Per comporre il grande affresco delle vicende preistoriche descritte soprattutto nella seconda parte di “Rivolta contro il mondo moderno”, Julius Evola scriveva che aveva dovuto “unire, in una sintesi articolata, gli apporti del Guénon, del Wirth e del Bachofen” (nota 1). Sappiamo che di René Guénon e di Johann Jakob Bachofen sono già state tradotte in italiano le opere principali, non così invece è avvenuto per Herman Wirth, la cui presenza nella nostra lingua è limitata ad opere di minor peso (nota 2), o, per quello che è senz’altro il suo lavoro principale – “Der Aufgang del Menschheit” (L’aurora dell’umanità) – solo a piccoli stralci parziali (nota 3). E’ per questo motivo che ritengo utile segnalare l’iniziativa recentemente partita nell’ambito del gruppo Facebook “MANvantara. Antropologia, Ethnos, Tradizione” per la traduzione, ad uso privato, del ponderoso volume di Herman Wirth: un progetto che invito tutti coloro che sono interessati a sostenete, contattando il gruppo (che è pubblico) o anche, in assenza di un’utenza Facebook, scrivendo alla casella mail: michele.ruzzai@libero.it.
Ma chi era Herman Wirth e, soprattutto, come va considerata la sua opera?
Herman Felix Wirth Roeper Bosch nacque in Olanda, a Utrecht, il 6 maggio 1885 e compì studi di filologia germanica, storia e musicologia presso le università di Utrecht e di Leipzig (nota 4). Ben presto naturalizzato tedesco, nel 1935 fu cofondatore della Ahnenerbe – “Società di ricerca dell’eredità ancestrale” – (nota 5), uscendone però già nel 1938 per dissidi con i vertici nazionalsocialisti e quindi passando in secondo piano nel dibattito culturale del tempo. Tuttavia visse anche nel dopoguerra una condizione abbastanza marginale (nel 1945 gli americani sequestrarono la sua biblioteca e la sua immensa documentazione); pubblicò alcune opere negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso e comunque riuscì ad organizzare una vastissima esposizione di reperti, nel biennio 1974-1976 a Fromhausen dei Detmold nell’ambito del “Museo preistorico europeo”, prima di morire il 16 febbraio 1981 a Kusel/Pfalz in Germania (nota 6). Ma la sua opera principale fu, appunto, “Der Aufgang der Menschheit” del 1928, nella quale Wirth disegna un vastissimo panorama della preistoria mondiale andando a cercare soprattutto nel profondo Nord (o, meglio, tra Artico e Nord Atlantico: è un dettaglio importante sul quale faremo qualche riflessione) la chiave di molta parte degli eventi che modellarono il quadro etnico del pianeta.
E’ comunque di tutta evidenza come lo sguardo boreale di Wirth riecheggi i miti classici delle leggendarie terre di Thule ed Iperborea. Ed è anche chiara una certa vicinanza con la visuale di Renè Guénon il quale, come noto, basò l’intera sua opera sul concetto di “Tradizione Primordiale”: quella traccia, al tempo stesso, conoscitiva ed ontologica di superiori stati dell’Essere, che sul nostro piano cosmico fu indissolubilmente legata alla stessa genesi umana, verificatasi in una posizione letteralmente polare in termini non solo spirituali ma anche geografici (nota 7). Per il francese, tale evento corrispose all’inizio del ciclo di questa umanità – il Manvantara, secondo la Tradizione indù – che pone circa 64.000 anni fa e dal quale parte con una serie di considerazioni seguendo uno schema non evolutivo-ascendente (fondamentalmente darwiniano) ma involutivo-discendente (i 4 Yuga indù, o le 5 Età di Esiodo): linee che poi altri due francesi, Gaston Georgel (nota 8) e Jean Phaure (nota 9) si incaricheranno di elaborare ulteriormente, provando a ricostruire con maggior dettaglio le vicende storico-tradizionali umane dai primordi ai tempi odierni. In “Ricognizioni” (nota 10), Evola arriva addirittura ad attribuire a Herman Wirth la stessa impostazione di Guenon, evidenziando il tema comune di una Tradizione iperborea posta all’inizio del presente ciclo, ma, ciò facendo, minimizzando le perplessità del metafisico francese che invece aveva rimarcato (nota 11) come il mondo atlantico, pur nella sua sezione più settentrionale (oggetto, appunto, delle specifiche analisi wirthiane) andasse nettamente distinto da una ancor precedente fase: questa sì schiettamente iperborea, artica e polare. Un distinguo opportunamente ricordato anche da Nuccio D’Anna che, sottolineando la denominazione di “nordico-atlantici” privilegiata da Wirth per le popolazioni boreali (assieme, come vedremo, a quella di “Prenordici”),“impediva visibilmente di distinguere le due fasi successive e non omologabili di questa antichissima e primordiale civiltà” (nota 12). Ecco dunque un primo punto che è importante tenere presente.
