La cultura può essere definita come “l’insieme dei valori che determinano le frontiere di un gruppo umano” (Serge Latouche). Si costruisce dunque con riferimento allo statuto di limite: ogni civiltà si è caratterizzata per i limiti che si è assegnata. Tutte, tranne la civilizzazione dell’Occidente contemporaneo. Sfidare i limiti è l’imperativo di quest’epoca. Forzare i confini del possibile, passare il segno, trasgredire nel senso letterale di spingersi più in là. L’andare oltre contemporaneo è l’emblema di un idea di dominio, un modello esistenziale inteso come unico e universale la cui regola è ignorare ogni limite, superare qualsiasi confine, territoriale, culturale, geopolitico, morale, antropologico, simbolico. La resistenza è considerata un’insignificante remora passatista della quale liberarsi. In realtà, come cercheremo di dimostrare, l’obiettivo è consentire alle forze selvagge del mercato e dell’accumulazione di dispiegare tutto il potenziale messo a disposizione da un doppio dominio, finanziario e tecnoscientifico.
E’ una novità assoluta, uno scenario che contraddice millenni di storia delle civiltà umane. La nostra nasce da una precisa cosmogonia, descritta nel Genesi, secondo cui Dio “maschio e femmina li creò”, quindi “prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: tu puoi mangiare da tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare” (Gen, 2,15). Quella conoscenza è il privilegio di Dio usurpato dall’uomo con il peccato originale, il quale altro non è che la volontà di passare il segno, decidere da sé sul bene e il male, la rivendicazione di autonomia morale attraverso la quale l’uomo rinnega la sua condizione di creatura.
La prima trasgressione è l’attentato di Adamo ed Eva alla sovranità di Dio. Non diversa fu la concezione del mito greco. Prometeo è punito per aver rubato il fuoco agli dei. La vendetta di Zeus, scontata dall’umanità intera, è affidare il vaso contenente tutti i mali del mondo a Pandora, che non tarderà ad aprirlo. Prometeo incarna oggi l’ideale del progresso, perfino la rivolta contro il potere, ma in realtà la sua figura è il simbolo della nostra inquietudine rosa dall’incessante desiderio, dalla perenne insoddisfazione. Riflette il tormento, il rovello esistenziale dell’uomo in lotta con la caducità della sua presenza nel mondo. Sarà Goethe a esprimerla in grande poesia nel celebre brano in cui Faust supplica “fermati, attimo, sei così bello”, un grido straziante di angoscia senza speranza. Icaro è punito con la morte per aver tentato ciò che all’uomo non è dato, volare come gli uccelli del cielo.
Ancora più stringente è l’idea di limite nell’Islam, la religione il cui significato sta nell’accettazione attiva della volontà di Allah, la ferma fiducia nel governo divino sulle cose umane, contenuta nel primo dei cinque “pilastri”, la professione di fede. La spiritualità orientale esprime la medesima accettazione del limite sia nell’idea della “via di mezzo” proposta da Budda, sia nell’armonia e organicità del Tao, “la via “, iconograficamente iscritta in un cerchio a sua volta diviso nello ying e nello yang, il bianco e il nero, ciascuno dei quali contiene una parte del suo opposto.
Dante, immenso poeta e grande filosofo, scrisse versi straordinari sulla necessità del limite e l’assurdità di superarlo. “State contenti, umana gente, al quia/ che se potuto aveste veder tutto/mestier non era parturir Maria”, dice Virgilio, simbolo della ragione umana, riguardo l’insufficienza costitutiva della conoscenza umana. Le sue parole, pronunciate con gran turbamento nel Purgatorio, sono precedute da una terzina che è un trattato di teologia e filosofia morale: “matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer la infinita via/ che tiene una sustanza in tre persone.” Parole forti che Dante fece precedere, nel canto XXVI dell’Inferno, da quelle di Ulisse, simbolo della tensione umana verso l’infinito. L’uomo di Itaca esorta i compagni alla scoperta poiché “fatti non foste a viver come bruti, ma a seguir virtute e canoscenza”, ma riconosce che il viaggio oltre il limite è “un folle volo”. Ciononostante il destino dell’uomo – è la lezione di Dante, poeta cristiano – è lo stesso di Ulisse, mettersi “per l’alto mare aperto”, “infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.” Solo l’abbandono, la constatazione che non possiamo “veder tutto” può farci accettare la nostra condizione imperfetta.
