Fabio Calabrese: “Traditio”, “tradizione” viene da “tradere”, cioè tramandare, e qui sorge subito il problema quando si cerca di definire cosa sia la tradizione, infatti, da coloro che sono vissuti prima di noi sono stati tramandati fino a noi complessi di idee e visioni del mondo molto diverse e in conflitto le une con le altre. Occorre operare una selezione delle tradizioni, e per farlo è necessario ricorrere a un criterio diverso dal semplice fatto che determinate idee sono state tramandate fino a noi.
A me sembra che i sostenitori di quello che possiamo chiamare il tradizionalismo integrale, quello proposto da Julius Evola e René Guenon, e i tradizionalisti cattolici abbiano due concetti di tradizione non solo diversi, ma incompatibili, o se vogliamo, che chiamino con lo stesso nome due cose completamente diverse. Per coloro che si riconoscono nella prima di queste due concezioni, la tradizione implicherebbe una sorta di religiosità primordiale (o addirittura una rivelazione o un ancestrale corpus di dottrine) che sarebbe alla base della spiritualità di tutti i popoli e di tutte le culture, di tutte le religioni storiche”.
Michele Ruzzai: “La mia personale impostazione culturale mi orienta senz’altro verso questa prima interpretazione del significato “Tradizione”, ovvero come quello di una “fonte” comune – Primordiale, appunto – che, in un’ottica di “Unità trascendente delle religioni” (come definita da Frithjof Schuon) ha fornito linfa vitale a tutti i corpi dottrinari successivi; ciò però non implica, ovviamente, che tutte queste “vie” abbiano mantenuto tra loro lo stesso grado di approssimazione alle Verità metafisiche dell’inizio – dovendo necessariamente sottostare all’azione disgregatrice del Tempo – ma che alcune si siano mantenute più pure e relativamente meno alterate e deviate di altre.
Fabio Calabrese: “Per il pensiero cattolico, invece, la tradizione sarebbe semplicemente una specie di commento che accompagna la rivelazione scritturale, una concezione non molto diversa, mi pare, rispetto a quella che è la sunna nell’islam, con due implicazioni: che essa deve in ogni caso cedere il passo di fronte alle “scritture”, e che comunque tutto quel che precede la rivelazione cristiana è per costoro privo di valore”.
Michele Ruzzai: “Non posso dire di conoscere precisamente i termini in cui, chi decide di intraprendere una via cristiana, si pone nei confronti del concetto di “Tradizione Primordiale”. E’ comunque evidente che per costoro l’avvento del Cristo rappresenta un evento cruciale, alla luce del quale tutta la storia precedente non rappresenta che una sorta di “preparazione”; un approccio che, a mio modesto parere, sembra tuttavia incongruo nell’ottica – appunto – di un processo generale di “Caduta” da un “più” verso un “meno”. In termini genericamente “tradizionalisti” un discorso forse simile si può applicare all’Islam, che dai seguaci viene definito come “il sigillo della profezia”, in pratica come un compimento definitivo e l’ultima rivelazione data all’uomo, quindi, per certi versi, una sorta di “ultima, definitiva, parola” in fatto di realizzazione spirituale. Non dimenticherei però le parole di Evola (in “Rivolta contro il mondo moderno”, capitolo “Tradizione e antitradizione”) sull’Islam quale percorso “superiore non solo all’ebraismo ma alle credenze che conquistarono l’Occidente”, riferendosi in particolare alla forma sciita che avrebbe ripreso, sotto nuova veste, i temi fondamentali della precedente spiritualità persiana, e quindi indoeuropea” (forma sciita, tra l’altro, ben indagata dall’opera dell’orientalista francese Henry Corbin).
Fabio Calabrese: “Poiché esiste questo equivoco terminologico, e molti sembrano incapaci di capire che qui non abbiamo a che fare con due forme di pensiero simili, ma con due visioni del mondo antitetiche, ecco che non viene a essere per nulla misterioso il fatto che alcuni siano passati dal campo del tradizionalismo integrale a quello cattolico, che ha dalla sua il fatto di potersi appoggiare a una struttura concettuale dogmatica e a un’organizzazione gerarchica. Costoro non si rendono conto che tale “svolta” non è un approfondimento ma un’abiura”.
