacolo elettorale e sterilizzare ogni processo di decisione svuotando il potere dello Stato, secondo teoria e prassi liberale. Schmitt, con un parziale debito verso Rousseau, afferma che il cuore del principio democratico è l’inesistenza della distinzione teorica tra governati e governanti. La separazione dei poteri deve pertanto essere assorbita da un principio superiore, l’esercizio diretto della sovranità da parte del popolo, la cui espressione fondamentale è lo Stato, nemico principale dei liberali. Si può dissentire dalla generalizzazione schmittiana, ma non si può negare che sia stata costruita ad arte una grande confusione tra il potere esecutivo- braccio secolare di oligarchie estranee – e quello legislativo, ossia il parlamento derubricato a luogo di contrattazione di interessi opachi dei gruppi di potere e di pressione (le lobby). Sullo sfondo, il potere giudiziario, zona grigia di finta indipendenza, sottratto al controllo popolare, luogo di identificazione tra verità e legalità, nonché di legale proscrizione delle idee ribelli. Seguendo le piste di Schmitt, occorre prendere atto che, al di là delle volontà individuali, si è scelti da qualcuno come nemici. A costoro non si può rispondere con profferte di dialogo, sterili sottigliezze giuridiche o interminabili discussioni (la clasa discutidora borghese tanto invisa a Donoso Cortés).
Vale la Teoria del Partigiano: amica è la democrazia partecipativa, amico è lo Stato, la comunità nazionale, locale e spirituale, la morale, l’identità. Nemico, irrevocabilmente, è il liberalismo/liberismo della finta democrazia fatta di conciliaboli parlamentari, ove si legittimano e legalizzano la privatizzazione del mondo, la nuova schiavitù, la dittatura del denaro, la fine della sovranità, l’omicidio dei popoli.
Roberto PECCHIOLI
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