Nel saccheggio predatorio seguito alle scoperte archeologiche della città partica di Dura Europos, oggi alla Yale University Art Gallery possiamo contemplare – magnificamente conservato – uno scudo romano databile alla metà del III sec. d.C., appartenuto probabilmente a un legionario di uno dei distaccamenti (vexillationes) della legio IIII Scythica e legio XVI Flavia Firma. Suggestivi i fregi dipinti che lo adornano: in alto due Nike alate circondano un’aquila imperiale. Un’iconografia che troviamo ben figurata nello spazio sacrale sasanide di Tāq-i Bustān, nel suo iwān: la rappresentazione frontale della scena di investitura nel timpano è infatti sovrastata da un arco trionfale con le Vittorie alate, testimonianza dell’interferenza partico-ellenistica. Ma più intrigante nello scudo di Dura Europos è la presenza di quattro swastika sinistrorsi ai lati. I quattro swastika portano ai rispettivi apici un punto; segno di distinzione dal classico turnum sacralis che troviamo nell’arte greco-romana. Il reperto non può essere visto in modo isolato, poiché l’arte partica porta in sé notevoli tracce di tale iconografia.
- Ricicli
Sappiamo dalla storia recente, che detti materiali mitologici e simbolici sono stati a loro modo riciclati nel contesto di ideologie autocratiche, i cui percorsi ideologici vennero acutamente osservati dal filosofo francofortese Theodor W. Adorno. In Adorno era immanente una critica del fascismo che trascendeva, pur inglobandolo, il dato storico della dittatura politica per abbracciare, nell’orizzonte speculativo, la critica del tardo capitalismo; il fascismo era contestualizzato quale momento culminante nella crisi della ragione occidentale. L’esordio di una delle sue opere più importanti (scritta con il collega Max Horkheimer) Dialettica dell’illuminismo (Einaudi, Torino 1966) recitava:
«Non solo idealmente, ma anche praticamente, la tendenza
All’autodistruzione appartiene fin dall’inizio alla razionalità,
e non solo alla fase in cui emerge in tutta la sua evidenza».
Il fascismo, svincolato dal dato storico, diventava icona della minaccia del totalitarismo biopolitico e culturale, sia intrinsecamente connesso non solo allo sviluppo del capitalismo (come nelle classiche interpretazioni marxiane) ma più precisamente alla ragione illuministica. Ovviamente Adorno e Horkheimer ignoravano, o fingevano di ignorare, le matrici popolari e sociali del fascismo, che avevano di fatto sostenuto il movimento sin dai suoi albori. La tesi della continuità tra liberalismo e nazifascismo non era del solo Adorno, ma era fatta propria da altri membri dell’Istituto per la Ricerca Sociale, la cosiddetta «Scuola di Francoforte». Da menzionare, Friedrich Pollock, che già nel biennio 1932-1933 – quando Heidegger celebrava il nichilismo – in una serie di saggi apparsi sulla rivista dell’Istituto (la Zeitschrift für Sozialforschung), sosteneva l’ibridazione tra irrazionalismo capitalistico e autoritarismo politico; in tale visione profetica la Germania di Hitler e gli Stati Uniti di Roosevelt erano due aspetti diversi dello stesso problema autocratico, entrambi caratterizzati da un controllo sociale ultra-oppressivo. Herbert Marcuse seguiva la tesi di Pollock, quando nel 1934 pubblicava il saggio su La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, poi compiutamente ripreso ne L’uomo a una dimensione (Einaudi, Torino 1967). Qui, Marcuse sosteneva che liberalismo mercantile e fascismo rappresentavano fasi modulari e successive dello sviluppo del capitalismo, poiché mediati tanto dalla medesima organizzazione oppressiva dell’economia intorno alla proprietà privata e al liberalismo imprenditoriale, quanto dallo stesso rifiuto del socialismo marxista. La rivelazione marcusiana era in pari comunione con i vaticini di Adorno e Horkheimer, in specie nella sezione della Dialettica (che uscì in ciclostile ad Harvard nel 1944) intitolata Elementi dell’anti-semitismo. Qui affiorava una nuova critica sociale configurata su parametri metafisici: il fascismo era ritenuto un fenomeno collegato alla degenerazione della razionalità borghese-illuministica, e rivestito dal concetto di mimesis. La mimesis era una mutazione, la proiezione del soggetto nell’oggetto, equivalente allo «smarrimento di sé» e alla liberazione dalla soggettività. Essa si concretizzava nel momento in cui, attraverso la percezione sensoriale, il soggetto storico percepiva l’esperienza liberatoria di una condizione utopica corrispondente alla sua perfetta riconciliazione con l’oggetto. In altre parole, la mimesis era prerogativa del corpo, in quanto era l’esperienza sensuale del corpo, il principio del piacere, che rendeva il soggetto oggetto di sé.
