17 Luglio 2024
Tradizione Romana

Divagazioni sull’amore – Marco Calzoli

 Marco Aurelio Olimpio Nemesiano, africano, è stato un poeta romano del III secolo d. C. Di lui ci rimangono svariati versi, tra cui quattro ecloghe, di argomento amoroso.

 La poesia bucolica, infatti, sembra comparire a volte dopo la fine di periodi problematici: con essa rifiorisce la speranza. Roma aveva vissuto un periodo terribile e, nell’uscirne, compaiono questi metri di Nemesiano. Come Virgilio aveva esaltato nel Puer il sogno di una nuova era, come Calpurnio Siculo sperava che il primo Nerone fosse l’artefice di una nuova età di pace, così Nemesiano nel governo di Caro prima e di Numeriano poi voleva vedere un periodo rinnovato di pace e prosperità.

 Soffermiamo la nostra attenzione sulla seconda ecloga di Nemesiano. Il giovane Ida e il giovane Alcone ardevano di desiderio per la bella Donace e infiammati si affrettavano sulla bellezza della amata. Questa, mentre raccoglieva i fiori nelle valli dell’orto vicino e riempiva il grembo di molle acanto, fu riempita d’amore dai due giovani. Nemesiano quindi fa cantare i personaggi in un quadretto bucolico delizioso.

 Questa seconda ecloga di Nemesiano tratta un argomento topico del genere bucolico e dell’elegia d’amore e della poesia amorosa in generale: due protagonisti innamorati della stessa donna e non ricambiati. Accanto a questa tematica classica troviamo anche quella della violenza, un motivo erotico e lascivo non del tutto assente nella tradizione, questa volta non latina ma greca, ci riferiamo a Mosco e Bione. La violenza in questa ecloga appare centrale: verso la fine della parte introduttiva sembra che l’atto di estremo erotismo e aggressività perpetrato nei confronti della fanciulla possa aver recato conseguenze sull’aspetto della ragazza, che si presenta diversa da come descritta all’inizio.

 Il legame con la tradizione di Mosco e Bione costituisce una novitas nella letteratura latina. Nemesiano ha il coraggio di allontanarsi dalla letteratura latina, fino ad allora estremamente importante perché quest’ultima, assieme alle bucoliche teocritee, costituiva il primato assoluto in materia.

 Anche Teocrito è presente nell’idillio d’amore non ricambiato: si tratta di un’allusione all’amore teocriteo non ricambiato tra il Ciclope e la Ninfa galatea, il simbolo topico della fuggevolezza, dell’amore ritroso che ritroviamo in Nemesiano, così come anche in Virgilio. Pure l’immagine dell’antro, nominato per le Napee, rappresenta un locus tipico della tradizione teocritea e virgiliana, infatti in Teocrito e in Virgilio l’altro è il luogo nascosto in cui consumare un rapporto o alleviare le sofferenze d’amore, secondo il concetto di poesia utile di Nemesiano.

 Inoltre, nell’immagine di Ida e Alcone, che lottano entrambi con le sofferenze d’amore e cercano di alleviarle cantando la bellezza dell’amata, possiamo scorgere l’ideale poetico di Nemesiano: come abbiamo detto, per Nemesiano la poesia è utile, in quanto terapeutico conforto alla sofferenza d’amore.

 Per Nemesiano la poesia è il perfetto connubio tra musica e versi, questo è dimostrato da Ida e Alcone. L’uno esperto nella musica, l’altro esperto nel verso. Le due arti prese singolarmente non sarebbero nulla: solo insieme svolgono la loro funzione terapeutica.

 In Nemesiano (così come in Virgilio) la natura partecipa del dolore dei due giovani. In Virgilio assistiamo all’atteggiamento spontaneo del pastore il quale, preso dal dolore d’amore, abbandona il suo gregge.

 In tutto il genere bucolico vi sono due costanti, ben espresse in Nemesiano: la presenza delle divinità, spesso invocate con epiteti, e l’amore/odio tra l’uomo di campagna e l’uomo di città.

 L’amore è uno dei grandi temi della produzione letteraria artistica e trattatistica del genere umano, di ogni età e civiltà. Assieme alla famiglia, alla guerra, al viaggio, alla visionarietà, alla ricerca di Dio. E altro ancora. Sull’amore si sono dibattuti poeti e filosofi. La sua dimensione del piacere oppure la sua sublimazione nella Donna Angelicata del Dolce Stil Novo e nell’ “amore platonico” (proprio del petrarchismo del XVI secolo) oppure l’aspetto della passione.

 Per de Rougemont nel suo celebre saggio, l’amore cortese (e poi il Romanticismo) nasce dalla eresia catara che, polarizzando in maniera manichea vita e morte, crea l’amore passionale. Come osserva Bénichou, il Romanticismo non è stato solamente un movimento artistico e poetico: esso trae la propria linfa vitale dai pensatori che nell’età cosiddetta romantica hanno espresso nuove tendenze ideologiche. Certamente l’esaltazione dei sentimenti dell’uomo di contro a una fede cieca che li opprime sentita ormai come qualcosa di vetusto, è debitrice del cosiddetto “pensiero umanitario”, il quale ha visto nell’intera specie umana una potenzialità di progresso che nell’età romantica si sta attuando almeno inizialmente. Questo tipo di pensiero è debitore a sua volta dell’illuminismo per il concetto di progresso insito nell’intera specie umana. Ma mentre nell’illuminismo l’afflato era squisitamente laico, nel pensiero umanitario l’umanità acquisisce connotati mistici e quasi divini. L’uomo non è più la creatura di un Dio assoluto che vuole sacrifici e penitenza, ma diventa la sede di tensioni di amore e di libertà del tutto giustificate. L’uomo inizia ad essere padrone di sé stesso e capace di esprimere nella propria forza vitale e tensione libertaria quell’Assoluto che i vecchi cattolici ricercavano nei cieli. L’uomo inizia a essere il centro del mondo, quindi il sogno e le varie atmosfere oniriche sono il campo d’elezione della poetica degli scrittori e degli altri artisti romantici, e questo durerà almeno sino ai simbolisti francesi, come rileva Béguin: gli aspetti notturni della vita (come non pensare ai Notturni di Chopin?), il mito dell’inconscio (dai “sotterranei” di Dostoevskij fino al Decadentismo che innova il romanzo ponendo la coscienza e il ricordo come elementi principali: il tempo perduto di Proust ritrovato nel ricordo), l’estasi del poeta che compone sotto effetto di sostanze, e così via. Aspetti della vita da non più demonizzare e relegare nel peccaminoso o nello sbagliato. Bachelard distingue la rêverie dal sogno: questa è consapevole e non opera censure. Nella rêverie non ci sono tensioni e c’è una forte componente di libertà di immaginare.