Michele Ruzzai: “E’ un’abiura anche alla luce delle parole piuttosto chiare che Evola aveva espresso nei confronti del cristianesimo, una forma “monca” (“tradizionalisti a metà”, disse, nella migliore delle ipotesi), per cui, a mio modesto parere, definirsi cristiani ed evoliani appare un’affermazione piuttosto contraddittoria”.
Fabio Calabrese: “A mio parere, un esempio di approccio corretto alla comprensione di ciò che si deve intendere per tradizione può essere rappresentato dallo scintoismo giapponese. Lo scintoismo giapponese è, forse insieme solo all’induismo (il che non è poi tanto poco, dato che insieme le due fedi superano il miliardo di esseri umani) una cultura-religione che ancora oggi mostra una forte persistenza di elementi tradizionali, tra l’altro in un Paese come quello del Sol Levante, all’avanguardia nell’evoluzione scientifica e tecnologica. Per un lunghissimo periodo che si perde nella notte dei tempi fino all’arrivo dei missionari buddisti nell’arcipelago nipponico, non ebbe neppure un nome, esattamente come qui da noi in Europa i pagani scoprirono di essere tali solo quando cominciò a diffondersi il cristianesimo, lo ebbe, “Shinto”, quando fu necessario distinguere la vecchia fede dalla nuova arrivata, fino ad allora non era “una” religione, era “la” religione, la religiosità spontanea del popolo giapponese per le sue pittoresche divinità, per gli antenati, per la divinità solare di cui il popolo nipponico si riteneva discendente, per il trono imperiale, l’anima della gente del Sol Levante. “Shinto” cioè tradizione, identità, qualcosa che anche noi in Europa abbiamo un terribile bisogno di riscoprire.
E’ ovvio che noi non pensiamo di convertirci allo scintoismo, cosa che per noi che non siamo giapponesi non avrebbe senso, ma certamente possiamo prenderne spunto per riscoprire il nostro Shinto, cioè la tradizione europea e romano-italica”.
Michele Ruzzai: “Lo stesso si può dire anche per le forme della tradizione indù, così profondamente intrecciate all’ordinamento sociale, basato sulla divisione delle caste – create proprio per mettere in luce le diversità delle varie attitudini umane ed il sentiero più opportuno per approssimarsi ad una realizzazione spirituale secondo le modalità più consone – che non credo sia nemmeno lontanamente pensabile una “conversione” di un europeo ed il suo passaggio a quell’alveo tradizionale, pur di matrice indoeuropea anch’essa”.
Fabio Calabrese: “Qui si comprende bene che ci troviamo in una posizione di svantaggio rispetto ai Giapponesi e agli Indù, perché nel nostro caso, la tradizione va ricostruita, riportata in vita”.
Michele Ruzzai: “Qui però, a mio avviso, si pone un problema di carattere “operativo”, ed è un dubbio che io stesso mi porto dietro da un bel po’. Voglio dire: quanto può essere legittimo un tentativo di questo tipo? Anche a non voler fare della rigida “burocrazia spirituale”, come per certi versi si potrebbe dire a chi ha un’impostazione più “formale-guenoniana” e si cerchi di aprire una via, evolianamente, con le proprie forze, siamo sicuri che il tutto non si riduca ad un tentativo esclusivamente intellettuale ? Ed anche che, non possedendo magari le necessarie qualificazioni spirituali, sulle quali probabilmente solo un rapporto maestro-discepolo riesce a fare piena luce, siamo sicuri che non si ricada in deteriori forme “neopagane” sul tipo “new age”, che più che aprire le porte a forze di ordine sovrumano, lo fanno nei confronti di qualcosa di subumano? Sinceramente è un dubbio che, lo confesso, mi lascia nell’impasse”.