- Origini biopolitiche
Molti avranno riconosciuto in questo l’alba della rivoluzione sessuale. Il piacere di fatto derivava dall’estraniazione, e, anche se originato dalla civiltà, tendeva a disaggregarla; poiché si poneva al di là dei limiti da essa imposti. Qualcosa di simile e con apporti eruditi, sosteneva anche il nostrano J. Evola nella sua Metafisica – seguendo di fatto un impulso che era già in Otto Weininger. Adorno continuava osservando che senza una nozione di piacere intesa come forza anarchica e intimamente asociale, l’uomo non poteva avere accesso alla conoscenza, poiché l’esperienza mimetica figurava il momento essenziale del rapporto cognitivo tra soggetto e oggetto, tra individuo storico-razionale e natura. Quando tale rapporto era scisso subentrava il disagio sociale. Il nazismo dal volto umano distribuiva panacee alle folle: vacanze, sfoghi normati, sino a giungere alla narcosi collettiva. Di fatto le sostanze psicoattive dapprima testate sui fronti di guerra nazisti (benzedrine, metadone), erano acquisite dal fascismo statunitense in Vietnam e poi diffuse eucaristicamente in tutto l’Impero. L’esperienza biopolitica era già di fatto teorizzata nei francofortesi: l’andirivieni dialettico tra mimesis e razionalità, tra piacere e spirito (Lust und Geist), figurava l’utopica riconciliazione tra soggetto e oggetto, ma non solo, perché riscriveva negativamente lo sviluppo dell’ideologia. Non era di fatto più possibile un impegno politico perché disarticolato dal principio del piacere. Per questo Freud era ritenuto un impostore, un cialtrone che aveva usurpato del principio del piacere, confinandolo negli spazi asettici della malattia. La società del tardo capitalismo e dell’industria culturale, secondo Adorno, riproduceva il principio del piacere in forme collettivamente alienate, violentando il corpo sociale attraverso la fruizione dei corpi. II fascismo, in quanto momento supremo nella crisi della ragione illuministica, altro non era che alienazione sociale che attecchiva su un sostrato apocalittico. Era il «sistema diabolico del mondo» che aveva imposto la sua legge, configurandosi come unico procreatore di valori sociali. Detto questo… nella separazione borghese tra la lettera e la libertà dello Spirito restava un criterio di giudizio ereditato sotto forma di «peccato originale». Anche la ribellione gnostica lo aveva perseguito. Ciascuno di noi aveva una provenienza da cui non era dato sottrarci. Gli effetti di questa deriva infinita si chiamavano ancora cattolicesimo, ed avevano avuto un inizio (il primo superamento della gnosi), uno sviluppo, uno svuotamento e una riscrittura, mai compiuta una volta per tutte.
