DISTANZIAMENTO SOCIALE, DISTANZIAMENTO DALLA COMUNITA’
In tempo di menzogna universale, la verità è un atto rivoluzionario. Non si finisce di citare Orwell in epoca di post-verità, cioè autentica menzogna. Meraviglia molto che la maggioranza, persuasa di essere istruita, riflessiva, intelligente e smagata se le beva tutte. Certo, il potere vigila instancabile, ripete ogni giorno settanta volte sette ciò che è ufficialmente verità, ma proprio questa coazione a ripetere, il carico ossessivo di parole e immagini tutti identiche dovrebbe insospettire. Più ancora al tempo di #iorestoacasa, del distanziamento sociale, condizioni che sembrerebbero favorire la riflessione. Non è così. Domina la paura, accuratamente preparata, diff
Chi non ci sta non ha capito nulla delle magnifiche sorti e progressive dell’umana gente. Più probabilmente è in malafede, vede il marcio dove c’è la benefica azione dei Superiori che lavorano per noi. Stupisce assai che in democrazia – dicono si chiami così, potere del popolo, il regime in cui viviamo –in cui tutti hanno diritto di parola, di libera associazione e di diffondere idee e opinioni, sia tanto accanita la caccia ai dissidenti. Se aprono bocca, sono accusati di complottismo, ignoranza, populismo, diffusione di bugie. Hanno anche tratto dal vocabolario della lingua franca, il globish, l’inglese globalista, il concetto di fake news, la falsa notizia. Falsa in quanto non approvata da lorsignori. Ricordate la stampa religiosa? Può essere diffusa solo con l’autorizzazione della chiesa. Il sigillo è una parola latina, un imperativo che sa di generosa concessione: imprimatur, si stampi! L’imprimatur postmoderno non è a carico dei preti, ma di un clero antico, i funzionari del potere nell’educazione, nell’informazione, nell’intrattenimento. Imprimatur: la verità, la “pravda” certificata dal Potere, dai padroni universali. Ma se i complottisti, i dissidenti, gli ignoranti, i cattivi insomma, dicono solo sciocchezze, perché non lasciarli dire? Si squalificheranno da soli, saranno il tempo e la realtà a fare giustizia sino a renderli ridicoli. Dovranno tacere per assenza di pubblico. Se hanno torto, fastidiose zanzare dall’inutile ronzio, perché li perseguitate? Perché nominate commissioni per bloccarli, promulgate leggi liberticide, chiudete siti Internet, cancellate voci libere sui nuovi media, inventate titoli di reato legati al pensiero, voi che siete il fiore della società aperta, voi paladini della democrazia? Forse non è così sbandata la banda di Cattivik, forse avete paura di qualche verità, di altarini scoperti, pensieri non conformi. Eppure non dovrebbero esserci “pensieri non conformi” in regimi di libertà, solo idee sulle quali dibattere. Se siamo una banda di squinternati, perché non ci lasciate liberi? Mettiamola così: come Aldo Palazzeschi, in fondo vogliamo solo divertirci. Che male facciamo, a voi padroni di tutto, che controllate tutto, sapete ogni cosa? Il re, scriveva Shakespeare nell’Enrico V, “prende nota di tutte le intenzioni con mezzi che nemmeno immaginate”. All’epoca era la delazione, oggi si tratta dell’apparato di sorveglianza elettronica più grande della storia. Ma “il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente. Bubububu, fufufufu, Friu!Friu! Ma se d’un qualunque nesso son prive, perché le scrive quel fesso? (…). Lasciate pure che si sbizzarrisca, anzi è bene che non la finisca.Il divertimento gli costerà caro:gli daranno del somaro.” Il poeta futurista terminava con uno sberleffo e una verità triste: “i tempi sono molto cambiati, Gli uomini non dimandano più nulla dai poeti, E lasciatemi divertire!”. Prendiamolo come un divertissement rischioso, fare “reinformazione”, ovvero indirizzare su binari diversi l’informazione.