Dante ci consegna un’altra verità bruciante, l’arbitrarietà del limite, il cui rispetto si basa sull’idea di trascendenza, sul collocare l’Oltre in una dimensione altra e assoluta. La civilizzazione occidentale moderna è la prima ad aver rinunciato alla trascendenza, per questo non sa e non può riconoscere un limite, accettare una barriera invalicabile. Vani e patetici sono i richiami di diversi intellettuali all’autolimitazione. Uno fu Ivan Illich, che pure era un sacerdote cattolico, con il suo debole richiamo a riconoscere la profondità della crisi dell’uomo moderno accogliendo “il solo principio di soluzione che è offerto: stabilire, per accordo politico, una autolimitazione”. Uguale è la ricetta di Cornelius Castoriadis, per il quale “abbiamo bisogno di eliminare questa follia di espansione senza limite, abbiamo bisogno di un’ideale di vita frugale”, occorre la “padronanza del desiderio di controllo, una autolimitazione.”
Corrette diagnosi e prognosi, del tutto impraticabile la terapia, come curare il cancro con impacchi e tisane. Più penetrante l’analisi di Emile Durkheim, per il quale i bisogni e desideri umani possono essere soddisfatti soltanto se orientati da un’autorità morale riconosciuta legittima, in mancanza della quale gli uomini precipitano in quella che definisce anomia, assenza di regole, cioè di limiti. Ma quale autorità è moralmente legittima se il criterio di fondo è negare la legittimità stessa, una delle infinite varianti culturali del limite? Solo il richiamo ad un giudizio esterno che eccede e trascende l’essere umano può persuadere a non oltrepassare la soglia, convincendolo innanzitutto che la soglia esiste.
L’uomo occidentale moderno si è abbandonato a una sorta di caccia all’infinito, il programma di Francis Bacon nella Nuova Atlantide “far arretrare i confini dell’impero umano per realizzare tutte le cose possibili”, giacché, scriveva il pensatore inglese, sapere è potere. Abbandonati i limiti, varcata la frontiera, prestata fede alla concezione di Dio di Feuerbach, invenzione consolatoria dell’uomo, una nuova fervida credenza si è impadronita del Faust d’Occidente: la scienza e la tecnica forniranno ogni risposta, risolveranno “tecnicamente” qualsiasi problema. Il limite, la morale, la stessa precauzione diventa così una camicia di forza di cui liberarsi, la trasgressione diventa un imperativo per la cui via siamo entrati nell’ipermodernità, il trionfo dell’illimitatezza.
Ha vinto il pessimismo pratico di Hobbes. Lasciato a se stesso, l’uomo diventa un feroce predatore, è la guerra di tutti contro tutti dell’homo homini lupus, il cui rimedio è il potere assoluto del Leviatano, un demone oggi sostituito dalla scienza e dalla tecnica onnipotenti, irrefrenabili, imperativo di se stesse, sciolte da qualsiasi precetto etico. Ciò che si può fare tecnicamente, si fa, anzi si deve fare; per le conseguenze, la soluzione si troverà e proverrà dalla tecnica. Vittoria dell’immanenza su tutta la linea, più una fiducia superstiziosa nella potenza infinita della ragione tecnoscientifica.
La democrazia stessa, feticcio della modernità, è darsi dei limiti, organizzare il conflitto degli interessi e dei principi escludendo la violenza ed assegnando a procedure condivise il compito di designare chi detiene il potere per un tempo definito. L’assenza di limiti detronizza anche il libero arbitrio, declassato a volontà ossessiva di fare, correre, sperimentare, negando l’altro suo aspetto, la libertà di giudicare, eventualmente di non praticare, rifiutare come ingiusti, immorali, disumani, atti e principi in contrasto con il sistema di valori che è cornice della civiltà, limite a cui attenersi. Il Faust di Goethe, indicato come personaggio chiave, epitome, simbolo dell’uomo moderno, in realtà conserva un’alta considerazione per i limiti. Vuole conoscere tutto, ma la sua azione ha un fondo di disinteresse, non agisce per sete di dominio, è frenato da Margherita e, nel fondo del cuore, dall’idea di Dio.
Più sincero, più vicino allo spirito contemporaneo, è l’altro Faust, quello del Faust elisabettiano di Christopher Marlowe. La sua smania da alchimista di penetrare i segreti fisici è strumentale, volta al dominio, accecata dall’avidità, il godimento cui aspira è il potere, essere Dio in terra, il pentimento finale è tardivo e insincero. Un elemento contemporaneo è nel Doktor Faustus di Thomas Mann, il cui protagonista, il musicista Adrian Leverkuehn aspira al genio della creatività. Il maligno gli appare solo in sogno, ma ciò non significa, sono le sue parole, “che io non esista”.
