Quando nel 2014 Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – scrisse: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”, perché occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico, furono in pochi a prenderlo sul serio e nessuno, tra i grandi media mainstream, rese partecipe la più ampia platea del pubblico mondiale di tali affermazioni.
Era quello l’anno in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania, dell’Estonia e dei fantocci al potere a Bruxelles, come epilogo delle violenze innescate fin dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Timoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale ucraina.
In quello stesso anno, Paul Craig Roberts ex Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo, aveva scritto un articolo intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).
Contemporaneamente, Wall Street già scommetteva sulla terza guerra mondiale e tanti analisti erano pronti a festeggiare in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettavano dalla guerra, essendo evidente che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. E infatti, l’insistenza con cui il tema veniva sollevato indica che l’arrivo della tempesta tutti costoro lo avevano sentito in anticipo.
Altri, infine, osservavano che il mondo era attraversato da una “guerra delle valute” che stava diventando globale, in quanto le nazioni svalutavano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni e molti si accorsero che la nuova banca, creata dai Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituiva una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avveniva in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa.
BRICS è un acronimo usato in economia internazionale per riferirsi a Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Questi paesi, che condividono una situazione economica in via di sviluppo e abbondanti risorse naturali strategiche e sono stati caratterizzati da una forte crescita del prodotto interno lordo (PIL) e della quota nel commercio mondiale, si erano proposti di costruire un sistema commerciale globale, attraverso accordi bilaterali che non fossero basati esclusivamente sul petroldollaro.
Porre fine al monopolio del dollaro come valuta internazionale, per frenare l’aggressività militare degli Usa, che per decenni ha messo in pericolo la stabilità geopolitica del mondo, è l’obiettivo di Russia e Cina che guidano i Brics verso la de-dollarizzazione del pianeta, allo scopo di sottrarre linfa all’apparato industriale-militare statunitense. L’operazione è stata avviata per re-impostare il commercio mondiale, costruendo un’alternativa al dollaro come moneta di scambio e dietro le quinte stava avvenendo qualcosa di veramente importante, di cui solo pochissimi si erano resi conto. Un nuovo sistema di scambio monetario tra le banche centrali dei Brics avrebbe facilitato il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro e il nuovo sistema avrebbe agito anche come sostituto de facto del Fmi, segnando la fine di un’epoca.
Elvira Nabiullina, governatore della banca centrale russa, aveva concertato con Putin l’accordo rublo-yuan con la Banca Popolare Cinese e Sergej Glaziev, consigliere economico di Putin, ha sostenuto la necessità di “creare un’alleanza internazionale di paesi disposti a sbarazzarsi del dollaro per i loro commerci internazionali e a rifiutarsi di continuare a stoccare dollari come riserve valutarie”. L’obiettivo finale sarebbe quello di far ingrippare la macchina-stampa-soldi di Washington che serve ad alimentare il suo complesso militare e industriale, che ha permesso agli Usa di diffondere il caos in tutto il mondo, fomentando le guerre civili in Libia, Iraq, Siria e in Ucraina.
Come scrisse Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’era il rischio che gli Stati Uniti si trovassero trascinati in guerre asimmetriche di valute, in grado di accrescere le incertezze globali.
Del resto molti osservatori si sono chiesti quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro.
Ciononostante, a più di un decennio dai suoi inizi, il progetto Brics continuava e, infatti, il contributo dei cinque Paesi Brics all’economia globale era cresciuto in maniera significativa nel corso dell’ultimo decennio. Dall’altro lato, i volumi di commercio interni al gruppo hanno fatto registrare un’impennata negli ultimi cinque anni, mentre la Ndb ha sponsorizzato 65 progetti per un valore complessivo di oltre 20 miliardi di dollari.
Molti, infatti, consideravano la Ndb – New Development Bank come l’asso nella manica a disposizione dei Brics perché, proprio tramite la Banca, il gruppo avrebbe potuto approfittare dell’occasione rappresentata dalla ricostruzione economica che il Covid-19 renderà necessaria per collocare strumenti finanziari allo scopo di supportare l’emergenza, proponendo una finanza per lo sviluppo improntata a erodere il monopolio occidentale esistente.
Non a caso, pare che nel corso del summit del 17 novembre 2020 i governi dei Brics abbiano dato il via libera alla ammissione di nuovi Paesi membri in qualità di soci della Ndb. Tale ammissione permetterebbe alla Banca di erogare prestiti a Paesi in via di sviluppo, presentandosi come una fonte di supporto economico alternativa alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale, enti fondati sugli accordi di Bretton Woods del 1944 e riconducibili al controllo statunitense.
Sarebbe occorso tempo per verificare se questi sviluppi avrebbero avuto luogo. Certo è che la pandemia aveva aperto uno spiraglio per una nuova fase del progetto Brics. Il gruppo era sorto all’indomani di una crisi, e poteva rafforzarsi in occasione di quella attuale.
Ecco allora che lo scenario della guerra in Ucraina, inquadrato alla luce di queste considerazioni, può assumere contorni differenti e dare luogo a un’interpretazione diversa delle cause, delle mosse e delle urgenze che hanno originato questo drammatico conflitto.
Perché, infatti, rovesciare Yanukovic quando questi aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Shell? Quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia.
Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento di “associazione” all’Unione Europea? Eppure fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato sottoscritto.
Questi interrogativi non avrebbero risposte adeguate se, invece, la fretta con cui Washington ha premuto e Varsavia ha eseguito i suoi ordini, non indicasse l’impellente necessità di agire non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale, col portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino, ricreando a parti invertite uno scenario di scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.
L’accerchiamento militare della Russia, operato mediante una Alleanza che si definisce “difensiva”, non aveva altro scopo che portare all’esasperazione uno scenario che per decenni la Russia aveva considerato come ostile nei propri confronti e che aveva cercato di scongiurare mediante trattati e accordi verbali che prevedevano che, se la Russia rinunciava alla sua egemonia sull’Europa centro-orientale, gli Stati Uniti non avrebbero in alcun modo approfittato di tale concessione per allargare la loro influenza e minacciare la sicurezza strategica russa. Un gentlemen’s agreement mai però formalizzato per iscritto e negli anni pervicacemente smentito dalle varie amministrazioni di Washington e dai loro terminali europei, ultimo in ordine di tempo il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg.
Per questo oggi, con una guerra rovinosa operata per interposta Ucraina e con lo strangolamento economico finanziario attuato dall’Occidente, il progetto dei Brics appare più lontano e improponibile, con la Russia indicata come uno Stato canaglia e, come al tempo della rivoluzione bolscevica, e più di recente nel 1998, ridotta in difficoltà nell’onorare il suo debito estero in valuta. Anzi, i soldi in cassa ci sarebbero ma le sanzioni occidentali e l’impossibilità di accedere al circuito internazionale dei capitali di fatto impediscono il servizio del debito pubblico in valuta forte.
Alcune delle obbligazioni russe denominate in dollari e in euro contengono una clausola di ripiego che permette il rimborso in rubli, ma non tutti i debiti di Mosca sono di questo tipo e, perdurando tale situazione, Fitch potrebbe declassere ulteriormente il rating di credito della Russia a “default limitato”.
Per questo, osservando con attenzione, dietro ai morti innocenti e alle bombe di Kiev, si può scorgere anche il ghigno soddisfatto di alcuni grandi usurai internazionali.
Enrico Marino
immagine copertina: web
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