Vogliamo chiamarla “diceria dell’untore”, un titolo pretenzioso per una serie di interventi che guardano la realtà da un diverso punto di vista. Diceria dell’untore è uno splendido romanzo, l’opera di un grande scrittore siciliano, coltissimo e appartato- tutta la vita nella natia Comiso- Gesualdo Bufalino. Scritto in prosa alta e tersa, narra la storia del complesso ritorno alla vita del giovane protagonista che sta superando un contagio – la tubercolosi- in un ospedale, la Rocca, che diventa universo, palestra, metafora dell’esistenza, come la Montagna Incantata di Mann. E’ un po’ untore, in quanto ammalato in via di guarigione e i racconti, le storie e le esperienze sono, appunto, “dicerie”, narrazioni. La nostra diceria è la reinformazione; vasto programma, avrebbe risposto De Gaulle al giovane che gli chiedeva di mandare a morte i cretini. Ma accettiamo su di noi la “diceria” di complottisti e, se piace al potere, anche quella di cretini. Ci basta dire la nostra. Un personaggio della Diceria di Bufalino è il Gran Magro, il direttore della clinica, un anziano, scorbutico nobiluomo che crede in Dio perché “di unagran colpa, deve esserci un grande colpevole”. E’ la nostra tesi, non rispetto al creatore, ma di fronte al potere, che ha, nei nostri confronti, colpe terribili. Cerchiamo di rivelarne alcune, nella certezza che i padroni universali possono farci credere tutto o quasi, ma, come il re della fiaba, restano nudi. In tempo di virus, quando il Potere ha svelato la sua faccia peggiore, vale più che mai l’aforisma di Lord Acton, il politico cattolico inglese di nascita napoletana: il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente. Non vi è dubbio che nella fase presente, viviamo sotto un regime assoluto, che decide e legifera per decreti amministrativi. La libertà è sospesa, più e prima della procedura democratica. Lo stesso Acton, simbolo di un liberalismo etico tramontato da tempo, scrisse: “La prova più sicura per giudicare se un paese è davvero libero è il grado di sicurezza goduto dalle minoranze.” Se sostituiamo la parola minoranza con quella di oppositore, o dissidente, corre un brivido lungo la schiena.
La prima diceria dell’untore riguarda il concetto di distanziamento sociale. Non ci interessa qui riflettere sulla violenza esercitata sulla natura di “animale politico” dell’uomo, né esprimerci sul rischio che la distanza divenga la normalità in una società che rinnega se stessa. Lo faremo, è l’appuntamento per un’altra “diceria”. Ci preme sottolineare l’intuizione di un’amica: esiste il rischio che, soggettivamente e come comunità, ci stiamo distanziando dal cervello, ovvero dalla retta ragione. Il Covid19 ci fa regredire a puro istinto. Accettiamo tutto senza fiatare e senza riflettere, in nome dell’istinto di sopravvivenza individuale. Ha lavorato il Potere al tempo del contagio! Osserviamo dal balcone la coda del supermercato, quella della farmacia, del ferramenta e del fornaio. Decine e decine di atomi silenziosi a rispettosa distanza (un metro, signora, potrebbe contagiarmi), con mascherine variopinte. Turba non solo il silenzio, ma la rassegnazione, il fatalismo e la latente ostilità nei confronti dell’altro, che spesso è un vicino, un conoscente, un amico, perfino un parente. No, oggi è l’Altro, il possibile untore da distanziare, a cui chiedere conto del perché è lì, eventualmente denunciare. Il distanziamento sociale diventa disconnessione dall’intelletto, dall’anima razionale e comunitaria. Il Sé diventa un semplice fatto biologico. Preoccupa l’ossimoro che sperimentiamo: una società sociopatica malata di agorafobia, in attesa di ordini superiori: fase uno, fase due. Il distanziamento dal cervello parte dai “superiori”, i governanti chiamati l’emergenza a gestire in conto terzi, il Potere oligarchico sovrastante. Tra le esigenze primarie vi sono i bisogni del cane, ma non la Messa. Se ne sono accorti perfino i vescovi. Addirittura grottesca è l’apertura alle visite ai familiari. La suocera o il cugino di secondo grado possono essere incontrati o no? E poi, chi è famiglia nella società liquida che ha abolito i legami naturali? Ilgoverno, da consumato baro, tira fuori l’asso nella manica e chiarisce: possono ricongiungersi, previa autocertificazione (comandano loro, giudicano e decidono loro) i titolari di “legami stabili”. Chi giudica la stabilità, chi conosce l’intensità di un legame, di sangue o di elezione, nella società gassosa? Si rivoltano gli omosessuali e non hanno tutti i torti: se per me, sesso a parte, fosse più importante rivedere, comunicare con un caro amico, o avessi un profondo bisogno di rivedere un luogo?