Fabio Calabrese: “Io non dico che questa sia una questione di poco conto, né un dubbio facile da risolvere, tuttavia non vedo alternative al procedere in questa direzione, perché la nostra tradizione è stata estinta, spesso col ricorso a metodi di brutale ferocia da parte del cristianesimo. Questo esempio ci fa anche comprendere che il cristianesimo non è e non può esseretradizione, poiché Shinto è sinonimo di tradizione e del pari significa identità, radicamento nel proprio ethnos, continuità con gli antenati, tutti concetti che il cristianesimo, dottrina cosmopolita che sta alla base di tutti i posteriori movimenti sovversivi, nega recisamente.
I tradizionalisti cattolici – penso in particolare a certe affermazioni di Mario Polia alle quali ho replicato su “Ereticamente” – danno grande valore a una presunta continuità di carisma che si trasmette attraverso le generazioni a partire dagli eventi fondanti della loro religione”.
Michele Ruzzai: “Direi però che ciò non è valido solo in ambito cristiano, ma più in generale per il tradizionalismo di ispirazione soprattutto guenoniana, forse con un certo eccesso dal punto di vista formale, per cui le “strutture” possono apparire quasi più importanti del “contenuto”, ma tuttavia in un contesto in cui, a mio avviso, non è di secondaria importanza il fatto di una “catena” ininterrotta che può aver portato sino a noi, magari come “rivoli” ridottissimi, o un sotterraneo fiume carsico, una vera influenza spirituale vivente. E’ il dubbio che avevo espresso poc’anzi”.
Fabio Calabrese: “Qui si apre un discorso importantissimo, che è quello della sopravvivenza fino a noi del paganesimo, ossia della tradizione romano-italica in forma esoterica. Tuttavia, poiché possiamo basarci soltanto su tutto ciò che ha un minimo di certezza, operativamente dobbiamo partire dal presupposto che noi non abbiamo questa continuità grazie ai cristiani che hanno interrotto con la forza la tradizione romano-italica, il che da all’argomentazione avanzata da Polia e altri che loro possono vantare un carisma ininterrotto attraverso i secoli e noi no, un sapore vagamente ricattatorio-mafioso. A mio parere, costoro danno a questo argomento un’importanza assolutamente spropositata, infatti, se “il carisma” che si trasmette attraverso i secoli è semplicemente quello di una setta eretica ebraica, è come credere di possedere un tesoro perché si fa la guardia a una scatola vuota o piena di immondizie.
Ultimamente, un bell’articolo di Giuseppe Arminio De Falco su “Ereticamente” ha riaperto la riflessione sul rapporto fra etica e religiosità-tradizione. Io a questo riguardo, mi sento incline a seguire l’opinione di Silvano Lorenzoni secondo il quale quello di far discendere la morale dalla religione è un tratto tipico del pensiero abramitico e porta dritto all’intolleranza e al fanatismo; si tratta infatti di due dimensioni diverse, non sovrapponibili: il rapporto con la trascendenza è personale e riguarda la “cifra esistenziale” di ciascuno, mentre la dimensione dell’ethos è pubblica e riguarda l’agire dell’uomo come membro della comunità di cui fa parte”.
