10 Ottobre 2024
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Dino Messina: le foibe e l’italianità – Luigi Morrone

La questione del destino degli italiani dell’Adriatico orientale dopo la Seconda guerra mondiale è stata a lungo un argomento tabù. Tabù per le scuole, dove non si faceva cenno al lungo esodo, durato vent’anni, degli italiani di Pola, Fiume, Zara. Ma tabù anche per gli storici, mentre il dibattito politico, secondo sua natura, strumentalizzava il dramma dei profughi a seconda dell’appartenenza di schieramento. Dino Messina colma questa grave lacuna, con un lavoro – Italiani due volte , edito da Solferino – che sarà certamente un punto di riferimento per gli studiosi. Il saggio smentisce molti dei luoghi comuni che si sono diffusi sul dramma degli italiani d’Oriente. Le terre in cui vivevano erano terre italiane, che erano state romane prime e veneziane poi, erano abitate da italiani che dopo la guerra furono perseguitati per la loro appartenenza nazionale. Passate all’impero asburgico in seguito al crollo della Repubblica di Venezia ed alla sconfitta definitiva di Napoleone, erano oggetto sia dei sogni irredentisti degli italiani, sia del progetto serbo di creazione di uno stato degli slavi del Sud. Dopo la Prima guerra mondiale il trattato di Versailles aveva frustrato le aspettative italiane e favorito quelle slave, ma una serie di eventi aveva portato all’annessione all’Italia di quelle terre.

Il fascismo adottò un piano di “deslavizzazione” di quelle zone, in cui gli slavi erano arrivati durante il dominio austriaco, attraverso il cambiamento dei toponimi, l’italianizzazione dei cognomi slavi, l’obbligo dell’uso della lingua italiana, il divieto di imporre ai neonati nomi slavi, piano cui aveva fatto seguito il terrorismo slavo. Il fascismo, inoltre, aveva favorito il nazionalismo croato di Ante Pavelič e ciò aveva acuito le tensioni con la Jugoslavia. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la Serbia aveva subito l’occupazione tedesca, cui era seguita la resistenza Jugoslava, che ben presto aveva visto emergere il comunista croato Jossif Broz, noto con il nome di battaglia di “Tito”.La repressione era stata durissima. Come nota Messina, comunque, le violenze nei confronti degli italiani, consumate già nel biennio 1943-45 e continuate ben oltre la fine delle ostilità, non furono in alcun modo giustificate né dalla deslavizzazionedel ventennio, né dall’occupazione tedesca, né dalla brutale repressione della Resistenza. Furono, piuttosto, strumentali al disegno di slavizzazione forzata nell’ambito di un nuovo progetto nazionale. Con l’armistizio annunciato l’8 settembre 1943, incominciano i primi pogrom contro gli italiani, favoriti dal disgregamento dell’esercito.

Le violenze contro gl’italiani sono continue e particolarmente feroci. Parte una velina dalla sezione italiana del Partito Comunista Jugoslavo: le violenze sono in realtà moti popolari che reagiscono ai decenni di angherie subite ad opera dei fascisti. Messina dimostra che non è così: si tratta di azioni preordinate e con obiettivi precisi, atte a sradicare le popolazioni italiane perché tali. Particolare ferocia viene riservate alle donne. Emblematico il caso dell’universitaria istriana Norma Cossetto, stuprata, torturata, uccisa e gettata in una foiba. Sei dei suoi torturatori vengono individuati e giustiziati dai militi della RSI, ma gli altri scampano alla punizione e qualcuno di loro, trasferito a Trieste, vivrà con una pensione pagata dallo stato italiano. Il tabù di cui si è parlato all’inizio porterà a ricordare a lungo Norma Cossetto quale “vittima del nazifascismo”, anche quando l’università di Padovale conferirà la laurea ad honorem. Solo dopo molti anni verrà ricordata la sua italianità in una lapide nel cortile della sua università scoperta nel 2011. L’armistizio, con il cambio di alleato da parte del Regno d’Italia, induce la Wehrmacht ad occupare l’Adriatico dell’Est, con un’operazione denominata “Wolkenbruch” (“nubifragio”). La rappresaglia è feroce. I rastrellamenti sono all’ordine del giorno. Particolarmente cruenta la persecuzione degli ebrei, guidata dal triestino Odilo Lotario Globočnik, che già si era particolarmente distinto in questa attività in Polonia, tanto da essere soprannominato “il boia di Lublino”.

I tedeschi reagiscono al “tradimento” italiano dimostrando diffidenza anche verso i militi della RSI, mal tollerati, quando non apertamente osteggiati, come avviene nei confronti della X MAS di Junio Valerio Borghese, costretta a lasciare la regione.  Con la definitiva resa incondizionata della Germania, i partigiani titini, spalleggiati daitaliani, si rendono protagonisti a Fiume e nell’Istria di veri e propri pogrom nei confronti dell’elemento italiano. A Zara, dove la quasi totalità degli abitanti era italiana, la furia titina arriva il 31 ottobre 1944, ma prima ancora nell’invocare i bombardamenti alleati, durati incessantemente per un anno circa, provocando una totale distruzione che ne fanno la “Dresda Italiana”, secondo la definizione di Enzo Bettiza. La violenza antitaliana porta alla distruzione dell’anagrafe, dello stato civile, nel dichiarato intento di cancellare qualsivoglia memoria dell’italianità di Zara. Messina, guidato dal racconto di Franco Luxardo, smaschera la mistificazione finalizzata anegare la violenza titina, quando sarà finalmente accolta la richiesta di conferimento di una medaglia d’oro al gonfalone di Zara, e l’ANPI pretenderà delle correzioni alla motivazione ufficiale che stravolge completamente la verità storica.