 Platone diceva che l’amore è un dio potente. “Amo ciò che faccio, ma la gioia suprema mi è preclusa se sono priva dei miei incontri selvaggi”, cantava in un sonetto la poetessa francese Louise Labé. L’amore e la passione sono le più grandi spinte dell’uomo a progredire e perfezionarsi come entità in grado di dare. Ritroviamo l’amore, il possesso, e l’aggressività connaturata all’emozione e al sentimento amorosi, già agli albori della letteratura occidentale con la guerra per Elena di Troia e lo ritroviamo con Nemesiano quasi alla fine del mondo classico.

 Dal Simposio di Platone al Kamasutra indiano, dal trattato Sull’amore di Cappellano (che ha avuto un ruolo fondamentale nella elaborazione della poetica della lirica amorosa medioevale in volgare) ai Dialoghi d’amore di Leone Ebreo nel Rinascimento. Freud e Jung scriveranno pagine memorabili sulla sessualità e sull’amore. Per il primo la libido è l’energia che sta alla base dell’intera vita psichica. Per il secondo l’amore porta al completamento del processo di individuazione, cioè la unione degli opposti psichici. Infatti, già Plotino (Enneadi VI, 9, 9) ha scritto in riferimento agli opposti mitici: “L’amore è della stessa natura di Psiche, e Eros è sempre unito a Psiche nelle pitture e nei miti”. Fromm, che fa parte della psicoanalisi umanista, parla dell’amore come della dimensione che risolve il problema principale dell’uomo, la solitudine. Lacan nel celebre Seminario sulla Lettera rubata di Poe, nel sostenere che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, pone una identità tra donna e verità, tra femminilizzazione e verità.

 Il poema epico indiano Rāmāyaṇa canta del principe Rama che riprende l’amata Sita rapita da un demone. Omero canta l’amore e le passioni umane, ai quali non sono estranei gli dei. Pensiamo alla figura di Circe. Così scrive Miller: “Ci sembra di sapere tutto della storia di Circe, la maga raccontata da Omero, che ama Odisseo e trasforma i suoi compagni in maiali. Eppure esistono un prima e un dopo nella vita di questa figura, che ne fanno uno dei personaggi femminili più fascinosi e complessi della tradizione classica. Circe è figlia di Elios, dio del sole, e della ninfa Perseide, ma è tanto diversa dai genitori e dai fratelli divini: ha un aspetto fosco, un carattere difficile, un temperamento indipendente; è perfino sensibile al dolore del mondo e preferisce la compagnia dei mortali a quella degli dei. Quando, a causa di queste sue eccentricità, finisce esiliata sull’isola di Eea, non si perde d’animo, studia le virtù delle piante, impara a addomesticare le bestie selvatiche, affina le arti magiche. Ma Circe è soprattutto una donna di passioni: amore, amicizia, rivalità, paura, rabbia, nostalgia accompagnano gli incontri che le riserva il destino – con l’ingegnoso Dedalo, con il mostruoso Minotauro, con la feroce Scilla, con la tragica Medea, con l’astuto Odisseo, naturalmente, e infine con la misteriosa Penelope”.

 Dai versi di Mimnermo, Saffo, Anacreonte, Ibico alle poesie amorose dei latini: Catullo, Gallo, Tibullo, Properzio, Ovidio. Catullo, pur con tutte le sue scabrosità erotiche, è un autore che usa la lingua latina in maniera superba, anche se il suo latino non si discosta molto da quello parlato. Catullo presenta spesso aiscrologia (uso di parolacce), per questo a lui si addice la massima di Terenzio “non considero estraneo da me nulla di quanto appartiene all’uomo”. Ma presenta anche un lessico sacrale, forse in connessione con il culto della Grande Madre.

 Per la sua grandezza linguistica e letteraria Catullo fu tramandato dai monaci medioevali unico tra i poeti neoteroi (e ve ne erano di grandissimi, come lo stesso Cinna ricordato da Catullo). Catullo fu modello di stile anche per gli ultimi autori italiani che scrissero in latino. Pensiamo a Pascoli, il cui stile in latino viene avvicinato anche a quello di Virgilio. Pensiamo a Leone XIII, che per la molteplicità dei metri è accostabile a Orazio, ma si ispira a Catullo, nonostante la scabrosità erotica.

 Catullo gioca molto con le parole, ad esempio presenta un lessico tecnico militare e giuridico ma che può essere capito anche da profani. Utilizzare un termine militare e giuridico nella sfera amorosa-erotica ha una evidente finalità artistica. Innanzitutto è indice di erudizione, come faceva il greco Callimaco, il più dotto dei poeti antichi (a questo scopo Catullo inserisce anche prestiti o calchi dal greco). In secondo luogo è indice di una relazione libera e creativa con Lesbia. In terzo luogo Catullo vuole essere ironico (per esempio quando metteva un termine tecnico del lessico giuridico come foedus, fides in un contesto amoroso). Catullo poi presenta dei metri veloci e sostenuti che ben si addicono al tema erotico delle sue poesie.

 Inoltre Catullo fonda il lessico amoroso in latino, e il filologo classico Traina tentava di spiegare il dramma interiore di Catullo che si muoveva tra una tradizione che non riconosceva più vitale e l’espressione dell’intenso amore e della intensa passione per Lesbia.

 Dal Decamerone di Boccaccio alla Mandragola di Machiavelli, dalle parole volgari di Pietro Aretino al Piacere di D’Annunzio, dall’Amante di Lady Chatterley di Lawrence alla narrativa sudamericana contemporanea. Dalla straziante vicenda di Paolo e Francesca cantata da Dante nell’Inferno all’interpretazione erotica del Gelsomino notturno di Pascoli, capolavoro della sua capacità di simbolizzazione.

 Pompei è l’unico sito archeologico al mondo che ci dà uno spaccato a 360° della vita quotidiana e sociale di una città antica: è qualcosa di unico. Sono stati ritrovate anche migliaia di iscrizioni sui muri e non solo, dalle quali appaiono elementi molto interessanti. Per esempio le scrivevano anche le donne. Si è discusso molto in merito, nel passato si pensava che tali testi fossero vergati dalle prostitute di Pompei, ma oggi si è capito che si tratta anche di testimonianze di donne emancipate che partecipavano alla vita politica di allora. L’emancipazione della donna romana della classe alta ci era già nota, pensiamo solo a Messalina o a Lesbia, ma da Pompei ci giunge sentore che svolgessero ruoli socialmente sofisticati anche le donne di umile condizione. A Pompei, infatti, c’era una taverna gestita da una certa Asellina, la quale aveva delle dipendenti, ma che partecipavano attivamente alla propaganda politica a favore di certi “candidati”, chiamati così perché andavano in giro con la toga candida, bianca ma non facevano propaganda per sé stessi. Le donne in questione, dette “aselline”, favorivano i candidati, anche graffiando i muri della taverna a favore di questi. Si tratta di una informazione importantissima non solo per il ruolo delle donne nella società romana di Duemila anni fa ma anche per la politica. La donna non era solo un oggetto sessuale o un diletto amoroso, anche se il poeta latino Ovidio lasciò versi bellissimi sull’amore, che poi nell’antichità greca e romana era anche omoerotico: aspetto accettato pubblicamente. Era, infatti, considerato propedeutico all’attività educativa se compiuto tra maestro e allievo o maestra e allieva. Quindi è normalissimo che autori greci e latini parlino sia di amore eterosessuale sia di amore omosessuale.