Se allarghiamo le nostre analisi agli aspetti di carattere geologico ed astronomico, pare emergere un’altra possibile area di frizione tra Guénon e Wirth. Negli scarni brani di “Aufgang…” tradotti in italiano, ed in particolare nella parte iniziale del secondo capitolo “Die urheimat der nordischen rasse” (nota 13) sembra di capire che l’autore tedesco-olandese ipotizzi la sede originaria della razza nordica in settori che solo ora si trovano ad elevata latitudine ma che al tempo non lo erano affatto: da cui, appunto, la possibilità che in periodi antichi queste zone potessero aver rappresentato un habitat ideale per lo stanziamento umano. L’attuale posizione geografica di queste terre sarebbe poi stata modificata da uno spostamento polare, fenomeno che almeno negli effetti finali appare simile, anche se di genesi non identica, a quello della scorrimento della crosta terrestre ipotizzato da Charles Hapgood (nota 14): cioè in pratica una “dislocazione” di aree geografiche a latitudini diverse rispetto a quelle occupate precedentemente. Questa, però, costituirebbe una prospettiva alquanto diversa rispetto a quella riportata da Julius Evola (nota 15), René Guenon (nota 16) ed altri autori (note 17, 18, 19, 20), i quali, per i tempi primordiali, menzionano la simultanea presenza di due elementi antropo-cosmici ben precisi: la perpendicolarità dell’asse terrestre rispetto all’eclittica (da cui l’assenza di ritmicità stagionale (nota 21) ed il mito ovidiano dell’ “eterna primavera” (nota 22)) e l’assialità, spirituale ma anche geografica (questa, come immagine cosmologica di quella) dell’Uomo primordiale. Se però altri autori (nota 23) ricordano invece come anche Wirth ammettesse anticamente l’esistenza di un terra artica abitata nella quale il tempo era sempre uguale a se stesso, prima ancora dell’avvento stagioni, ci troviamo davanti a un’ulteriore conferma di quanto sia opportuno poter esaminare nella sua completezza, ed ora finalmente in lingua italiana, il testo di Wirth per comprendere bene la sua posizione su questo punto essenziale.
Un ulteriore dubbio aperto sull’opera wirthiana può presentarsi nell’interrogativo, che presenta un aspetto doppio ma strettamente interconnesso, sul soggetto primo delle sue analisi e sulla tempistica di stanziamento umano alle alte latitudini. In merito al primo interrogativo, già in qualche modo anticipato nelle righe sopra, Aleksandr Dughin in un suo importante scritto (nota 24) – che ci offrirà da qui in avanti molti ottimi spunti per una serie di analisi – sottolinea l’interessante tema della scala veramente mondiale delle influenze esercitate dalla civiltà nordica tratteggiata da Wirth sulle varie correnti spirituali e sui simbolismi più profondi del pianeta: influenze che quindi sembrano travalicare i più ristretti confini della famiglia etno-linguistica indoeuropea. Ed in questa stessa direzione paiono infatti muoversi le note dell’intellettuale russo quando segnala che i discendenti di questi antichi “Iperborei” (fatti salvi i summenzionati distinguo tra le varie denominazioni, e controverse sovrapposizioni, delle stirpi nordiche) si riscontrerebbero ancora oggi fra tutti i popoli della Terra a prescindere dalla pigmentazione cutanea; in tale contesto non pare dunque del tutto fuori luogo l’accenno di Dughin al fatto che Wirth avrebbe, in qualche modo, anticipato la “teoria del Nostratico” di Illich-Svitych e Dolgopolskij (ma potremmo ricordare anche gli studi precedenti del danese Holger Pedersen), in base alla quale le genti europee, asiatiche ed anche africane, agli albori umani avrebbero parlato uno stesso idioma, poi spezzatosi in diverse famiglie linguistiche. A questo proposito – piccolo inciso – ricorderei che l’idea del macro-gruppo nostratico fu successivamente sottoposta ad una serie di revisioni soprattutto ad opera di Joseph Greenberg (nota 25), in quanto si rilevò una maggiore vicinanza morfologica dell’Indoeuropeo alle famiglie ciukcio-camciadali ed eschimo-aleutina rispetto a quelle camito-semitica ed elamo-dravidica, con la conseguente ridefinizione dell’aggregato linguistico di partenza e la sostituzione delle ultime due famiglie con le prime due: il nuovo raggruppamento venne così definito “Eurasiatico”, dalla connotazione nettamente più nordica e linguisticamente più convincente, anche a parere del nostraticista russo Sergei Anatolievič Starostin (nota 26). A mio avviso, è pure