Anche quest’anno arriva Halloween con il suo carico di infantilismo (dolcetto o scherzetto), consumismo dominato dal colore arancio, feste tematiche con costumi satanici. Le zucche che danno il colore – insieme con il nero e il viola cimiteriale dei travestimenti – sono il simbolo di questa giornata coloniale, estranea alla nostra cultura e alla nostra tradizione spirituale.
Nell’iconografia e nella prassi, molte zucche vengono forate affinché assumano un aspetto vagamente umano: buchi che richiamano gli occhi, il naso, la bocca. Zucche vuote, a imitazione di quelle di popoli completamente separati da se stessi, in attesa di un’occasione qualsiasi per acquisti, consumo, feste. Sembra altresì che il periodo di Halloween sia sfruttato da loschi figuri in cerca di adepti per ogni genere di occultismo.
In pochi anni Halloween ha sbaragliato la festa di Ognissanti e la ricorrenza dei defunti. Una stazione della Via Crucis del mondo al contrario. La Chiesa batte in ritirata come su tutto il resto: le zucche vuote hanno conquistato il territorio; visitare la tomba dei nostri cari in questo periodo stringe il cuore due volte: al rinnovato dolore della mancanza si aggiunge il deserto. Poca gente, quasi solo anziani con i fiori in mano e l’espressione smarrita. Scriveva G.B. Vico, il massimo filosofo italiano e il primo antropologo, che tre elementi caratterizzano ogni civiltà: matrimoni fastosi, una qualche forma di religione e il culto dei morti. Del matrimonio, ridotto ad aspirazione per omosessuali, meglio tacere, la religione è un residuo morente; il destino del corpo morto è di non essere neppure più seppellito. Presto il camposanto diventerà area edificabile.
Quando prende la malinconia osservando macerie, serve leggerezza, l’unico mezzo per dire la verità. Perciò, in occasione di Halloween, il giorno delle zucche vuote, avanziamo una modesta proposta che ha il merito di anticipare i tempi della dissoluzione , praticando una rapida eutanasia alla civilizzazione agonizzante. Se il mondo è capovolto, bisogna imparare a muoversi a testa in giù, rimuovendo senza rimorso tutto ciò che ingombra il cammino del radioso futuro che avanza. Per dirla da sapientoni fingendo spessore intellettuale, citiamo il vecchio Hegel. La (falsa) “libertà universale, non può produrre nessun’opera e nessuna azione positiva; ad essa resta solo l’attività negativa. La libertà universale è soltanto la furia del dileguare”.
La profezia scintillante della cultura della cancellazione. Dunque, facciamo presto a liberarci di quel che resta del fardello di ieri. Se il ricordo dei santi e dei morti cede il passo alle zucche e alle palandrane stregonesche, non ha senso alcuno celebrare il Natale. Chi è nato, poi? Forse il vecchio con la slitta che chiamano Babbo Natale, padre di se stesso. Applausi scroscianti al rettore dell’ università fiesolana che formulerà auguri per la “ festa d’inverno”. Arriva con ritardo, i suoi colleghi anglosassoni lo fanno già; un altro colonizzato. Tuttavia, anch’egli merita un appunto: non offenderà atei e non cristiani cancellando il Natale (ah, già, nacque in Palestina un bambino che da grande fece molto baccano e finì ammazzato…) ma non sarà inclusivo con chi proviene dall’emisfero australe, in cui le stagioni sono invertite e il 25 dicembre cade in estate.
Meglio feste di fine anno. Sì, ma di quale anno? Per convenzione siamo nel 2023, calcolato dalla nascita di quello stesso bambino. Orrore, lavori il cancellino e modifichiamo finalmente il calendario. Potremmo scegliere, per suggellare la sottomissione e l’era nuova, l’Egira, ovvero il momento in cui Maometto abbandonò la Mecca, nel 622 dopo Cristo. Forse è troppo, che ne diranno i cinesi o gli indù? Meglio riavvolgere il nastro e partire daccapo: l’anno 2024 diventi l’anno 1 E.G. (Era Globale). Ci sarà qualche resistenza, ma solo per la necessità di riprogrammare il sistema informatico. L’Homo Deus ce la può fare, armato di algoritmi.