 Ovidio è un autore immenso, si pone sia entro la tradizione greca e latina, è un eminente enciclopedista, ma è anche facitore di miti, non solo ma canta l’amore con una schiettezza e una profondità che sembra a volte essere un nostro contemporaneo. Il vero classico non smette mai di dire quello che ha da dire. Per di più, egli si pone anche in un atteggiamento di libertà: mentre il semplice poeta canta le storie e la politica le commissiona per scopi propagandistici, Ovidio ha anche ricercato il senso della parola e dell’arte poetica. Ovidio inoltre dà voce a ciò che non piace ai tradizionalisti, cioè va contro il costume sessuale tradizionale e lo fa con una genialità letteraria che incanta ancora oggi. Ovidio scriveva in poesia tutto ciò che voleva, egli cantava con finezza letteraria anche argomenti licenziosi senza che la cifra poetica ne venisse meno. Nell’Ars amatoria Ovidio scriveva cose che non sarebbero piaciute a chi promulgò la legge contro l’adulterio, e lo faceva con tale eleganza stilistica, ironia e delicatezza che non scatenò l’ira dei politici. Grande abilità retorica! Ovidio era retore ma anche giurista, quindi aveva un controllo sofisticato della parola e del concetto, inoltre era anche un grande poeta, che faceva zampillare poesia da argomenti persino scabrosi.

 Ancora. Dalla Lisistrata di Aristofane al raffinato erotismo delle Odi di Orazio e alle Favole milesie di Aristide di Mileto, di carattere licenzioso, nessuna delle quali ci è giunta, ma che sono state molto popolari nell’antichità, pensiamo solo al fatto che Apuleio dichiara di volerle imitare. Dalla Beatrice di Dante alla Laura di Petrarca, alla Diotima di Hölderlin, alla Silvia di Leopardi, alla Carolina di Saba, alla Drusilla di Montale. Goethe scrive molte poesie d’amore per le sue varie fiamme: specie quando la coppia si sta lasciando, Goethe compone le liriche più belle. Ma la sua amante di lunga data e poi moglie, anch’essa cantata, è Christiane Vulpius.

 Dall’Orlando furioso di Ariosto (dal latino furens, cioè “pazzo”, e tale per amore di Angelica) a Madame Bovary di Flaubert. Nella Gerusalemme liberata di Tasso domina il connubio tra amore e morte e il Cantico dei Cantici (8, 6) aveva detto che “… poiché forte come la morte è l’amore”. Nell’originale ebraico questo famoso passo biblico suona ki chazzah kammawet ‘ahabah. La traduzione riportata è la più adottata, perché nel resto del Cantico il ki dopo l’imperativo della frase precedente ha sempre chiaro valore causale, anche se altri hanno visto in questo ki ebraico un valore enfatico, quindi bisognerebbe tradurre con “veramente l’amore è più forte della morte”. Qui il Cantico sta parlando dell’amore umano: la radice del termine ebraico ‘ahabah, “amore”, non è mai usata in tutta la Bibbia in parallelismo con la radice di rechem, che indica l’amore tra Dio e uomo, quindi la Bibbia dà a ‘ahabah un significato prettamente specifico. Questa tesi filologica è rafforzata da una possibile etimologia: ‘ahabah sarebbe da collegarsi all’arabo habba, “respirare forte, essere eccitato” (nel senso della passione dell’amore umano, invece rechem ha come etimologia “viscere materne”, nel senso che Dio è per gli uomini come una madre).

 La Bibbia è una delle grandi fonti della letteratura e dell’altra arte dell’umanità, il suo Grande Codice (Frye). Dalle espressioni linguistiche (“cretino” deriva da “cristiano”) alle opere letterarie. La Ginestra di Leopardi conserva una frase del Vangelo di Giovanni: non solo, certamente al di là del contenuto della Ginestra, che è laico, l’idea del piccolo fiore umile e disprezzato ma sapiente, al quale Leopardi affida le sue speranze, è certamente evangelica. Il Cantico delle creature di San Francesco come genere letterario è un salmo. Moby Dick di Melville si ispira al Leviatano, una creatura fantastica presente nel Libro di Giobbe. Cosa sarebbe la Divina Commedia di Dante, uno dei poeti più grandi dell’umanità, senza la Bibbia? “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura” è la frase di apertura e riecheggia quella di un famoso testo biblico. Shakespeare nei suoi drammi si riferisce almeno 1000 volte alla Bibbia. West ha avuto il grande merito di aver fornito possibili modelli orientali (sumerici, accadici, egizi, biblici) alla base della poesia greca arcaica (Omero e Esiodo), che sta agli albori di tutta la letteratura occidentale. Il contributo della poesia ebraica non si arresta alla Bibbia: se Isaia è il Dante della letteratura biblica, nel Medioevo ci sono stati altri grandi poeti ebrei, pensiamo solo a Giuda Levita. Ma non si ferma alla Bibbia nemmeno il contributo del pensiero giudaico, infatti dopo di essa ci sono stati eminenti filosofi che hanno sviscerato l’uomo sotto tutti gli aspetti: Filone Alessandrino e Saadyah Gaon, Mosè Maimonide e Leone Ebreo, Spinoza e Moses Mendelssohn, Hermann Cohen e Martin Buber, Walter Benjamin e Jacob Taubes, e così via.

 Nella Bibbia compaiono tutte le risorse della lingua e i generi della letteratura di tutti i tempi. Non è un libro ma una piccola biblioteca composta di libri scritti da autori diversi in lingue (ebraico, aramaico, greco) e epoche differenti: secondo il canone cattolico, l’Antico Testamento è formato da 46 libri e ha avuto un periodo di composizione di mille anni (tutto il I millennio a.C), mentre il Nuovo Testamento da 27 scritti redatti durante il I secolo d. C. Anche l’amore trova nella Bibbia una espressione poetica altissima: quello tra maschio e femmina (Adamo e Eva della Genesi, Cantico dei Cantici, Rut) e quello tra uomo e Dio: pensiamo ai Salmi o a Osea o a Cristo che per eseguire la volontà del Padre si fa mettere in croce o a Stefano che per amore di Dio diviene il primo martire del cristianesimo.