interessante rilevare come lo stesso Dolgopolskij invece del termine “Nostratico”, con il tempo preferì utilizzare quello di “Boreale” (nota 27). In un altro scritto (nota 28), Dughin inoltre ricorda il mito presente tra alcune popolazioni Inuit di antichissimi “Esquimesi Bianchi”, o “Uomini del Sole”, chiamati anche “Gente di Tanara”, che secondo Herman Wirth avrebbero costituito un ramo delle popolazioni iperboree diverso da quello stanziato nel quadrante nordatlantico (e probabilmente connesso alla più tarda famiglia indoaria) ma penetrato in Eurasia da Nord-est, ceppo al quale sarebbero riconducibili popolazioni come ad esempio quelle sumeriche, legate al mondo siberiano-orientale e turanico (nota 29): dunque, significativamente, collegate al mondo nordico non attraverso il medium del ceppo protoindoeuropeo. In merito ai Sumeri, è altresì interessante rilevare come una connessione al mondo asiatico orientale o nordorientale sia stata ipotizzata anche da studiosi dalla formazione alquanto diversa da quella di Herman Wirth, ovvero il tradizionalista A.K. Coomaraswamy (nota 30) o il genetista Cavalli Sforza, che li inquadra come uno dei testimoni di quella espansione avvenuta tra 30.000 ed 50.000 anni fa dall’oriente eurasiatico verso l’interno continentale (nota 31): dinamica che sembrerebbe coerente con le summenzionate note wirthiane sulle direttrici migratorie della “Gente di Tanara” (ed, aggiungerei, anche compatibile con il quadro “Out of Beringia” – nota 32). In ogni caso è sempre Cavalli Sforza a ricordare (nota 33) come, anche in termini prettamente glottologici, Ivanov considerò il Sumero derivante da un’unica macrofamiglia linguistica (forse nemmeno quella Nostratica, ma piuttosto l’ancor più remota “Sinodenecaucasica”) che 40.000 anni fa si trovava al massimo della sua espansione geografica, occupando forse tutto il nord eurasiatico.
In definitiva, quindi, in tutti questi punti Herman Wirth sembra attribuire alla “Urheimat” boreale una valenza etnica molto ampia ed adottare un approccio tendenzialmente monofiletico delle origini umane: avvicinandosi così, in effetti, non solo alla prospettiva guenoniana, ma anche a quella di un altro autore spesso citato ma anch’egli mai tradotto in italiano, ovvero William Fairfield Warren autore di “Paradise Found. The Cradle of the Human Race at the North Pole” del 1885 (e recentemente ristampato in inglese (nota 34), sul quale non escludiamo che in futuro il nostro gruppo Facebook possa intraprendere un analogo progetto di traduzione).
Vi sono, tuttavia, altri punti dello scritto di Dughin dai quali pare trasparire in Wirth anche una prospettiva di diverso tipo. Quando ad esempio viene fatto riferimento alle migrazioni ed ai meticciamenti intervenuti tra le popolazioni nordiche con altre più australi, rimane evidentemente irrisolto il problema della provenienza delle seconde, come se in ultima analisi non fosse possibile ricondurre queste alla stesse aree di origine delle prime, magari abbandonate in tempi ancora precedenti: una tesi ad esempio non rifiutata da Silvano Lorenzoni (nota 35). Se Julius Evola (nota 36) sembra riprendere da Wirth l’idea di una razza “negroide” e di una “finnico-asiatica” già esistenti contemporaneamente alla razza prenordica – con il tipo Aurignac (Combe Capelle) ed il Cro-Magnon (nota 37) a rappresentare già dei prodotti di “mistovariazione”, come anche, a maggior ragione, le più tarde comunità indoeuropee (nota 38) – è evidente che qui la prospettiva generale delle origini umane appare molto meno unitarista e monofiletica. La visuale nettamente differenziante tra Nord e Sud del mondo sembra d’altro canto trasparire anche nella descrizione di tali “Iperborei” primari, che nell’articolo di Dughin vengono associati a caratteristiche classicamente nordiche con il ripetuto riferimento all’alta statura, agli occhi azzurri ed al biondismo: elementi fenotipici che, però, appaiono già piuttosto specializzati e ben poco “primitivi” secondo Boas (nota 39), comunque non della più alta antichità sia per Gunther (nota 40) che per Kossinna (note 41 e 42). Ed, oltretutto, si tratta di caratteri non molto rappresentati, ad esempio, in coloro che Wirth, Evola ed anche Kadner (nota 43) considerano oggi più vicini ai “Prenordici” iniziali, ovvero alcuni tipi Inuit e Nativi nordamericani (nota 44), anche in misura maggiore rispetto alle stirpi arioeuropee: ciò, pure sulla base di valutazioni