Raggiunto un accordo sul calendario, il resto verrà di conseguenza. Le feste principali rimarranno per non creare fastidi all’apparato commerciale e non urtare la suscettibilità dei sindacati in crisi di rappresentanza. Per il Capodanno nessun problema, tranne in Italia dove il 31 dicembre non sarà più San Silvestro. La nostra proposta è ribattezzarlo, pardon rinominarlo, notte vecchia come lo spagnolo nochevieja. In compenso gli ispanofoni dovranno smettere di chiamare “notte buona”, nochebuena, la vigilia dell’ex Natale. Pollice verso per il 6 gennaio. Festa sì, per non impedire ai bambini di mettere la calza sotto il camino e non accorciare le ferie di fine anno, con gravi danni all’industria turistica. Ma niente Epifania, manifestazione pubblica dell’ ingombrante bambinello palestinese. E niente Reyes, Re (Magi) , l’epifania di lingua spagnola. Rivincita italiana: Befana per tutti, la vecchia che vien di notte con le scarpe tutte rotte e il vestito alla romana.
Accantonate le ricorrenze religiose legate a “quella” nascita, resta Pasqua, un nome neutro. Ovvia la proibizione della settimana “santa”. Qualche perplessità desta il destino, nell’Era Globale, del carnevale e della quaresima. Il primo può’ rimanere: feste, maschere, confusione, spese voluttuarie, tutto ciò che serve al nuovo monoteismo del Mercato. Spiace per il nome, riferito all’abbandono della carne ( caro levare), che può tuttavia diventare la reclame del cibo sintetico, assai caro all’oligarchia. Il destino della quaresima però è segnato. Doppio pollice verso, per il carattere religioso e per il calo dei consumi.
Poco giova cambiare la datazione senza modificare il nome dei mesi e dei giorni, legati alla mitologia classica europea, invenzione di maschi bianchi eterosessuali morti. La domenica, poi, è dies dominicus, giorno del Signore. Fortunatamente nelle lingue nordiche si dice sunday, sonntag, il giorno del sole. Inservibile l’alternativa del calendario giacobino post rivoluzione francese, troppo legato alla stagionalità della nostra porzione di Terra. Meglio i numeri, da uno a sette per i giorni della settimana, già vigente in portoghese (primo, secondo giorno, eccetera). Per i mesi un codice alfanumerico.
Ferragosto richiama l’impero romano (feriae augustae) ma resterà in omaggio alle ferie. Altrimenti, chi li sente quelli dell’ente per il turismo? Qualche sacrificio andrà fatto: abolita la festa dell’Immacolata e anche il 1 maggio, poiché i lavoratori saranno sostituiti dai robot. Toccherà tenerci il 25 aprile per non turbare gli ultimi mohicani. Magari diventerà 25 XYZ9JW, ma ci abitueremo. Mano a mano che delineiamo la proposta, immaginiamo le obiezioni delle zucche vuote. Come faremo con l’estate di San Martino, il bel tempo autunnale? Ci sarebbe l’espressione “estate indiana”, in uso negli Stati Uniti, ma ha controindicazioni. I discendenti dei fieri guerrieri sterminati dai civilissimi coloni ora si chiamano “ nativi americani”. A rigore, anche tale denominazione è imperfetta, giacché il nome del continente proviene dal navigatore fiorentino (bianco, maschio, morto, presumibilmente etero) Amerigo Vespucci. Abolita l’estate di San Martino (tanto c’è il cambio climatico) non resta che ufficializzare il cambio di nome del pianeta. Terra è equivoco e inesatto per un globo fatto in larga parte d’acqua. Gaia, il pianeta vivente, è la scelta migliore.
Il globalismo non tollera limiti e chiama inclusività questa fobia. Dunque, basta con le frontiere e soprattutto con idee e parole che ricordano divisioni artificiose. L’unica diversità ammessa riguarda i mezzi materiali. Niente patria, tanto più che evoca il padre, retrocesso a genitore 2, e neppure “madrepatria”, genitore 1. In tedesco la patria è addirittura “terra dei padri” , Vaterland. Cartellino rosso esteso alla piccola patria locale, Heimat, parola che richiama la casa, inutile in tempo di nomadismo esistenziale. Anche in questo sono avanti i soliti anglosassoni: country, paese, neutro, per niente enfatico, estraneo alla continuità delle generazioni e all’appartenenza.