 L’amore è cantato nei versi indiani dell’Amarucataka e del grande poeta Kalidasa e della Govinda-Gita e della Caurapañcāśikā, per citare solo la crema. Il Tantra, poi, è una serie di filosofie e pratiche indiane antiche e esoteriche (non ortodosse) al di fuori della sfera vedica. In sostanza, semplificando, possiamo dire che per il Tantra esiste solo la Dea Madre, Shakti, la quale si estende nel mondo sia trascendente sia immanente proiettando sempre sé stessa. La parola Tantra, infatti, deriva da una radice che significa “estendersi”. Nel senso transitivo, quello che il Tantra estende è la conoscenza della realtà divina. Di conseguenza, la parola si applica a una classe di scritti sacri, chiamati anche Tantra o Āgama. Di ignota paternità e età controversa, si ritiene che i principali Tantra non siano antecedenti al XII o XIV secolo, anche se le pratiche che registrano hanno radici nel periodo pre-buddhista, circa duemila anni prima. La pratica Tantra consiste nella unione con il Divino: per superare i limiti del corpo, della mente e dell’intelletto la pratica fa uso proprio del corpo, della mente e dell’intelletto. Il concetto di salvezza veicolato dai Tantra è in opposizione con quello promulgato dai sistemi ortodossi, in quanto alla salvezza per grazia divina (come nella bhakti) si sostituisce una salvezza ottenuta con una pratica specifica. I testi riportano numerosi esempi di pratiche rituali con elementi sessuali, tuttavia l’effettiva circolazione di questi testi e la performance di questi riti doveva essere piuttosto limitata e/o simbolica. L’aspetto sessuale ha tanta risonanza nella percezione occidentale del tantrismo perché è un elemento del tutto originale; da ciò però ne è derivata una visione falsata del tantrismo come dottrina licenziosa e amorale.

 Pensiamo poi nella prima poesia araba al nasib, cioè l’introduzione erotica della qasida, il più importante genere poetico arabo, di argomento assai vario. Ricordiamo il nucleo originario delle Mille e una notte e le poesie erotiche del grande poeta musulmano persiano Hafiz. Come la lirica mistica con Rumi raggiunge una vetta solitaria mai più scalata, così il genere del ghazal, in particolare nella variante politematica, raggiunge come forma in Hafiz il suo punto più alto e irripetibile. Il ghazal è un tipico genere erotico della poesia persiana, ma non solo. Mentre Rumi parla esplicitamente di esperienze mistiche, Hafiz parla di esperienze erotiche che sembrano doversi interpretare a volte come simboli di esperienze mistiche. È stato possibile ravvisare nella sovrapposizione delle due sfere (sensuale e mistica) un mezzo stilistico cosciente in Hafiz. Stilisticamente il ghazal canta la bellezza facendo spesso delle comparazioni, spesso abbreviate a una metafora. La comparazione a volte è iperbolica (i rubini delle labbra della creatura amata sono superiori a tutti i rubini della realtà). Spesso la comparazione è fantasiosa, come quando la rosa “ride” per la presenza dell’amato. In questo genere le metafore sono tradizionali-standard, ma allo stesso tempo il poeta le dinamizza con motivi originali. Quindi la tradizione rimane solida senza però cristallizzarsi.

 È significativa la rappresentazione dell’amore nel poema persiano Vis u Ramin, uno degli innumerevoli racconti d’amore che il Medioevo islamico ci ha lasciato, anche se si innalza molto rispetto alle altre opere superstiti. Il poeta è Gurgani, il quale ha utilizzato una stesura in pahlavi di altro autore trasformando in poesia sofisticata un racconto privo di senso artistico. La sua opera infatti è in neopersiano, anzi uno dei primi poemi in questa lingua.

 Li Shangyin è un grande poeta cinese classico famoso per le sue poesie d’amore, ne ha scritte anche Yehuda Amichai, il più grande poeta ebraico moderno, mentre Nazim Hikmet è il più grande poeta turco del Novecento, famoso anche lui per importanti poesie di tema amoroso. Ma ancora più indietro nel tempo: nei testi sumerici ci sono poemi bal-bal caratterizzati dal dialogo tra amanti, le tavolette accadiche tramandano inni per le liturgie mesopotamiche della fecondità, entro la poesia amorosa egiziana sono famosi il Papiro Harris 500, il Papiro Chester Beatty I, il Papiro di Torino I, l’Ostakon di Gizah.

 Karamzin è stato un grande scrittore russo, il quale orienta il classicismo in direzione sentimentale anticipando tendenze romantiche, per esempio nel romanzo La povera Lisa, nel quale la protagonista si suicida per amore. Nella letteratura bulgara tra Ottocento e Novecento autori come Todorov e Slavejkov superano le finalità utilitaristiche e le intonazioni patriottiche e in pratica iniziano tendenze romantiche innovando la lingua letteraria bulgara. Norwid, grande scrittore polacco anche se misconosciuto in vita, uno dei primi intellettuali europei a visitare gli USA, teorico della funzione sociale dell’arte, sperimentatore del verso libero, scrive anche poesie d’amore. Invece il maggior rappresentante del Romanticismo ceco è Macha, serbando alcuni motivi patriottici. La piena maturazione della letteratura slovena avviene con il Romanticismo, grazie all’opera del filologo Cop e del poeta Prešeren, maggior esponente della lirica slovena. Il maggior poeta romantico serbo è Radičevic, principale innovatore della lirica, la cui opera segna il passaggio a nuove tematiche e a un nuovo linguaggio poetico.

 Non c’è solo l’amore per i nostri simili, ma anche per gli oggetti di tutti i giorni, che assurge a simbolo della nostra stessa esistenza, pensiamo solo al racconto Il cappotto di Gogol’, nel quale una persona insignificante sogna di possedere un buon cappotto da far risaltare sul lavoro e agli occhi degli amici, è il suo sogno nel cassetto fino a quando si avvera, ma quando lo indossa per ostentarlo qualcuno glielo ruba dal guardaroba. Il protagonista di questo racconto è simile a un Vinto verghiano: l’umile quando sta sul punto di riscattarsi viene di nuovo spinto in basso dal destino. “Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol”, scriverà Dostoevskij. È la metafora di una esistenza piena di speranze e di sogni, di amori e infatuazioni, ma che si risolve in un nulla di fatto, come a dire che l’amore è un’illusione e che alla fine avrà il sopravvento la quotidianità e la banalità.