Gli Gnostici si ribellavano ai creatori di questo mondo, gli Arconti, una genìa bastarda che non era «reale»: era frutto di un errore cosmico e nasceva dal «vuoto», il kenōma. Quella degli Gnostici era una ribellione metafisica, una critica violenta contro il cosmo e chi lo governava, una discendenza illegittima reggeva il mondo e doveva essere in qualche modo rivelata e combattuta. Tutta la storia della filosofia moderna era travagliata nel profondo dall’impostura, una tremenda verità: nei secoli pensatori e filosofi si erano rifatti allo gnosticismo per contestare la società e l’ordine che mal tolleravano. Per Adorno la negatività del dio creatore, il Demiurgo, era un tutt’uno con la negatività della società capitalistica, il nazismo teutonico era mutato in nazismo anglosassone. La ribellione contro la società autoritaria e disciplinare era la ribellione contro gli Arconti facitori del mondo. L’alienazione era merce antica e datava sin dalla fondazione della realtà. La nuova lotta di classe era tra inclusi ed esclusi, tra centro e periferia, non più tra mortifere ideologie di destra ed astratte geometrie di sinistra, nei governi della crisi valeva la sinergia tra arruffoni e sbrigativi. Le divisioni sono ora topografiche, inconsce, viscerali, egualmente intolleranti, non riguardano visioni del mondo o tantomeno filosofie. Ricordano l’opposizione mussoliniana tra nazioni proletarie e imperiali. Tra le arroganze dei forti e il risentimento dei deboli. Anche lì i deboli pretendevano un posto al sole. E gli uni e gli altri non si distinguevano quanto a razzismo e darwinismo sociale. Le migrazioni dell’oggi riguardano invece questioni di sopravvivenza economica, ecologica, antropologica e, per quanto riguarda l’Islām, scontri di civiltà. Da Mindanao a Boko Haram si bruciano le case dei cristiani. Anche il nazionalismo indù non scherza e vieta le conversioni, a partire in tempi pre-nazisti dal separatismo basco di Sabino Arana. Sono sfide grandiose e hanno poco a che fare con i nostri provincialismi. Per noi esiste una Biblioteca dei destini nei cui scaffali sono custodite tutte le varianti possibili del libro perfetto. Le idee sono più preziose del castello kafkiano che governa questa fase del mondo. È vero, un partito egemone di «sinistra» rifiutò di ricevere il Dalai lama per fare viaggi d’affari in Cina, ma i radical-chic italici, dopo il Partito d’Azione, non hanno mai avuto una bussola culturale per orientarsi e non è nemmeno rappresentata nel Parlamento europeo. L’ircocervo di una sinistra da Tiramolla erede del nazionalismo popolare gramsciano, che mise d’accordo sinistra democristiana e catto-marxisti. La cifra dell’uomo contemporaneo è quella di non riuscire a sentirsi contemporaneo, di rimanere scisso tra il proprio essere nella storia e il proprio essere appiattito sul presente e di non far coincidere realtà diacronica e sincronica. È una forma di disconoscimento dello stesso destino ontologico dell’Europa, che non riesce ad avere una esperienza adeguata del proprio tempo, mentre è tentata di liberarsi dalla sua storia a favore di una libertà da attivismo parolaio. Flavio Giuseppe, a proposito della Guerra giudaica, affermò come ciò che maggiormente li incitò alla guerra fu un’ambigua profezia secondo cui in quel tempo uno proveniente da loro paese sarebbe diventato il dominatore dell’ecumene (Bellum Iud. 6, 312). Ad arrivare fu Vespasiano. Come le droghe, così la rete oggi è il vero pharmakon, unico tramite verso quel mondo iperboreo fatto di riflessi noetici ed estatici.