I genitori 1 e 2 potranno diventare 3, 4 o più in base agli avanzamenti delle tecniche procreative artificiali. La fluidità imporrà di ripensare termini come fratello, sorella, cognato, eccetera. In attesa di una soluzione, da affidare alla superiore sapienza dell’Intelligenza Artificiale, tranquillizza che l’inventiva umana abbia prodotto l’asterisco finale e il segno schwa per neutralizzare i generi. Il problema è il linguaggio orale: ci vorrà tempo per convincere i riottosi (i soliti bastian contrari) a non pronunciare le finali di parola “sessiste” e dire “car signor buongiorno”, o “suocer”. La buona notizia è che l’umana intelligenza ha inventato la “carriera alias”, ossia la libera scelta individuale revocabile del genere di appartenenza e del nome con cui si vuol essere chiamati. Esiste già l’acronimo apposito, in globish: aka (also known as, “anche conosciuto come”) per indicare pseudonimi e nickname d’elezione.
Il limite da valicare è la compresenza delle auto denominazioni – figlie della luce – e delle antiche, residuo del buio. Nomi e cognomi devono spezzare una doppia, intollerabile imposizione. Il nome – che non potrà più chiamarsi “di battesimo”, sotto penna di multe salate con prelievo diretto dal conto corrente, è scelto per noi dai genitori (1 e 2) e talvolta è quello dei nonni. Le zucche vuote non potevano farci nulla sino al fatidico Anno Uno, in cui il nome dato alla nascita sarà reso provvisorio, modificabile alla pubertà, soggetto a cambiamento con semplice atto amministrativo e una piccola tassa, anche per evitare grossolani errori di genere, così numerosi nel passato, quando si chiamava Antonio o Marcella un povero piccino solo perché si rilevava il sesso in maniera empirica, a vista.
Il progresso – bontà sua – la sta facendo finita con metodi e sopraffazioni primitive. Soprattutto, deve cambiare il cognome. Ora è lo stesso dell’ex padre. In assenza, ci si accontenta di quello dell’ex madre. Cognome, “patronimico”, ossia del padre, orribile concetto. Basta con la trasmissione patrilineare, retaggio eteropatriarcale, ma basta con qualunque linea, ovvero continuità. Il cognome matrilineare non farebbe che perpetuare una situazione di obbligo, estranea alla scelta individuale. Chi scrive avrebbe gradito un cognome altisonante, doppio e con predicato nobiliare, ma si è dovuto accontentare, rimanendo segnato per la vita. Ora i cognomi potranno essere scelti e revocati liberamente, eliminando la continuità, cioè la trasmissione, detta anche tradizione.
Liberata l’umanità da fardelli millenari, la divinità Mercato risolverà altri problemi, minori ma non troppo. Il venerdì “nero” degli sconti imposto da Amazon non si chiamerà più Black Friday per rispetto delle popolazioni di colore, e diventerà Smart Friday, venerdì furbo, a significare la superiore civiltà mercantile e consumista. Un piccolo sacrificio toccherà agli innamorati: San Valentino rimarrà – è un’ottima occasione commerciale – ma dovrà perdere il residuo richiamo alla santità. Valentino’s Day, o Love Day andranno benissimo; lanciamo un referendum via Facebook, X, Instagram. Inizierà un tempo bellissimo, divertente, a misura di homo ludens, l’umanità che gioca. Sarà una bella società, fondata sulla libertà, cantavano i Rokes con l’accento anglo di Shel Shapiro.
Queste note sono un semplice sfogo, un amaro sarcasmo, un divertimento come la poesia di Aldo Palazzeschi fatta di suoni senza senso? “Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente! Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire poveretto, queste piccole corbellerie sono il suo diletto.” Al contrario: sono lo sbocco finale, inevitabile, della cultura della cancellazione di cui Halloween è una tappa. Chi non ci crede, consulti i vocabolari della neolingua “inclusiva” delle università anglosassoni, Cambridge, Stanford, Johns Hopkins e troverà i principi, i modi di pensare, le ossessioni delle zucche vuote che stanno diventando regola nella Babilonia occidentale. Scherzetto o dolcetto?
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