 L’arte per immagini ha donato volti femminili e maschili bellissimi, dagli artisti greci (le korai e i kouroi di artisti sconosciuti, poi nomi come Fidia, Skopas, Policleto) alle produzioni contemporanee, che hanno spesso annullato i limiti di spazio e tempo. Pensiamo all’arte cinematografica, per la quale è possibile ancora oggi ammirare stando davanti al televisore o al PC o nel bar con lo smartphone tra le mani, una delle attrici più famose per la bravura, Grace Kelly, la cui tempra artistica è stata definita “ghiaccio bollente”. Ci sono registi talmente padroni della macchina da presa che sanno suscitare emozioni nello spettatore anche da una delle scene più difficili da girare, il pranzo con molte persone, dove le voci si accavallano, le inquadrature si sprecano e non è facile far risaltare agli occhi del fruitore l’essenziale. L’arte cinematografica per essere apprezzata a pieno non dovrebbe essere goduta con il doppiaggio, che è come rivestire di un telo una Ferrari, il doppiaggio snatura le qualità dell’attore, quindi chi si vuole formare nello specifico dovrebbe vedere solo gli originali. Anche se la magia di un film in definitiva è data dal montaggio. Il film poi racconta una storia, è sempre una scultura del tempo, il messaggio è sempre fondamentale.

 Per l’arte contemporanea non dimentichiamo poi le installazioni, le performing, le opere digitali, e quelle delle nuove tecnologie. C’è però chi ha criticato il mondo contemporaneo anche sotto l’aspetto dell’industria culturale: con la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte quest’ultima perde il suo valore di universale per assumere quello di particolare, insomma diventa una merce tra le tante, un feticcio buono usato dai ricchi per arricchirsi ancora di più, è il fenomeno che Danto chiama: trasfigurazione estetica del banale, del quotidiano.

 La bellezza artistica, che suscita amore devozionale, ammirazione, imitazione, varia nel mondo. In Occidente l’ideale erotico è una donna snella: 90. 60. 90. In India invece deve essere cicciottella. In Occidente il cane è qualcosa di rassicurante, quindi è visto in maniera positiva, ma nel mondo biblico era segno di maledizione. In India una funzione simile al cane è svolta dall’elefante, quindi nei templi induisti si incontrano spesso raffigurazioni del dio dalla testa di elefante, Ganesha, colui che aiuta, rimuove gli ostacoli ed è benevolo. L’arte indiana ha connotazioni divine, studia attentamente il corpo umano e ha una vivace sensualità. L’epoca classica è il periodo Gupta (IV-V secolo a. C.), in concomitanza con uno sviluppo impressionante di tutta la civiltà indiana. Gli indiani danno un valore diverso al sacro, fortemente connotato di elementi sensuali. Fuori da molti templi induisti, infatti, sono presenti raffigurazioni pornografiche: questo per scoraggiare chi si avvicina al tempio senza avere la vocazione spirituale, per lui sarebbe meglio continuare ad amare il mondo materiale invece di pensare al mondo divino.

 Il buddhismo cinese ha questa singolarità. Il buddhismo nacque in India nel VI secolo a. C. in opposizione all’induismo e venne introdotto in Cina dal I secolo d. C. Nel buddhismo in genere il bodhisattva è colui che si è risvegliato, che ha ottenuto la liberazione, e in genere viene raffigurato come maschio, ma nel buddhismo cinese avviene il passaggio dalla figura maschile a quella femminile e quindi viene identificato con Kuan-Yin, la dea della compassione, che allevia le sofferenze di chi ricorre a lei. Questo cambiamento di forma artistica è molto significativo in una società dove l’ideale della perfezione è rappresentato dal maschio. Le culture e le religioni orientali sono molto sincretistiche. In Giappone, quando fu introdotto il buddhismo, i caratteri dell’autoctono scintoismo si fusero anche artisticamente con quelli della nuova religione. In Corea, la terra del Calmo Mattino, il sincretismo è ancora più accentuato. La Corea non ha mai avuto una religione autoctona, se non forse il culto del capostipite del popolo coreano Tan’gun, ma ha preso dall’esterno miriadi di religioni, culti e dottrine componendoli spesso in maniera fantasiosa, tanto che un occidentale non capirebbe. All’interno delle pitture parietali delle tombe di Koguryo convivono tematiche che si rifanno con molta disinvoltura alla tradizione buddhista e a quella taoista componendo delle magie decorative tra le più illustri dell’Asia antica.

 Addirittura nell’arte islamica si ha il rifiuto delle immagini, come voluto dal Corano: imitare la natura sarebbe un blasfemo tentativo di imitare l’opera di Dio, quindi l’artista musulmano stilizza gli elementi naturali in creazioni quasi astratte, che trasformano e quasi mimetizzano le realtà naturali. Per la stessa ragione il costruttore islamico, per non offendere la bellezza della natura, si serve di materiali umili e facilmente deperibili (mattone crudo, fango pressato, stucco) e nasconde le strutture sotto parati decorativi che tolgono organicità all’insieme. Questo spiega la fortuna straordinaria che ebbero l’arabesco, nato dalla estrema stilizzazione del motivo vegetale, e la calligrafia araba come decorazione nelle moschee.

 Anzi per tutte le religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo, Islam) le immagini sono sospette, se non addirittura distrutte a volte per odio iconoclasta, in quanto esse possono portare alla idolatria. Nell’ebraismo la Bibbia vieta espressamente di farsi immagini di Dio, nel cristianesimo a vicende alterne le immagini sono state o accettate o distrutte, nell’Islam è sempre esistito un odio iconoclasta, anche se non sempre, in quanto moschee e case possono possedere qualche immagine secondaria. Pensiamo alla iconoclastia cristiana nel periodo bizantino. Nell’anno 816 il vescovo di Torino Claudio iniziò a distruggere le immagini cristiane della città, anche la croce, con le proprie mani. Pensiamo poi a quella protestante dopo la Riforma luterana soprattutto in Germania, in Olanda, in Inghilterra per prendere le distanze da Roma.

 L’arte in tutte le sue forme avvicina al Divino e, se esprime l’amore, avvicina ancora di più. Le persone si trovano in scacco in questa esistenza, come dicevano gli esistenzialisti, e cercano una via di salvezza in varie maniere. Simone de Beauvoir diceva che la stupidità rende felici immotivatamente, quindi deve essere combattuta. Questa filosofa esistenzialista si allacciava profondamente al pensiero di Heidegger e soprattutto di Sartre, il quale diceva che il non seno della vita crea uno stato di nausea irrefrenabile e fa stare molto male. Quindi possiamo dire che l’esperienza estetica e l’esperienza amorosa, assieme a quella religiosa, sono le vie più adoperate dagli esseri umani per trovare redenzione, anche se non le sole.