- Imperi
Non c’è scusa che regga per le 940mila piccole granate all’uranio impoverito che contaminarono l’Iraq nella guerra per fottere il petrolio agli arabi. Il potere si definisce per il monopolio (legittimo) della forza. Ogni imperialismo fa terra bruciata e gli USA non hanno fatto eccezione. La questione è se dobbiamo combinare il rifiuto del militarismo americano con la critica globale della moderna civiltà borghese. Si può amoreggiare con i tradizionalisti e con la tesi heideggeriana del progressivo oblio dell’essere e della conseguente decadenza dell’Occidente. Spengler, Heidegger, Adorno cavalcavano la medesima onda nietzschiana. E marxiana. È la lettura apocalittica della storia occidentale, culminata nel colonialismo e nelle guerre dell’oppio per rincitrullire i cinesi. Eclettismo da operetta. Vogliamo liquidare la teoria dei diritti e le libertà occidentali? Certo, l’Occidente è stato dialettico. Marcuse, più scaltro di altri, convinceva gli spiriti libertari di Berkeley e di San Diego ad essere intolleranti allo scopo di liberare la società dagli intolleranti stessi. La tolleranza si volgeva in intolleranza non potendo tollerare quegli intolleranti dell’establishment. Tesi ed antitesi cooperavano: L’uomo a una dimensione riproduceva il ragionamento del codice teodosiano favorevole ai cristiani. C’è inoltre un elemento auto-distruttivo nella psychē. La gente, scriveva il sociologo Gaetano Mosca, vive un «tragico destino», pur aspirando al bene, per tutti trova il tempo di scannarsi per difendere un dogma, inaugurare il regno della libertà oppure il regno di dio o la democrazia sociale (Elementi di scienza politica, Fratelli Bocca, Roma 1896, p. 113). Alle riflessioni sull’irrazionalità delle masse faceva riscontro la necessità di un governo da parte delle élites (Pareto, Mosca, Le Bon e quel geniale storico di Ferrero discutevano del marxismo a fine ‘800 con la formula: la plebe è regina e i barbari avanzano; G. Ferrero, Potere, SugarCo, Milano 1981). Lasciando stare le analogie con l’oggi, diciamo che la filosofia europea è stata consapevole sia della pulsione di Eros che di quella di Thanatos almeno dai tempi di Empedocle. Un po’ diversa dallo Yin-Yang brechtiano. Il comunismo è stato una formula vincente per le masse («addavenì baffone!»). Il comunismo italiano non è stato il peronismo solo per qualche libro in più (che non era la biografia di Evita: santa e prostituta). Marx un gatto morto? A Fusaro preferiamo Balibar. Il denaro, costituisce una fremde Gewalt, una violenza-potere che sovrasta gli individui, impedendo loro la possibilità di instaurare rapporti altri rispetto a quelli legati al denaro e alla sua accumulazione: «sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nell’immaginazione, perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali; nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva. D’altronde, nella successiva critica dell’economia politica, la nozione di capitale come lavoro morto si oppone come un vampiro al «lavoro vivo».
Lo gnostico pertanto – ecco il responso di Trump – non è un nomade dello spirito, ma un parassita: un parassita insediato dentro il corpo delle genti terrene. Come tale, egli è perennemente in cerca di uno spazio che porti nutrimento alla propria «stirpe eletta», i physei sōzōmenoi, i «salvati per natura». La conoscenza come tale è già di per sé redentrice, liberatrice, perché ciò che è conosciuto è stato scoperto; l’amore, l’atto morale e tutto ciò che in termini salvifici ne deriva, è solo una ovvia conseguenza tratta dalla gnōsis. Quindi l’uomo trova già in sé l’adito ad ogni realtà, l’unità assoluta coeva all’unicità del vero Dio che abita molto lontano dal cosmo. Nello gnosticismo la conoscenza, che è direttamente salvifica, è rivelata da un Salvatore – figura complessa e sfuggente – e trasmessa da una tradizione esoterica. L’iniziazione gnostica è una didaskalia, parola greca che sta per «istruzione», una rivelazione di un racconto mitico finalizzato a chiarire le nostre origini, la vera patria, il plērōma, la pienezza della divinità. La menzogna è la potente arma dell’Avversario, di cui la più sfruttata è quella di presentarsi come una collettività religiosa, la Chiesa psichica fondata dagli Arconti. In realtà la dottrina gnostica è priva di fede, crede unicamente nella libertà individuale di gabbare il Demiurgo, che si presenta come il vessillo del nulla: non crede in nulla, non mira a niente di positivo. Tutto ciò che vuole, insinuandosi nell’illusione delle proprie creazioni, è trascinare l’uomo verso la distruzione.