legate alla distribuzione del gruppo sanguigno “0” (nota 45) o dei tratti culturali e sacrali evidenziati (nota 46). Tra l’altro, di questi “Prenordici” primordiali, a ben vedere si potrebbe anche sottolineare l’aspetto prettamente letterale del termine, che, a rigore, dovrebbe esprimere il significativo concetto di coloro che furono “precedenti ai nordici”, cioè presenti ben prima della formazione del classico tipo alto, biondo e con gli occhi azzurri. Ma, proprio in rapporto a questi tratti culturali, si potrebbe pure osservare come, nello scritto di Dughin, la particolare importanza attribuita da tale stirpe arcaica ai fenomeni solstiziali, o al fatto che un giorno degli Dei equivarrebbe a un anno degli uomini (nell’intuitiva analogia dei sei mesi di notte artica con le ore notturne, e dei sei mesi di giorno artico con le ore diurne, come nelle notazioni avestiche – nota 47) sembrerebbe collocare tale civiltà in un momento nel quale l’asse terrestre doveva necessariamente trovarsi già nella sua posizione inclinata di 23° rispetto al piano dell’eclittica e dunque non più in quella situazione di perpendicolarità sopra accennata – davvero primordiale del nostro ciclo umano – che probabilmente perdurò per l’intero Satya Yuga secondo i termini indù.
Da questo punto di vista appare quindi estremamente significativa un’altra sottolineatura di Dughin in merito alle ricostruzioni di Herman Wirth, cioè quella su di una predominanza sacrale dell’elemento femminile nella civiltà boreale (i segreti runici originariamente conservati da sacerdotesse, o l’esistenza di una forma di matriarcato primordiale); ciò a chiara testimonianza di un certo debito culturale del ricercatore tedesco-olandese nei confronti dalle elaborazioni di Johann Jakob Bachofen, autore dell’imponente “Das Mutterrecht”. Una concezione che quindi appare in netto contrasto con quelle più legate all’orientamento in senso patriarcale delle più tarde comunità indoeuropee (nota 48). Ma forse si potrebbe anche pensare che, più che di un errore prospettico nel considerare i primordi umani (è questa, fondamentalmente, l’obiezione principale che Evola muove a Bachofen pur riprendendone anch’egli, in gran parte, le linee interpretative), tale accostamento rivesta effettivamente un valore cronologico: i “Prenordici” di Herman Wirth non andrebbero cioè collocati nel momento primordiale del nostro ciclo umano ma in quella fase successiva che, appunto, vide l’elemento femminile acquisire man mano un’importanza crescente. Da cui anche l’aggancio con l’ipotesi di Gaston Georgel (nota 49) di una suddivisione del presente Manvantara, oltre che quaternaria (i 4 Yuga) e/o quinaria (i 5 Grandi Anni platonici – forse correlabili alle 5 stirpi esiodee?), in linea teorica anche in chiave ternaria, con un “polo” etnico e sacrale sorto in zona Nordatlantico-Groenlandia meridionale (in pratica, il cuore del “cuneo della razza prenordica” che Evola – nota 50 – riporta da Wirth) il quale già a partire da 43.000 anni fa potrebbe aver anticipato il sorgere del successivo Treta Yuga: sotto-ciclo che iniziò appena qualche millennio dopo, verso 39.000 anni fa, e che a buon diritto può essere definito anche come “l’Età della Madre”. E non sarebbe da escludere che tali movimenti sub-artici / circum-artici potrebbero essere stati facilitati da temporanee migliorate condizioni climatiche, guarda caso verificatesi proprio nel lasso tra 42.000 e 44.000 anni fa, in termini paleoclimatologici noto come il periodo di Peyrards: lasso che sembra corrispondere all’interstadiale Laufen/Gottweig il quale, oltretutto, si accompagnò anche ad una serie di eventi piuttosto significativi in termini culturali, con la transizione tra Paleolitico Medio e Paleolitico Superiore (nota 51). La conseguenza odierna di tali eventi è forse di aver indotto una certa sovrapposizione concettuale tra il momento puramente polare-artico-iperboreo e quello semplicemente nordatlantico, sovrapposizione spesso sottolineata anche da Julius Evola, che portò qualche studioso a situare il periodo della civiltà artica originaria in tempi meno remoti rispetto a quelli proposti da René Guenon: è ad esempio il caso del già citato Jean Phaure che – pur nell’ambito di una generale cornice cronologica guenoniana – nel suo schema colloca infatti la terra di Iperborea solo all’inizio del Treta Yuga, quindi in pratica ricalcando, a mio avviso, le linee di Herman Wirth.