 Ma cosa è l’arte, ma anche la filosofia, se non un atto di amore verso la sfera ideale, spirituale, quindi trascendente e divina, che sta dietro la bellezza e il pensiero sofisticato? L’arte ricerca il bello esteriore, la filosofia il bello interiore. Ma entrambe queste categorie vivono della idea spirituale che occorre amare per realizzare un dipinto o un trattato filosofico. Per fare un’opera d’arte bisogna amarla più della propria vita e più del guadagno!

 La fruizione dell’arte dà senso alla vita, un po’ parafrasando Nietzsche. La filosofia greca antica consisteva nel guarire, era un modo di guarire, come diceva Hadot. Plotino la considerava un modo di scolpire sé stessi: per i greci la scultura era un togliere al blocco di pietra le parti inutili per realizzare la figura, così la filosofia antica consisteva nel togliere dal proprio animo le parti superflue e sbagliate e quindi trovare la via della felicità. Ma non si può fruire dell’arte o servirsi della filosofia senza quell’atto di amore che permette la fruizione. Non si può far entrare in sé qualcosa che non si ama.

 Gli italiani hanno una forte propensione nei riguardi del bello artistico, l’Italia conserva capolavori ammirati da tutto il mondo. Tutti riconoscono che il Rinascimento, che ha inaugurato la modernità, sia stata una elaborazione squisitamente italiana. Il pensiero sistematico, filosofico ma non solo, anche scientifico e altro, per come oggi risulta nel mondo occidentale attuale, deriva dai greci, dai romani e dal medioevo: in questo processo l’Italia ha svolto un ruolo cruciale. A Bologna vi era una importantissima sede degli studi di diritto, che ha fatto da ponte tra il diritto romano e quello attuale. A Salerno una rinomatissima sede degli studi medici, che ha ripreso non solo la scienza occidentale ma anche quella araba. Firenze aveva importantissimi mecenati che assistevano gli artisti e gli studiosi. Venezia per secoli è stata la città della musica, il luogo dei madrigali, e la fama tuttora esistente di Monteverdi dovrebbe dire qualcosa. Il melodramma italiano nasce con Verdi, e il Romanticismo di Verdi non ha nulla da invidiare a quello di Beethoven, Mozart, Schumann, Schubert e a quello tardivo di Wagner, Brahms, Strauss. La musica si associa spesso all’amore e ai forti sentimenti in genere, anche quella più moderna e più “dura”. Pensiamo al fatto che quando le band rock, diciamo hard rock e metal, fanno delle ballate d’amore, delle musiche lente, riscuotono pressoché sempre un successo planetario.

 Se oggi telefoniamo lo dobbiamo alla scienza occidentale, costituita con il metodo sperimentale da Galilei. Così come se subiamo una operazione chirurgica che ci salva la vita magari andando in America con l’aereo.

 Se oggi parliamo di diritti di proprietà lo dobbiamo al diritto romano. Kelsen evidenziava che il diritto concerne comportamenti umani quali eventi percepibili mediante i sensi, poiché si svolgono nel tempo e nello spazio. Il comportamento umano è un frammento di natura e come tale è determinato dalla legge di causalità. Ma ciò che trasforma questo evento in atto giuridico lecito o illecito, non è la sua concreta esistenza naturale bensì il significato attribuito dalla norma giuridica posta dall’autorità. Questa concezione moderna dei fatti, contemplata da tutti i governi occidentali, dipende dalla riflessione del diritto romano. Kant, prima di Kelsen, scriveva che “il Mio giuridico è quello con cui sono legato in modo tale che l’uso che l’altro potrebbe farne senza il mio consenso mi lederebbe. La condizione soggettiva della possibilità dell’uso in generale è il possesso”. Possesso e proprietà non sono la stessa cosa: il possesso di un bene che ne garantisce l’uso può portare a lungo andare alla proprietà (è l’istituto dell’usucapione, Codice Civile italiano art. 1158). Per il diritto romano la proprietà di un bene era assoluta: usque ad sidera, usque ad inferos, “fino al cielo e fino alle profondità del terreno”. E ha condotto, sebbene con qualche modificazione, ai diritti reali che oggi ci sembrano ovvi (diritti soggettivi tipici che conferiscono un potere assoluto e immediato su una cosa). Invece per il diritto barbarico la proprietà era differente, così come per i diritti orientali.

 È vero che la stella polare della cultura mondiale, oggi, non è più l’Occidente, anche se i giornali di qua non ne parlano. Il fulcro del mondo si è spostato nell’Estremo Oriente. Ma, in definitiva, il presente non può non poggiare sul passato, dal quale si evolve per raggiungere il nuovo.

 Tutto questo è frutto di un preciso atto di amore. L’amore verso le idee. L’uomo opera sempre una scelta tra materia e mondo delle idee. Se è possibile fare una operazione in banca con il telefono, è perché ricercatori di tutto il mondo passano i sabato sera non a amare cose materiali, seppur legittime, ma ad amare e servire con spirito di sacrificio il mondo delle idee. Così come se qualcuno fa un bel quadro oppure compone un romanzo del tipo di Guerra e pace, che ancora oggi infiamma chi lo legge. Nel passato i medici e i farmacisti erano erboristi, ma spesso acquistavano delle erbe curative da personaggi che non si facevano scrupolo di ingannarli spacciandole per quelle vere, quindi nelle facoltà di una volta vi erano gli orti botanici, dove il futuro medico o farmacista imparava a conoscere le erbe curative così da non essere ingannato dai truffatori. Gli orti botanici divennero centri di studio e ricerca riguardo l’effetto delle varie piante. Per secoli, prima dell’avvento dei farmaci industriali, della chirurgia di ultima generazione e di altre terapie più efficaci, i medici salvavano la vita delle persone conoscendo le piante, per esempio la belladonna abbassa la febbre. Perché? Perché ci sono stati uomini che hanno sacrificato del tutto o comunque in parte, il loro mondo materiale per amare il mondo delle idee. È dal loro amore nei confronti del mondo spirituale, lo studio, la conoscenza, la ricerca, che possiamo somministrare la morfina a un paziente con infarto del miocardio annullando il dolore, che è uno dei più terribili che esistano, simile a quello della colica renale.

 Esiste sia un amore materiale (carnale) sia un amore spirituale (verso il mondo delle idee: la sublimazione dell’amore carnale, l’amore per l’arte, per la filosofia, per la cultura, per Dio).