In questo la contemporaneità è efficiente: al culto degli ashtag e alla contrazione del lessico non è da escludere l’inizio di una contrazione e regressione epocale. Una via a ritroso la cogliamo non solo con il monolite di 2001: Odissea nello spazio, ma con i film dedicati al pianeta delle scimmie, ai prequel di Alien. Variazioni di quel mito platonico raccontato nel Politico (268 e-274 e) dove il tempo cosmico scorreva ora in una direzione ora in un’altra. In avanti nell’età di Kronos; a rebours in una umanità successiva, con la gente che nasceva per morire all’istante oppure andava man mano ringiovanendo; infine una terza genìa, ormai sessuata, che viveva il suo tempo sia in avanti che all’indietro (con la memoria). Il geniale Ph. K. Dick commentò parti del Politico in una celebre novella: Counter-Clock World del 1967, un mondo dove la copulazione significa la fine di ogni gravidanza, un buongiorno diventa un epitaffio… i morti ritornano sulla terra. Come tanti spettri dell’oggi Fra i tanti, le ombre dei rifugiati, attualizzati come esempi di biopolitica da parte degli Stati sovrani. Testimonianze di «nuda vita» isolate da ogni forma di riconoscimento e di protezione, ma rivelative del nesso indissolubile tra ontologia e politica.
- Migranti
La vita degli esseri umani è da paragonare a quella di un naufrago su una zattera, che non ha altro mezzo che il suo istinto per poter ancorarsi a qualcosa di stabile. Un barcone che aveva perso la rotta viene salvato da una balena con l’abitudine di girare intorno ai navigli. Qualcuno ha l’intuito di seguirne la scia e la balena porta il barcone verso un mercantile che li avvista. I battelli senza guida ricordano le navi dei folli di Hieronymus Bosch, dove si partiva per un altro mondo. I migranti minori, mercificati e non accompagnati, che sbarcano sulle coste italiane sono più di 10.000 ogni anno. Ragazzini che per raggiungere l’Europa attraversano il deserto a piedi, dove lasciano insepolti i loro traumi. Siakar, arrestato tre volte tra Marocco e Libia, viene liberato quando si ammala di tubercolosi e solo allora riesce ad imbarcarsi. Caramba del Senegal risponde così: «Je suis nul». Non esisto. Non sono di qui e nemmeno di là. Non ho un altrove da raccontare, sono merce per il capitale che esibisce la mia icona in prima serata: «Sbatti il migrante in prima pagina», per parafrasare un noto orpello cinematografico anni ’70. Il rapporto tra il sé e il luogo è negato. Senza un’identità e una famiglia, nessuno sa da dove viene, né dove andrà. È solo uno spettro trattenuto in una soglia di indistinzione in attesa di essere identificato. È la «civiltà laotziana» che l’intellighenzia profumata auspicava in tempi in cui l’immigrazione era solo un fatto di «terroni», a volte con attitudini anche criminali. Gli immigrati restano emigranti senza meta. Chi sono, da dove vengono, dove andranno, sono domande inattuali, che definiscono lo straniero al mondo: il moderno gnostico. Siamo noi, europei da commedia dell’arte, che attribuiamo loro un’origine e un’identità religiosa, che invece nello Stato d’Eccezione non hanno più senso. I detenuti dei campi di accoglienza, come i condannati ai campi di concentramento, sono esclusi da ogni comunità politica e si situano in una zona liminale, in una terra di nessuno, in cui la «nuda vita» finisce per coincidere con la sola vita biologica. In questa zona d’indistinzione, diritto e violenza diventano anch’essi indistinti. La tendopoli di Rosarno, con la sua baraccopoli illegale nascosta ai più, rappresenta lo spezzarsi di qualsiasi relazione tra le parole e le cose. Per questo, nell’età della diaspora, lo Stato d’eccezione tende a diventare la struttura politica fondamentale del nostro tempo, con l’eccezione come regola. È il campo e non la polis il nomos del moderno, ricorda un Agamben molto radical-chic. Una modernità in cui la comunità è stata intesa secondo un paradigma immunitario e dove chi abita possiede un luogo, una proprietà. Che include, escludendo. È questo un mondo che coltiva la paura negli altri e che si trova al culmine di una guerra interiore, indifferente se barattare la propria inospitale resistenza al richiamo dell’altro con la propria volontà di conservazione. Un altro paradigma, cosmopolitico e non identitario, per cittadini de-nazionalizzati e sradicati dalle proprie lingue vitali, sembra attendere il terzo millennio. Oppure ci si volgerà verso un gigantesco esperimento biopolitico, che definirà l’antropogenesi in altro modo. A questa umanità, svincolata dai presupposti dell’identità e della singolarità, spetterà abitare una nuova comunità, radicalmente diversa da quelle provenienti dal passato.