Ed in effetti qualche ulteriore dettaglio sugli stanziamenti nordici segnalati da Herman Wirth, riportati da alcuni autori, appaiono alquanto indicativi: Marco Zagni (nota 52) menziona il quadrante collocato tra Groenlandia, Islanda e Spitzbergen che sarebbe stato popolato circa 42.000 anni fa (periodo praticamente sovrapponibile al summenzionato interstadio Laufen/Gottweig), mentre Gabriele Zaffiri (nota 53) abbassa ancora di più il momento della civiltà nordica di Wirth a circa 30.000 anni fa. Date, cioè, che ci portano 20-30.000 anni più tardi rispetto all’inizio del Manvantara secondo la cronologia guenoniana ed, appunto, in gran parte ricadenti nel periodo di pertinenza del Treta Yuga, l’anzidetta “Età della Madre”. E dunque, alla luce di queste considerazioni, avrebbero una certa coerenza gli accenni di Wirth sul centro nordico-atlantico ricordato proprio come “Terra della Madre” (nota 54). Senonchè qui Wirth opera un accostamento a mio avviso piuttosto azzardato – ed è proprio questo il motivo per cui sarebbe necessario poter verificare direttamente, e non solo tramite altri, pur validi, autori, gli scritti del ricercatore tedesco-olandese – tra il centro nordico-atlantico di 30-40.000 anni fa con quella Mo-uru (nota 55) ricordata nel mito avestico come sede secondaria, e non primaria di origine indoiranica: solo che anche qui si ricade ancora, come sopra accennato, nell’equivoco del soggetto che sarebbe stato protagonista di tali migrazioni. Perché ricorrere, come fa Wirth, alle localizzazioni avestiche rimanda ovviamente al più ristretto ambito indoeuropeo, quindi difficilmente situabili nelle epoche riportate da Zagni e Zaffiri (anche se personalmente ritengo che la nostra famiglia etnolinguistica risalga comunque a tempi ben più remoti di quelli protostorici ipotizzati da Marija Gimbutas; per maggiori chiarimenti, che ora uscirebbero dall’ambito di quest’articolo, mi permetto di rimandare al mio precedente scritto “Le radici antiche degli Indoeuropei”, presente in questo stesso sito). Il centro nordatlantico di 30-40.000 anni fa sarebbe cioè stato successivo alla Thule veramente primordiale, monofiletica e polare, di inizio Manvantara, che sussistette nell’accennata situazione cosmologica di asse perpendicolare rispetto all’eclittica con la connessa “Eterna primavera” di Ovidio. La Mo-uru citata nell’Avesta, invece, sarebbe stata la sede secondaria occupata da un raggruppamento nettamente più ristretto – i soli Indoarii – dopo l’uscita dall’iniziale Airyana Vaejo, ovvero la Patria etnogenetica ariana che, con tutta probabilità, rispetto alla Mo-uru era geograficamente posta ad una latitudine più elevata, cioè al di sopra del Circolo Polare Artico, per i summenzionati accenni alla periodicità dì/notte di sei mesi ma anche, per la stessa ragione, temporalmente situabile in un momento in cui l’asse terrestre doveva per forza presentare ormai l’attuale inclinazione rispetto all’eclittica (inoltre, in termini di longitudine, è probabile che l’Airyana Vaejo fosse nettamente più orientale delle aree atlantiche a fronte dei significativi rapporti evidenziati dalle lingue indoeuropee con quelle uraliche – note 56, 57, 58, 59, 60, 61 – ciò anche in assonanza, almeno geografica, con le visuali di Bal Gangadhar Tilak – nota 62).