Michele Ruzzai: “E’ chiaro che l’equazione personale di ciascuno di noi determina in modo fondamentale il tipo di rapporto, e la sua stessa potenzialità, nei confronti dei livelli che trascendono quello umano. E’ anche vero che nessuno dei fattori che compongono questa “equazione” può essere determinato dall’ambiente, dal “pubblico” che ci circonda: io credo che, siccome non nasciamo come una “tabula rasa” ma con delle precise caratteristiche che ci differenziano l’uno dall’altro (sia in termini fisici che, nondimeno, psichici), queste alla fine rimangono per tutta la vita così come sono, anche se, la gran parte delle volte, a livello di mere potenzialità inespresse. Su questo punto, quindi, tutto ciò che è “ambiente” dovrebbe a mio avviso evitare di esercitare una “pressione” morale ed attiva sulla persona, ma mantenersi piuttosto sulla funzione di non ostacolare il passaggio “dalla potenza all’atto” delle attitudini individuali. Quando, un tempo, le comunità umane erano ancora relativamente sane ed etnicamente omogenee, questo “ambiente” già naturalmente svolgeva tale azione – mi si conceda questa espressione – “positivamente neutra” e la società si stratificava in modo armonioso e coerente con le varie disposizioni personali. Il problema, oggi, è che, anche a prescindere dal particolare tema etnico (diretto verso una decisa eterogeneizzazione, che poi verrà seguita da una ri-omogeneizzazione, livellata però verso il basso), già a livello culturale vi è una quantità di fattori che, come un continuo e martellante “rumore di fondo”, non fanno altro che disturbare ogni nostra spinta verso un’azione interiore. Quindi, più che adottare dei precetti attivi, bisognerebbe trovare la maniera di neutralizzare gli agenti negativi per preservare quello spazio comune di convivenza sociale non soggetto al monopolio di nessun “fanatismo”: un’operazione certo non semplice e costantemente esposta all’insidia di ricadere in una sorta di “relativismo morale” (ad esempio, con spinte verso matrimoni tra omosessuali, o peggio ancora adozione di bambini; ma anche verso la liberalizzazione degli stupefacenti, o quello della prostituzione, ecc…), ma tuttavia da provare ad affrontare secondo, a mio avviso, un’unica possibile ottica attuativa: quella della “responsabilità” personale. Qualsiasi comportamento rimanga indissolubilmente ancorato al piano privato può essere ammesso (in teoria fino al gesto più estremo) ma ogni cosa comporti un impatto negativo sul “pubblico” dovrebbe essere controbilanciata, per il singolo che se ne rende protagonista, da un “costo” che, per così dire, lo “neutralizzi” verso la Comunità. Tutto ciò in termini assolutamente generali, poi è chiaro che il discorso qui si apre verso tante possibili declinazioni”.
Fabio Calabrese: “Io negli ultimi tempi ho dedicato molto spazio a evidenziare che le origini della civiltà sono europee e connesse a un preciso tipo umano che si può definire “caucasico”. A mio parere la sopravvalutazione del ruolo del Medio Oriente semitico alle origini della civiltà umana, deriva proprio dal fatto che la nostra percezione della storia risente ancora in modo molto forte dell’impostazione cristiano-biblica. A mio parere, questo lavoro di ri-europeizzazione delle nostre radici, di riscoperta del carattere europeo della matrice della nostra civiltà, rientra in pieno nel progetto di rifondazione e rinascita di una tradizione romano-italica che come tale, necessariamente, non può essere altro che europea”.
Michele Ruzzai: “Io credo che l’unione tra la stirpe e la forma sacrale che storicamente l’ha accompagnata è certamente la migliore delle possibilità in termini spirituali: c’è “ordine” e tutto collima in termini tradizionali. Ho però un dubbio (come vedi ho ben poche certezze su queste tematiche…). La stirpe, in rapporto all’individuo, esplica una funzione, a mio avviso, di tipo “materno”: è la vita, il “bios”, l’elemento quantitativo, la forza che ci genera ed attraverso la quale, siamo quello che siamo in questo piano dell’esistenza. Lo Spirito invece è un che non riducibile alla quantità, è qualcosa di ordine diverso, qualitativo, quindi, io penso, non dipendente dal “materno”. In altre parole è il Padre. Il caso sopra indicato, in cui vi è unione tra stirpe e forma sacrale “storica”, è quello in cui si verifica un armonioso accordo tra Padre e Madre. Ma, mi chiedo, non potrebbe forse darsi il caso in cui il Padre “chiami” l’individuo (visto che “lo Spirito soffia dove vuole”) a prescindere dalla “volontà” più o meno necessitante, della Madre, delle forze della Natura e della Razza? Soprattutto in questi tempi oscuri di confusione e di rivolgimento? Certo, è fuori discussione l’enorme suggestione che su di me esercita l’ipotesi di un ritorno alla tradizione della stirpe ario-romana; ma nondimeno posso dimenticare che, ad esempio, se di stirpe devo parlare, forse nel mio caso è più corretto rifarmi agli antichi “Histri”, di probabile area illirica (portatori della Cultura dei Castellieri e forse di ascendenza ancora precedente, neolitica), che con i Romani hanno battagliato e dai quali sono stati….massacrati. Ovviamente non mi risulta vi sia molto materiale per poter ricostruire “operativamente” la via religiosa calcata dagli Histri (ammesso, come dicevo sopra, che questa operazione sia “spiritualmente” lecita), quindi, su questo, la “Madre” naturale non può dirmi più nulla. Quindi, davanti a tutto ciò, ascolto la “Madre” adottiva (la stirpe Romana) o tendo l’orecchio a cercare di capire cosa mi può dire il Padre (finora piuttosto silenzioso)?”