 L’amore carnale e quello spirituale hanno un punto di contatto nella tragedia greca e poi, da lì, in tutta la storia della musica. Come? Attraverso l’ebrezza suscitata dal vino. Il vino dà eccitazione, prepara all’incontro sessuale e alla sfrenatezza del ballo, ma, secondo Nietzsche, si fa arte nella nascita della tragedia per poi accompagnare la storia della musica fino ad oggi. Nietzsche in un famoso saggio, tuttavia giudicato da von Wilamowitz non adeguato filologicamente, contrapponeva due divinità greche: Apollo e Dioniso. La prima è il simbolo dell’ordine, mentre Dioniso è il dio della sfrenatezza degli istinti di base, ma al tempo stesso incarna un principio estetico che trova la propria ragion d’essere nella capacità della musica di suscitare l’ebrezza artistica, di far sgorgare il canto a Dioniso sotto la diretta influenza del vino. I ditirambi intonati a Dioniso nel corso delle danze orgiastiche delle menadi e dei coribanti (i sacerdoti di Cibele) erano accompagnati dal suono di tamburi e flauti, strumenti musicali di elezione per guarire le malattie, come ad esempio l’epilessia, o per favorire la catarsi, come notava Dodds. Testimonianze antiche (Archiloco, Platone, Pitagora) ci portano ad affermare che la musica e il vino sono tra loro uniti da almeno tremila anni fino oggi. Ma in tutto il mondo o quasi il vino viene esaltato per le sue qualità. Pensiamo anche al poeta persiano medioevale Omar Khayyam, riconosciuto come il più importante cantore del vino e dei suoi effetti benefici dal punto di vista privato, sociale, filosofico e mistico. La sua opera più celebre sono le Quartine, che dedicò anche ad esaltare il vino.

 Secondo il grande maestro del sufismo iraniano Ruzbehan esiste una unità profondissima tra amore umano e amore divino. Dio, colto nel suo aspetto più esoterico, intimo e segreto, è al contempo l’amore, l’amato e l’amante. Per capire Dio occorre capire l’amore umano, materiale: esso anziché essere un ostacolo, come per esempio insegna lo gnosticismo, è invece qualcosa che porta a Dio. Scriveva questo grande maestro sufi: “Il segreto della divinità (lāhūt) è nell’umanità (nāsūt), senza che la divinità subisca l’alterazione di un’incarnazione. La bellezza della creatura è il riflesso diretto della bellezza divina”. In questo mistico riveste un ruolo fondamentale la figura retorica dell’anfibolia (iltibās), cioè egli passa deliberatamente dal piano materiale delle creature al piano spirituale del Creatore.

 Il denominatore comune di tutti i tipi di amore (materiale e spirituale) è l’uscire fuori da sé verso un oggetto: sensibile o ideale. Quante persone hanno perso la propria vita per un ideale, ritenuto più importante della propria persona? Quanti martiri nella storia di tutte le religioni? A volte anche l’amore carnale fa uscire fuori da sé talmente prepotentemente che, per un amore deluso, si mette in atto il suicidio, come fa Didone.

 Il libro IV dell’Eneide di Virgilio, il più importante poema epico latino, è dedicato a Didone, la mitica prima regina di Cartagine che si innamora di Enea, però poi abbandonata si suicida. In quelle parti del poema nelle quali Didone è protagonista (da protos, “primo”, e agonistes, “lottatore; attore”), cioè è il primo personaggio, viene caratterizzata in maniera diretta, cioè Virgilio direttamente ce la descrive. Dobbiamo però fare attenzione anche all’universo nel quale Didone si evolve, all’ambiente, all’atmosfera nella quale si muove. Gli studiosi hanno trovato delle relazioni significative tra Didone e la sua reggia, Didone e Cartagine, Didone e la navigazione che dalla Fenicia la porta a Cartagine, Didone e la tempesta, il temporale durante il quale si consumerà il primo incontro d’amore con Enea, che è un temporale meteorologico, ma è anche una tempesta dell’anima che segnerà l’inizio di una storia che poi farà registrare un finale funesto, appunto il suicidio; e poi Didone e l’ambiente nel quale viene allestita la pira accanto alla quale questo suicidio si consumerà.

 Per cui l’ambiente nel quale il personaggio si muove concorre alla delineazione del carattere e questa è una strategia che l’epica apprende dal teatro, cioè dal genere drammatico, pensiamo, ad esempio, ad un personaggio che ci è noto in forma ampia attraverso la tragedia sofoclea, cioè a Filottete: egli è un personaggio solitario, intrattabile nella misura in cui per esser stato punto ad un tallone viene abbandonato nell’isola di Lemno da solo, ebbene l’ambiente nel quale si muove sin dall’esordio della tragedia è lo sperone roccioso che è il parallelo più idoneo a descrivere un personaggio isolato all’interno dell’isola e “difficile”, “spigoloso” come lo sperone roccioso che apre la tragedia sofoclea.

 E così i critici studiano Didone anche nel sistema di personaggi all’interno del quale si muove, in rapporto alla sorella Anna e al carattere della sorella e alla funzione che la sorella Anna svolge; in relazione ad un personaggio assente, ma sempre immancabilmente presente ai fini della narrazione, cioè il defunto marito Sicheo, che è stato ucciso dal fratello di Didone Pigmalione il quale ne ha determinato poi la fuoriuscita da Tiro, l’esilio e l’approdo nella terra di Cartagine; e poi soprattutto in rapporto a Enea.

 Questa caratterizzazione può avvenire in una molteplice gamma di modalità, ma certamente il primo indizio a questo scopo è fornito dal suo nome proprio. Spesso in letteratura il nome è importante soprattutto quando è un nome eloquente, cioè portatore di un significato.

 Ebbene la nostra Didone ci è nota attraverso tre nomi: un nome è quello di Theiosso; un altro nome è quello di Elissa che è nome di origine fenicia (il nome fenicio era ῾Allīzāh); e un nome è quello che più comunemente e solitamente usiamo ciò Dido, Didone.

 Colui che per primo ha riflettuto sui tria nomina, è un autore molto antico, Timeo di Tauromenio, il quale ci ha conservato una testimonianza frammentaria: frammento 82 Jacoby. Timeo dice che costei era chiamata in lingua fenicia Elissa e che era sorella di Pigmalione, re di Tiro, da lei – aggiunge – fu fondata Cartagine in Libia, essendole stato infatti ucciso il marito da Pigmalione, imbarcò le ricchezze su navi e fuggì insieme ad alcuni dei concittadini e, dopo aver sofferto molte traversie, approdò in Libia. Dai libici, per il fatto di aver a lungo peregrinato, fu chiamata in lingua indigena Deido. Quindi il nome di Didone, stando alla testimonianza di Timeo di Tauromenio, sarebbe un nome di origine libica, motivato dal fatto che ella aveva fatto un grande giro, una grande peregrinazione.