Ritengo quindi probabile che le enormi difficoltà a ricostruire eventi verificatisi in tempi remotissimi abbiano portato ad operare non una sola, ma molte possibili sovrapposizioni concettuali: ad esempio, una tra il centro primario e quello secondario più antichi (cioè tra la Thule polare e la Nordatlantide del Treta Yuga); un’altra fra il centro primordiale ed etnicamente più ecumenico e quello primario ma di scala più ridotta (cioè tra la Thule polare e l’Airyana Vaejo solo indoeuropea); un’altra ancora tra il centro secondario più antico e quello più recente (cioè, come sembra fare Wirth, tra la Nordatlantide di 30.000 anni fa e la Mo-uru meno remota); o ancora un’altra, “incrociata”, tra il centro primordiale più remoto e quello secondario recente (questa forse ravvisabile in Eratostene, che colloca Ultima Thule non a Nord ma a Nord-Ovest, alla latitudine di 66° – nota 63 – più o meno corrispondente a quella dell’Islanda)…
In ogni caso – e ci avviamo verso la conclusione – bisogna anche dire che l’orientamento femminile proposto da Herman Wirth per la civiltà nordatlantica lascia piuttosto perplesso Julius Evola: ma il pensatore romano, tuttavia, non arriva a chiudere del tutto la porta a questa possibilità, quando ad esempio ricorda l’appellativo di “gente della Dea” (nota 64) attribuito alla razza mitica dei Tuatha de Danann, tradizionalmente giunti in Europa dalla direzione di Nord-Ovest. Quel Nord-Ovest indefinito, grossomodo collocato a cavallo della curva Groenlandia-Islanda-Faroer-Scozia-Irlanda che in tempi wurmiani anche la ricerca ufficiale ammette aver visto ampie aree emerse (note 65, 66, 67), con propaggini forse estese anche più a meridione (l’Atlantide “classica”). E, secondo Wirth (nota 68), furono proprio queste propaggini più meridionali, collocate a latitudini più o meno corrispondenti a quelle delle isole Azzorre, che vennero sommerse per prime dal cataclisma diluviale principale, mentre le zone più settentrionali come l’anzidetta Mo-uru, si inabissarono solo alcuni millenni più tardi: uno degli eventi di maggior impatto – la “frana di Storegga” di 8.000 anni fa – viene, anche questo, ammesso senza difficoltà alcuna dalla ricerca ufficiale (nota 69). Cataclismi nordatlantici dai quali derivò l’ultima delle grandi migrazioni boreali di una certa entità demografica, quel movimento “trasversale” del quale parla anche Julius Evola (nota 70) che prese come tappa intermedia il “Doggerland”, bassopiano anticamente esteso tra Gran Bretagna e Danimarca; la sommersione definitiva anche di questa rigogliosa area si concluse forse 6.500 anni fa con un ultimo evento marino che miticamente forse corrispose al “Diluvio di Deucalione” (nota 71).
Ma qui ci troviamo davanti ad eventi ormai post paleolitici: l’acquisizione di ulteriori dettagli lungo almeno 35-40.000 anni di preistoria umana secondo le categorie storico-tradizionali, passa necessariamente attraverso la traduzione di questo mastodontico lavoro di Herman Wirth – già iniziato e del quale ci sono appena pervenute le prime pagine in italiano – per il quale rinnovo a tutti coloro che sono interessati la richiesta di sostegno.
Note
Nota 1) Il cammino del cinabro – Scheiwiller – 1972
Nota 2) Ura Linda, una saga indoeuropea: il popolo frisone (testo e note a cura di Herman Wirth), Edizioni Barbarossa, 1989
Nota 3) Ad esempio l’introduzione iniziale, pubblicata nel 2013 da EFFEPI come libretto dal titolo “Introduzione a L’aurora dell’umanità”, ed il secondo capitolo “Die urheimat der nordischen rasse” tradotto e pubblicato parzialmente come “La patria originaria della razza nordica” nel numero speciale doppio 27-28 di Arthos, “La Tradizione artica”, 1985
Nota 4) Marc Eemans, “Herman Wirth e la preistoria prima degli Indoeuropei”, Orion, n. 61, ottobre 1989
Nota 5) Per una panoramica generale vedasi “Ahnenerbe. Appunti su scienza e magia del Nazionalsocialismo” di Gianfranco Drioli, RITTER, 2011
Nota 6) “Cenni bio-bibliografici su Herman Wirth”, Marc Eemans – Renato del Ponte, nel numero speciale doppio 27-28 di Arthos, “La Tradizione artica”, 1985