Fabio Calabrese: “E’ un’analisi molto interessante, e senz’altro meritevole di essere ulteriormente approfondita: “il Padre”, lo Spirito e “la Madre”, la natura. Peraltro, però mi sembra di dover rilevare che la contrapposizione fra natura e cultura, fra innato e appreso, è tipica del pensiero democratico e inizia con Rousseau, ed è stata apertamente disapprovata da un insigne scienziato come Konrad Lorenz: “L’uomo è PER NATURA un essere culturale”. Soltanto la sua base biologica consente all’uomo di essere un produttore di cultura, e questa contrapposizione tanto cara ai democratici è letteralmente priva di senso, con l’implicito ma ovvio corollario che poiché non tutti gli uomini e non tutti i gruppi umani hanno la stessa base biologica, lo stesso patrimonio genetico, non tutti hanno accesso agli stessi livelli culturali né alle stesse vie verso la spiritualità. In questo modo viene a crollare uno dei pilastri teorici fondamentali, se non il pilastro fondamentale della democrazia”.
Michele Ruzzai: “Certo, questa considerazione è giustissima qualora consideriamo la cultura nel suo aspetto meramente umano e, direi, “profano”. Ma il mio riferimento al Padre è soprattutto verso un qualcosa che non è tanto prodotto dalla cultura, e quindi in questi termini sicuramente condizionato dalla natura, quanto piuttosto come il produttore di un influsso che entra “dall’alto” e genera, nell’ambito di ciò che definiamo genericamente come “cultura”, il suo aspetto più elevato. Quindi il “Sacro” che, anche a non volere scomodare la Metafisica e rimanendo su un terreno più antropologico, appare come una struttura-base e “primaria” del fenomeno umano, per utilizzare a grandi linee l’approccio di Mircea Eliade. La cultura copre un’estensione vastissima, ma fondamentalmente è la “risultante” di un incontro tra un impulso verticale (paterno e “sovrumano”) ed una corrente orizzontale (materna ed “animale”, in senso lato), portatrice del “bios”, ma anche di tutta quella serie di istintualità, atavismi e psichismi “necessitanti”. Il modo in cui i vari gruppi umani vivono e rielaborano le molteplici rifrazioni di questo incrocio determina come conseguenza, a mio avviso, le possibilità spirituali e, a scendere, la cultura nei suoi aspetti man mano meno elevati, fino addirittura a condizionare in una certa misura la stessa fisicità. Perdere sempre più il contatto con la “fonte primordiale” sbilancia progressivamente l’Uomo verso la bestialità, evento che può essersi verificato innumerevoli volte in cicli precedenti e purtroppo temo che avverrà ancora, visti i tempi che corrono…”.
Fabio Calabrese: “I tempi nei quali viviamo sono indubbiamente duri, ci sono pochi dubbi sul fatto che stiamo vivendo gli esiti terminali del Kali Yuga, tuttavia ci sono alcuni segnali incoraggianti, a cominciare dal rinato interesse per Julius Evola testimoniato dai convegni svoltisi in occasione degli ottant’anni dalla pubblicazione di Rivolta contro il mondo moderno, sia quello tenuto a Roma il 7 giugno, sia quello più importante organizzato a Napoli il 21 giugno da noi di “Ereticamente”, dalla rivista “Il cervo bianco” e da altri gruppi, dove si è messo in luce come relatore il nostro Luca Valentini. In ogni caso, come Evola aveva predetto, vi sono e vi saranno sempre uomini che rimangono in piedi in mezzo alle rovine”.
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