Spaventa l’aria di gregge in attesa paziente della pastura e dell’apertura dello stabbio dei concittadini in fila, la tristezza muta, volti ed espressioni nascosti dalla mascherina, le poche mani strette nel saluto invisibili sotto i guanti. Turba l’incredibile incapacità decisionale del potere politico. Nominano eserciti di “esperti” per qualsiasi cosa, si nascondono dietro i pareri, spesso difformi, dei nuovi sapienti, gli stregoni del virus. Gli stessi “esperti” nominati dal governo, le task force più virali del virus, esitano a loro volta. Vanno capiti: non sanno, suppongono, ipotizzano, dunque producono decisioni di basso profilo. Hanno una paura totale del dopo, quando riprenderà il potere formidabile della magistratura inquirente. Nell’era della sorveglianza, un governo che ci trascina in catene se osiamo dubitare della sua democrazia, ha deciso che nei nostri telefoni siano introdotti i Trojan, gli spioni elettronici. Basta con la notitiacriminis, è il tempo della ricerca criminis ad personam. Non deve essere facileprendere decisioni in questo clima. La gente comune, bloccata dalla paura, non osa eccepire. Al trattamento zootecnico che subisce da due mesi non reagiscono gli stessi pronti a rivendicare ogni sorta di diritti, a fare scenate o liti da pollaio in ogni riunione, discussione o assemblea. Si è portati a ringraziare il potere, che ci conosce assai bene e ci fa fare ciò che gli aggrada. Diverte l’ira episcopale contro il divieto di culto. Che cosa vi aspettavate, buoni padri? Quanto ai funerali, si potranno celebrare frettolosamente, con quindici partecipanti. Il sedicesimo contagia. Nessun problema per chi ha festeggiato il 25 aprile; ha fatto benissimo, è la loro Italia, sapevano che nessuno avrebbe fiatato, per le bande di giovinastri, eccetera eccetera. Divieti e confinamento valgono per la gente normale, terrorizzata e ridotta a gregge mansueto desideroso dell’ovile, grata al cane e al pastore.
Non è strano che in questi mesi bui e bastardi si sia levata solo la voce di alcuni filosofi, la categoria più inutile della terra, secondo il pensiero strumentale. Alcuni non hanno distanziato e disconnesso il cervello. A loro è andata l’indignazione dei piani alti, del clero accademico e mediatico e la sovrana indifferenza popolare. In fila, troppo occupata a sorvegliare le distanze, la massa ha disconnesso senza problemi, in tempo reale, il pensiero critico, il pensiero tout court, presa dall’istinto di conservazione. Nessun interesse per Giorgio Agamben che chiede di differenziare bios, la vita vera fatta di corpo e intelletto, da zòe, il mero fatto di respirare. Ancor meno valgono le riflessioni di Paolo Becchi, filosofo del diritto di lungo corso. Serve a qualcuno ricordare che Tucidide, padre della storia e testimone della peste di Atene, ci ha impartito dal fondo dei secoli la lezione per cui più che la peste in sé, a distruggere la città, più che la peste in sé, fu la paura? Gli uomini “sopraffatti dalla disgrazia e non sapendo quale sarebbe stata la loro sorte, cadevano nell’ incuria del santo e del divino. Tutte le consuetudini che prima si seguivano nel celebrare gli uffici funebri furono sconvolte. Anche in altri ambiti il morbo dette inizio, in città, a numerose infrazioni della legge”.
Lo scoraggiamento, il panico, portò a trascurare una sepoltura dignitosa ai morti e dimenticare le leggi e i costumi che avevano tenuto uniti i cittadini. Giambattista Vico nella Scienza Nuova scopre che l’origine della civilizzazione è la paura di un evento naturale, il tuono. Il fatto che gli uomini sentano un pericolo comune induce a superarlo insieme: nessun distanziamento. Dopo il Vico, Montesquieu spiegò che l’uomo incivilito teme la tirannia. La risposta fu la divisione dei poteri, divenuta principio fondamentale degli Stati moderni. Dunque, non distanziamoci gli uni dagli altri, connettiamoci all’intelletto e prendiamo atto che ci stanno vittoriosamente trascinando in una tirannia. Attorniati da cosiddetti esperti, gente convinta di sapere tutto, armata di superbia ed arroganza, convinta di poter dettare legge, estendono l’abuso di potere attraverso il panico popolare che ci fa regredire allo stadio primordiale, o, come avrebbe detto Levi-Bruhl, prelogico.Tra ordinanze, atti amministrativi che inchiodano più di sentenze di una corte suprema, forse ci permetteranno di passare dallo stato di schiavi volontari agli arresti domiciliari (qualcuno ricorda La Boétie?) a popolo in libertà parziale e vigilata. Dobbiamo perfino ringraziare, come Giandomenico Fracchia, il personaggio di Paolo Villaggio, il poveruomo sottomesso, pronto a dire al suo persecutore “come è buono lei!”. I nuovi tiranni al governo per conto delle oligarchie, contornati da nugoli di “esperti “prezzolati, sono gli unici a sapere che cosa è bene per noi. La nostra civiltà è nata in Grecia: laggiù, in secoli straordinari, è stato detto e pensato tutto ciò che costituisce la civiltà straordinaria di cui siamo figli degeneri. Tucidide aveva ragione: la partita si gioca sulla paura. Un eccesso di temerità può far perdere la vita a qualcuno, ma la paura che ci hanno instillato come un veleno sottile ci sta facendo perdere la libertà elementare di uscire di casa e incontrare qualcuno, discutere, litigare, confrontarci,senza “distanziamento”. Interessa a qualcuno, o è solo una diceria dell’untore?
Roberto Pecchioli