La differenza con i tanti Faust contemporanei è la presenza della possibilità di scelta tra bene e male assente nell’animo d’oggi, segnato dall’indifferenza etica. Mefistofele non ha più senso, è cancellato perché rammenta la decisone individuale, la responsabilità che l’uomo contemporaneo aborre. Manca del tutto il giudizio, non esiste più una bilancia, un criterio che distingua moralmente. L’unico imperativo è andare avanti, correre, abbattere confini. C’è qualcosa di simile nel gesto rinascimentale di Michelangelo dinanzi al Mosè scolpito. Perché non parli? gli chiede l’artista, consapevole dell’eccezionalità della sua prestazione, creatore in grado di trarre dalla nuda pietra un’immagine più bella, più profonda della realtà, ma inanimata, che non può oltrepassare la soglia della vita.
L’ingegneria ha sostituito in gran parte l’architettura (tecnica versus arte, meccanica contro visione generale) e si è assunta il compito prometeico di elevarsi “oltre”. Abbandonata l’antica tendenza alla durata dell’opera, pegno di immortalità terrena, siamo passati dalla verticalità spirituale delle cattedrali gotiche alla dismisura dei grattacieli, gli 829 metri della Burj Khalifa di Dubai, la più elevata struttura mai costruita dall’uomo, monumento all’illimite. Simile è la storia delle costruzioni navali, destinate a mettere in pratica la globalizzazione nella forma-merce, sempre più smisurate, cisterne da 500 mila tonnellate destinate a trasportare il petrolio simbolo dell’energia necessaria per la crescita economica illimitata. Il progetto per navi da un milione di tonnellate è bloccato per i pericoli che, una volta almeno, hanno frenato gli ingegneri e i committenti faustiani.
Il limite è momentaneamente vincente, come il principio di realtà, a sua volta sconfitto dall’ assenza di distinzione tra reale e virtuale. Il mondo è un videogioco, una scacchiera che libera dal vincolo spaziotemporale e relazionale. Una liberazione dai limiti fisici – pensiamo ai bombardamenti da remoto, una playstation in cui la tastiera e il joystick inquadrano e colpiscono obiettivi viventi, persone inermi e i loro beni- che si traduce in abolizione delle riserve morali. Tutto si ingrandisce e tracima come un irrefrenabile rizoma: informe, gigantesco, privo di centro.
In un’intervista il banchiere americano Lloyd Blankfein dichiarò con la massima serenità: faccio il lavoro di Dio, creo il denaro. Il ripudio del limite ha nel denaro la sua espressione più schiacciante. La finanza crea dal nulla (ex nihilo, come il Padreterno) il denaro. Basta un clic sulla tastiera del computer che comanda i server delle grandi istituzioni bancarie, e appare qualsiasi somma, sganciata da lavoro dell’uomo, dalla decisione delle istituzioni pubbliche, dal valore intrinseco di beni commensurabili come i metalli preziosi o il sale degli antichi. Ne abbiamo una prova con la pratica della facilitazione quantitativa, quantitative easing, ovvero la messa a disposizione, per un semplice atto di volontà dei banchieri centrali, di somme immense e inesistenti, la prestidigitazione massima, una magia illusionista che fa inginocchiare la folla affascinata dalla meraviglia.
Non resta, per oltrepassare il limite definitivo, che il gesto di sfida di Thelma e Louise, le protagoniste del film di Ridley Scott del 1991. Le due donne, fuggite da vite poco soddisfacenti e prive di emozioni, affrontano ogni genere di peripezie. Alle fine, circondate dalla polizia (la realtà), con il sorriso sulle labbra lanciano nel precipizio a tutta velocità l’automobile e se stesse. Simbolo di un occidente che non crede più a nulla, se non alle emozioni e alle trasgressioni, Thelma e Louise sperimentano il punto di non ritorno, la morte, tabù rimosso, il limite indicibile. Ci penserà il transumanesimo, dicono, a battere la morte. Prometeo è oggi un ingegnere cibernetico in camice bianco intento a studiare l’intelligenza artificiale e creare la mente alveare.
Darsi dei limiti è il gesto che distingue la civiltà dalla barbarie. Il tempo nostro rischia di precipitare nella regressione più sinistra per il rifiuto di prendere fiato, riflettere, fermarsi. La tracotanza dell’universalismo, il cui motore è il Mercato, abbatte tutto, uomo, natura, creato, regimi politici, principi giuridici, credenze e simboli, in nome dell’illimitato. Ridefinire limiti, tracciare frontiere è l’atto costitutivo dell’umanità autocosciente. In ultima analisi, porre limiti è il gesto morale che procede da una norma, un vincolo diretto o indiretto, esplicito o tacito, posto da una comunità a fondamento di se stessa. Nessun limite, nessun fondamento, in quanto i limiti geografici, territoriali, politici, giuridici, culturali, ecologici, economici, della conoscenza sono iscritti in un orizzonte di senso definito dalla scelta etica, dall’apertura spirituale, perfino dalla coscienza che esiste un limite concreto infrangibile che la fisica chiama entropia.
ROBERTO PECCHIOLI