Nota 7) René Guénon – Forme tradizionali e cicli cosmici – Edizioni Mediterranee – 1987 – pag. 29
Nota 8) Gaston Georgel – Le quattro Età dell’umanità. Introduzione alla concezione ciclica della storia – Il Cerchio – 1982
Nota 9) Jean Phaure – Le cycle de l’humanité adamique: introduction à l’étude de la cyclologie traditionnelle et de la fin des temps – Dervy-Livres – 1973
Nota 10) Julius Evola – Ricognizioni. Uomini e problemi – Edizioni Mediterranee – 1985 – pag. 208
Nota 11) René Guénon – Forme tradizionali e cicli cosmici – Edizioni Mediterranee – 1987 – sempre pag. 29
Nota 12) Nuccio D’Anna – A proposito del rapporto Julius Evola–Hermann Wirth – in: Vie della Tradizione n. 140 – ottobre/dicembre 2005 – pag. 161
Nota 13) Come detto nella nota 3, capitolo tradotto e pubblicato parzialmente come “La patria originaria della razza nordica” nel numero speciale doppio 27-28 di Arthos, “La Tradizione artica”, 1985
Nota 14) Charles H. Hapgood – Lo scorrimento della crosta terrestre – Einaudi – 1965
Nota 15) Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pagg. 235 e 241
Nota 16) René Guénon – Forme tradizionali e cicli cosmici – Edizioni Mediterranee – 1987 – pag. 28
Nota 17) Nuccio D’Anna – Il gioco cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia – Rusconi – 1999 – pag. 137
Nota 18) Joscelyn Godwin – Il mito polare – Edizioni Mediterranee – 1993 – pag. 14
Nota 19) Paolo Magnone – I dadi e la scacchiera. Visioni indiane del tempo – in: I Quaderni di Avallon, n. 34, “Il senso del tempo” – 1995 – pag. 79
Nota 20) L.M.A. Viola – Tempus sacrum – Victrix – 2003 – pag. 30
Nota 21) Julius Evola – L’ipotesi iperborea – in: Arthos, n. 27-28 “La Tradizione artica” – 1983/1984
Nota 22) Christophe Levalois – La terra di luce. Il Nord e l’Origine – Edizioni Barbarossa – 1988 – pag. 44
Nota 23) Arthur Branwen – Ultima Thule. Julius Evola e Herman Wirth – Edizioni all’insegna del Veltro – 2007– pag. 29
Nota 24) Aleksandr Dughin – Herman Wirth: Runes, Great Yule, and the Arctic Homeland – indirizzo internet: http://4pt.su/en/content/herman-wirth-runes-great-yule-and-arctic-homeland
Nota 25) Merritt Ruhlen – L’origine delle lingue – Adelphi – 2001 – pag. 177
Nota 26) Gianfranco Drioli – Iperborea. Ricerca senza fine della Patria perduta – RITTER – 2014 – pag. 78
Nota 27) Riccardo Ambrosini – Le lingue Indo-Europee. Origini, sviluppo e caratteristiche delle lingue indo-europee nel quadro delle lingue del mondo – ETS Editrice – 1991 – pag. 134
Nota 28) Aleksandr Dughin – Siberia – in: “La Nazione Eurasia”, n. 5 – Giugno 2004 – pag. 6
Nota 29) Aleksandr Dughin – Continente Russia – Edizioni all’insegna del Veltro – 1991 – pag. 35
Nota 30) Nuccio D’Anna – A proposito del rapporto Julius Evola–Hermann Wirth – in: Vie della Tradizione n. 140 – ottobre/dicembre 2005 – pag. 164
Nota 31) Luigi Luca Cavalli Sforza – Geni, popoli e lingue – Adelphi – 1996 – pag. 224
Nota 32) Spencer Wells – Il lungo viaggio dell’uomo. L’odissea della nostra specie – Longanesi – 2006 – pag. 220
Nota 33) Luigi Luca Cavalli Sforza – Geni, popoli e lingue – Adelphi – 1996 – pagg. 211 e 235
Nota 34) William F. Warren – Paradise Found. The Cradle of the Human Race at the North Pole – Fredonia Books – 2002 (ristampa anastatica dell’edizione 1885)
Nota 35) Silvano Lorenzoni – Il Selvaggio. Saggio sulla degenerazione umana – Edizioni Ghénos – 2005 – pagg. 45 e 104
Nota 36) Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 154
Nota 37) Arthur Branwen – Ultima Thule. Julius Evola e Herman Wirth – Edizioni all’insegna del Veltro – 2007 – pag. 42
Nota 38) Julius Evola – Thule (in “Corriere Padano” – 13/1/1934) – Articolo ora presente ne “I testi del Corriere Padano” (Edizioni di Ar, 2002) e nel Quaderno “Il Mistero Iperboreo. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970” (a cura di Alberto Lombardo, Quaderni di testi evoliani n. 37, Fondazione Julius Evola, 2002)
Nota 39) Franz Boas – L’uomo primitivo – Laterza – 1995 – pag. 89
Nota 40) Hans F.K. Gunther – Tipologia razziale dell’Europa – Edizioni Ghénos – 2003 – pag. 97
Nota 41) Mario Giannitrapani – Paletnologia delle antichità indoeuropee. Le radici di un comune sentire (parte 1) – in: I Quaderni del Veliero, n. 2/3 – 1998 – pag. 257