- Esperienze
Anche negli approcci della critica post-moderna, la persona è sempre definita in modo negativo: un segno vuoto, che diventa pieno non appena si fa portatore di un messaggio non suo. Questo luogo introvabile che ha luogo nel linguaggio si colloca nell’intervallo tra il sistema dei segni (la tradizione) e la sua pratica discorsiva (l’uso personale). L’individualità non è per Heidegger che la particella «da» del Dasein: il qua e il quì, il luogo di un evento linguistico o della sua alienazione. Egualmente scontata la deriva verso le teorie ermeneutiche dell’esperienza religiosa. Ogni esperienza in quanto è scissa in essere sociale e prassi individuale contiene questa relazione ed è nient’altro che questa relazione. La religione non può pertanto ridursi alle sue funzioni psicologiche, né a semplice esperienza interiore (come in certa vulgata teologica). Essa invece è un unico proliferare di dispositivi che dividono il vivente da se stesso, che rendono immutabile ciò che immutabile, dislocandolo in una sfera separata che la vera religiosità ha il compito di disattivare. D’altra parte la ricerca di un’esperienza originaria porta lontano dal soggettivo, a qualcosa che è prima del soggetto, a quell’inconscio collettivo che è prima del suo uso storico. Ciò che accade ora (nel cosiddetto «supermarket delle religioni») è esattamente questa alienazione del linguaggio, che non rivela né comunica più nulla, se non l’impossibilità crescente di fare esperienza. Si pensi al fenomeno sempre più esteso della religione in Rete (con i suoi noiosi predicatori) e all’indifferenza tra i centri Yoga e le palestre che promuovono gli esercizi di pilates. Solo qualche decennio fa l’esigenza di vivere nel presente e di tagliare i ponti con il peso della storicità e del proprio karman determinava i viaggi liberatori in Oriente, mentre ora si è condannati all’immobilità delle proprie esperienze simulate, a concepire il proprio io come un effetto di posizione. Un caos calmo regna nelle indicazioni di metodo dopo la stagione postmodernista. Inutile attribuire poteri curativi alla storiografia in un mondo a memoria ridotta. Se tutte le verità sono costruite e ideologizzate, gli attori dell’agire religioso (gli individui, ma anche l’alterità) restano inaccessibili a qualsiasi giudizio discriminante. Ridurre i fenomeni cognitivi e creativi all’interiorizzazione di processi sociali è come riportare la scienza ai giochi della politica. La spinta a rivedere questa forma di relativismo viene ora più dagli antropologi cognitivisti che dai teologi cattolici. Su di un altro piano, altrettanti teorici del dogma giurano sul fatto che la religione in sé, oltre a non avere valore, è stata ed è intollerante. Non serve che a tracciare esclusioni ed inclusioni, a partire dai codici tribali, passando per la distinzione mosaica di veri e falsi dèi. La conseguenza è che le grandi domande sulla vita e la morte sono lasciate ai miti e alla poesia, poiché non servono a dare spiegazioni conformi. Adesso però sarebbe venuto il momento di studiarla scientificamente: gli storici delle religioni dovrebbero diventare psicologi. Dovrebbero capire l’evoluzione biologica del prodotto religioso, per comprendere l’evoluzione della mente umana ed animale: assemblate buddhicamente nel corso dei millenni per selezione naturale. L’approdo sarà quello di una scienza olistica che faccia a meno delle distanze tra natura e cultura. Che attenui le antitesi tra accesso cognitivo e sociologico. Ciò che è dato alla nostra capacità di simbolizzazione è allora un certo fondo adattivo ad un certo ordine naturale, che interagisce con le costruzioni culturali che ci facciamo e che ci impedisce di cadere nell’Homo Homini Lupus (Lévi-Strauss). Anche questa proposizione (molto rousseauiana) è una verità di fatto, dove il contrario è sempre possibile.
L’autore ringrazia il prof. Giancarlo Mantovani per il costante aiuto e sostegno intellettuale.
Ezio Albrile