La violenza continua anche dopo la guerra. I comunisti italiani sono definitivamente subalterni ai titini. Già dal 1944, quando ormai è chiaro che il Cominform è allineato alle rivendicazioni territoriali dei titini, si invitano i partigiani comunisti a fare un repulisti all’interno delle forze della resistenza eliminando chi in qualche modo rivendica l’italianità di quelle terre.Aderendo a questo invito i partigiani comunisti eliminano la brigata Osoppo nella malga di Porzûs. Per anni questa strage sarà tenuta nascosta, poi sarà accreditata una “verità ufficiale”: quella di attribuire la strage ad un’iniziativa personale della “testa calda” Mario Toffanin, ma è chiaro che essa rientra in una precisa strategia di eli-minazione dei partigiani non comunisti per dare via libera a Tito che sta avanzando sul fronte orientale. L’occupazione titina della Venezia Giulia, dell’Istria, della Dalmazia porta ad una vera e propria “caccia all’italiano”, che non ha nulla di politico: non viene risparmiato nessuno, neanche chi potrebbe esibire le benemerenze di perseguitato dal regime fascista (è il caso del triestino Domenico Toffetti) ed incappano nella furia antiitaliana persino gli ebrei reduci dai campi di concentramento tedeschi (è il caso dell’ebreo fiumano Angelo Adam): si cerca l’italiano casa per casa, non si contano i saccheggi, gli stupri, i processi farsa. Le violenze ed i saccheggi sono commessi sotto gli occhi dei bambini. Le foibe si riempiono di italiani passati per le armi e gettati nelle doline dopo averli legati con fil di ferro passato per i polsi.

Si organizzano campi di concentramento in cui i prigionieri vengono torturati. Dirà un ex partigiano scampato al famigerato campo di Mitrovica: «Sono stato un anno e mezzo sotto i tedeschi, e ognuno sa che razza di malvagi erano. Ma la prigionia sotto i nazisti era rose e fiori in confronto a quella di Tito». Perché questa furia? Come detto, per decenni si è cercato dapprima di negarla in radice, poi di minimizzarne la portata, attribuendola a singole iniziative di gruppi poco o nulla organizzati, o – infine di giustificarla come “reazione” alle angherie subite dagli slavi sia nel Ventennio, sia durante l’occupazione tedesca. Messina, ritiene – invece – che si sia trattato di una “pulizia etnica” determinata dalla necessità di eliminare l’elemento italiano, visto come nemico del passato (per l’annessione e per la politica antislava del Fascismo), del presente (per la rivendicazione di italianità) e del futuro (come appartenenti ad una Nazione che nella spartizione di Yalta sarebbe ricaduta nell’orbita del mondo capitalista). Franco Luxardo, erede di una casata di imprenditori, suggerisce anche una motivazione economica: l’asse portante dell’imprenditoria era in mano italiana, e a Tito facevano gola le imprese che, infatti, in seguito all’esodo, finiranno nelle mani dello Stato Jugoslavo.

I titini ricorrono anche al terrorismo. Terribile la strage di Vergarolla (spiaggia presso Pola – 65 vittime). Per decenni della strage non si parla o se ne attribuisce la responsabilità agli italiani (Pola era in mano agli inglesi). Ma prove inconfutabili inchiodano i titini. La strage è il segnale che per gli italiani non c’è più posto in una terra che abitano da secoli. Inizia un esodo che nel 1947, dopo il trattato che definitivamente assegnò Istria e Dalmazia alla Jugoslavia, assumerà proporzioni immani. Racconta Claudio Bronzin, uno degli scampati alla strage: «La strage di Vergarolla fu il segnale che gli italiani non avevano più un futuro a Pola, nonostante la maggior parte risiedesse in Istria da secoli. Noi Bronzin decidemmo di partire come tutti gli altri. Tantissimi lasciarono la città in nave. Noi partimmo in treno». Come detto, l’esodo massiccio inizia dopo il trattato di Parigi. La polesana Maria Pasquinelli uccide per protesta il comandante della guarnigione inglese Robert de Winton. Gli italiani di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia vengono sradicati dalle terre dei loro avi. Nella madrepatria ad attenderli trovano i comunisti, per i quali sono persone che fuggono dal Paradiso dei Lavoratori e perciò stesso, “fascisti”. Vengono coperti di insulti e di sputi. La CGIL di Bologna, con un picchettaggio, impedisce alla Croce Rossa di rifocillarsi gli esuli. L’Odissea degli italiani d’Oriente ha il suo luogo simbolo: il magazzino 18, il padiglione del Porto Vecchio di Trieste dove è raccolto quel che rimane delle masserizie degli esuli. Per proprietari di queste reliquie fu impossibile recuperarle restano lì, a memoria imperitura del dramma vissuto da chi fu italiano due volte: nella terra ove nacque e lì dove, per il suo voler restare italiano, lo portò il vento, lì dove fu costretto a cantare i versi dell’esule

Come vorrei essere un albero che sa
Dove nasce e dove morirà,

versi della splendida 1947 del cantautore polesano Sergio Endrigo.
Non dimentichiamolo. E la memoria si conserva anche leggendo un libro coraggioso come Italiani due volte.

Luigi Morrone

(tratto da Il Quotidiano della Calabria del 2 giugno 2019  , con l’autorizzazione dell’autore)

Il testo sarà presentato presso la libreria La Nuova Controcorrente di Napoli, sabato  15 Giugno, come da locandina nel testo.

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