Nota 42) Adriano Romualdi – Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 145
Nota 43) Julius Evola – Sintesi di dottrina della razza – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 75
Nota 44) Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pagg. 152/153
Nota 45) Julius Evola – L’ipotesi iperborea – in: Arthos, n. 27-28 “La Tradizione artica” – 1983/1984 – pag. 7
Nota 46) Herman Wirth – Introduzione a “L’aurora dell’umanità” – EFFEPI – 2013 – pag. 35
Nota 47) AA.VV. (a cura di Onorato Bucci) – Antichi popoli europei. Dall’unità alla diversificazione – Editrice Universitaria di Roma-La Goliardica – 1993 – pag. 46
Nota 48) Marc Eemans, “Herman Wirth e la preistoria prima degli Indoeuropei”, Orion, n. 61, ottobre 1989
Nota 49) Gaston Georgel – Le quattro Età dell’umanità. Introduzione alla concezione ciclica della storia – Il Cerchio – 1982 – vari accenni sparsi tra le righe in diverse pagine
Nota 50) Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 154
Nota 51) Michel Brezillon – Dizionario di Preistoria – Società Editrice Internazionale – 1973 – pag. 54
Nota 52) Marco Zagni – Archeologi di Himmler – Ritter – 2004 – pag. 49
Nota 53) Gabriele Zaffiri – Alla ricerca della mitica Thule – Editrice La Gaia Scienza – 2006 – pag. 78
Nota 54) Julius Evola – I saggi della Nuova Antologia – Ar – 1982 – pag. 26
Nota 55) AA.VV. (a cura di Onorato Bucci) – Antichi popoli europei. Dall’unità alla diversificazione – Editrice Universitaria di Roma-La Goliardica – 1993 – pag. 52
Nota 56) Pia Laviosa Zambotti – Le più antiche civiltà nordiche ed il problema degli Indo-Europei e degli Ugro-Finni – Casa Editrice Giuseppe Principato – 1941 – pag. 271
Nota 57) Paolo Ettore Santangelo – L’origine del linguaggio – Bompiani – 1949 – pag. 23
Nota 58) Adriano Romualdi – Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 31
Nota 59) Gabriele Costa – Le origini della lingua poetica indeuropea. Voce, coscienza, transizione neolitica – Olschki Editore – 1998 – pag. 257
Nota 60) Giorgio Locchi – Prospettive indoeuropee – Settimo Sigillo – 2010 – pag. 23
Nota 61) Iaroslav Lebedynsky – Gli Indoeuropei: fatti, dibattiti, soluzioni – Jaca Book – Milano – 2011 – pag. 120
Nota 62) Bal Gangadhar Tilak – La dimora artica nei Veda – ECIG – 1986. A pag. 25 l’autorevole esponente indù sottolinea come la scala nella quale si pone non sia quella delle origini umane in senso ampio (quindi nella prospettiva di un Guénon o di un Warren), mentre a pag. 323 riafferma il limite di soli 10-12.000 anni come orizzonte temporale massimo nel quale considerare le origini prime dei soli popoli indoarii, anzi della cultura vedica più in particolare.
Nota 63) Giulia Bogliolo Bruna – Paese degli Iperborei, Ultima Thule, Paradiso Terrestre – in: Columbeis VI – Università di Genova, Facoltà di Lettere, Dipartimento di Archeologia Filologia Classica e loro tradizioni – 1997 – pag. 168
Nota 64) Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988
Nota 65) Edith Ebers – La grande era glaciale – Sansoni – 1957 – pag. 168
Nota 66) Charles H. Hapgood – Lo scorrimento della crosta terrestre – Einaudi – 1965 – pag. 210
Nota 67) Alberto Malatesta – Geologia e paleobiologia dell’era glaciale – La Nuova Italia Scientifica – 1985 – pag. 78
Nota 68) Aleksandr Dughin – Continente Russia – Edizioni all’insegna del Veltro – 1991 – pag. 52
Nota 69) Giampiero Petrucci – Storegga, lo “Tsunami Artico”: 8.000 anni fa un’immensa frana sottomarina causò un devastante maremoto nel Mare del Nord – Indirizzo internet: http://www.meteoweb.eu/2012/12/storegga-lo-tsunami-artico-8-000-anni-fa-unimmensa-frana-sottomarina-causo-un-devastante-maremoto-nel-mare-del-nord/172527/
Nota 70) Julius Evola – Indirizzi per un’educazione razziale – Edizioni di Ar – 1979 – pag. 82
Nota 71) Giuseppe Acerbi – La questione dei “Tre Diluvi” nella tradizione ellenica – in: Algiza, n. 9 – Gennaio 1998 – pag. 13
Michele Ruzzai
Gruppo Facebook “MANvantara. Antropologia, Ethnos, Tradizione”
Email: michele.ruzzai@libero.it
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