 Timeo continua così: dopo aver fondato la città sopradetta, poiché il re dei libici voleva sposarla, Didone opponeva un rifiuto, tuttavia costretta dai concittadini finse di dover compiere un rito allo scopo di sciogliersi dai giuramenti, allestita una grandissima pira nei pressi della sua dimora, dopo averla accesa, vi si gettò sopra dall’alto della reggia. Quindi Timeo non parla minimamente di Enea e infatti è testimone di una variante del mito di Didone.

 Vediamo in dettaglio questi nomi. Il nome di Theiosso non è altro che la forma grecizzata del nome Elissa, che ha una radice fenicia, ma l’interpretazione etimologica di questo nome, Elissa, è piuttosto discussa. È correlata, infatti, alla composizione di due parole: la prima parola è El, la seconda è Issa: il nome significherebbe Donna Divinità (ēl ‘iššā). Oppure si spiegherebbe anche con: El-Essà, che sarebbe una espressione di valore locativo che farebbe riferimento al fuoco, quindi “nel fuoco”. È preferibile la prima interpretazione e quindi vedere dietro al nome Elissa il riferimento ad una donna divinità. Come fecero i greci stessi: Theiosso, che è la forma grecizzata del nome di Elissa, ha in sé il termine theòs, che indica la divinità.

 Timeo di Tauromenio poi dà una spiegazione anche della parola Dido e riconnette questo termine con la peregrinazione e Virgilio stesso dimostra di essere consapevole di questa matrice etimologica del termine Dido perché talvolta correla il nome Didone con espressioni che hanno a che fare con il suo viaggio da Tiro fino a Cartagine. Il contenuto noetico del “viaggio” serve a indicare anche il carattere lunatico di Didone, cioè di persona instabile, preda di passioni forti e incontrollate che la fanno “viaggiare” per situazioni sconvolgenti, dal pazzo innamoramento al suicidio.

 Come abbiamo detto, Timeo riferisce che il nome Didone sia di matrice libica. Lo possiamo intendere anche se lo correliamo ad una radice semitica che è costituita dal nesso -NDD e che concorre con anche il nesso -DWD che sono radicali correlati all’idea di regalità, ma anche all’idea di un capo che è allo stesso tempo guerriero. E’ appunto da questi radicali di origine semitica che discende un altro nome a noi noto con l’assonanza in D che è il nome di David che appunto è nella Bibbia il capo e re, il capo guerriero, nella misura in cui affronta Golia ed è anche re, nella misura in cui è capo del suo popolo Israele, per cui dietro questa denominazione di Didone come Dido noi non dovremo vedere solo il riferimento alla peregrinazione di questa eroina come dice Timeo di Tauromenio, ma dovremo vedere anche il riferimento al suo essere regina, come proprio Didone è detta all’inizio del IV libro: At regina. Ed è una regina dotata di forza virile che è un dato sul quale insiste molto anche la esegesi virgiliana antica, se noi infatti andiamo a leggere le testimonianze di Servio e di Servio Danielino (la prima ad Eneide 4, 36, ma anche ad Eneide 4, 674; 1, 340; 4, 335) vediamo che Didone viene da loro così interpretata: Dido, id est virago, per cui anche gli esegeti antichi di Virgilio, Servio prima di tutti, stabiliscono l’equazione che abbiamo già lumeggiato parlando della etimologia semitica di questo termine fra Dido e virago (“donna virile”), quindi è Dido nella misura in cui è donna guerriera. E allora noi dovremmo andare a vedere anche quali elementi ci connotano così Didone prima di connotarcela come una eroina elegiaca, innamorata e molto femminile; infatti nel I libro dell’Eneide verrà detta dux femina facti, Didone decide di trasferire il suo popolo da Tiro a Cartagine e si comporta come un dux, come una guida, un condottiero militare.

 In Didone l’amore appare come una passione che porta allo sfacelo di sé e degli altri, tema già presente nell’Ippolito di Euripide, e ancor di più nel personaggio di Medea che per punire Giasone di averla lasciata arriva ad uccidere i figli. Questa dimensione terribile dell’amore la incontriamo anche nella passione tra Abelardo e Eloisa e nel teatro shakespeariano (Romeo e Giulietta, Otello).

 La tragedia Medea di Euripide è impressionante per sentimenti dolorosi e costruita in maniera geniale. Dal v. 38 Euripide prepara magistralmente il figlicidio: introduce una Medea dall’animo violento e che potrebbe fare del male a qualcuno, ma non anticipa direttamente che farà male ai figli, mantenendo le distanze e al tempo stesso preparando delicatamente il finale tragico.

 Vediamo da vicino questi versi. “Ha un animo violento e non tollererà di essere maltrattata; io la conosco e ho timore che lei spinga una spada affilata attraverso il fegato, dopo essere penetrata in silenzio nella stanza dove il loro letto è disteso, oppure che uccida il sovrano (cioè Creonte) e colui che ha contratto le nozze (cioè Giasone) e che poi si procuri una sventura maggiore”. “Animo” è nell’originale greco phrēn, letteralmente “diaframma”. “Ho timore che lei“ è nell’originale greco deimainō te nin, dove nin è al posto di autēn. “Dopo essere penetrata in silenzio nella stanza dove (ina) il loro letto è disteso”: molti editori considerano il verso come interpolato, quindi non lo aggiungono all’edizione; ina non ha senso finale, ma quello originale locativo.

 “È tremenda e chi entri in inimicizia con lei non facilmente potrà riportare il canto della vittoria”. Nell’originale greco abbiamo “certamente (ge) non (outoi) qualcuno (tis) imbattendosi nel suo odio riporterà facilmente (radiōs) il canto della vittoria”, cioè “nessuno riporterà facilmente il canto della vittoria”.

 “Ma ecco i bambini, che hanno finito le loro corse, giungono qui, senza avere affatto coscienza dei mali della madre; un animo giovane non ama soffrire”. “Ma ecco” (all’oide) sarebbe detto oggi la didascalia del dramma scenico. “Corse” (trochōn) potrebbe significare anche “giochi con il cerchio”.

 Pochi versi dopo parla la nutrice: “… per i buoni servi è una disgrazia quando le cose dei padroni vanno male e questo tocca il loro cuore. Io, infatti, sono giunta a tal punto di sofferenza che si insinuò in me il desiderio di venire qui per dire alla terra e al cielo le vicende della mia padrona”. Suggestiva l’immagine del “toccare il cuore” (phrenōn anthaptetai), che è l’immagine figurata del “toccare il diaframma”. Perché la nutrice grida ad alta voce le sofferenze della padrona? Per consolazione (cioè per sfogarsi) oppure, dato che Medea è la discendente del Sole, per dirlo direttamente al Sole affinché questi intervenga.

Fonte immagini: Wikipedia

 

Bibliografia

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Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 39 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

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