17 Luglio 2024
Punte di Freccia

Dritti, verso un infinito luminoso – Mario Michele Merlino

‘Wer gross denkt muss gross irren’, così il filosofo Martin Heidegger, sebbene ci sia chi dubiti che abbia mai pronunciato o scritto una simile espressione. La frase può ben tradursi e si completa, comunque sia la sua autenticità:

‘Colui che pensa nella grandezza, costui nella grandezza è costretto ad errare’.

La ritrovo citata nell’opera di Ernst Nolte dedicata proprio a chi viene – non a torto – considerato il massimo filosofo del Novecento. E nel linguaggio e nel suo senso gli si confà. Partecipa a quei ‘sentieri interrotti’ (die Holzwege), che, prendendo avvio dal limitare del bosco e più ci si inoltra, tendono a disperdersi fino a confondersi nella natura stessa. Chissà se si arriverà alla radura, lo spazio deputato alla luce (non a caso in tedesco radura si dice ‘Lichtung’ che rimanda alla luminosità), o trovare il percorso per la vetta, quella cima ove si contempla la vastità. In ciascun sentiero – e tappe della ricerca dell’essere tra svelamento e occultamento – si raccoglie al contempo quell’andare e il suo avverso smarrimento, quel procedere e il momento del ripiegarsi in muta attesa. Qui l’errare e l’errore si rendono sinonimi…

Mi chiedo – la risposta, però, la porto già in me, ed è ineludibile – se valga pensare in grande per poi trovarsi a vagare incerto e dubbioso. Certo che sì. ‘Amore e coraggio non sono soggetti a processo’, anche se la conclusione è il plotone d’esecuzione nel gelido mattino del 6 febbraio ’45. E’ errare/errore l’Allocuzione per la cerimonia del solstizio d’estate (24 giugno 1933) quando il filosofo così si esprime:

‘I giorni declinano – il nostro animo cresce – … Fuoco! Parlaci: non dovete diventare ciechi nella lotta, dovete invece mantenervi lucidi per l’azione. Fiamma! Che il tuo ardore ci faccia sapere chiaramente: la rivoluzione tedesca non dorme, sparge la sua nuova fiamma tutt’intorno e illumina il cammino sul quale, per noi, non c’è più ritorno’?

Se in ciò vi fu l’errare si delineò l’errore, da che parte comunque stare lo sappiamo.

Ho memoria di una domenica mattina, grigia e gelida. Raggiungo la periferia di Francoforte con il tram. Qui si erge, modesta montagna, il Taunus. La cima la si può raggiungere comodamente con la strada asfaltata, in macchina, parcheggiare di fronte ad un Gasthaus in legno, birra e panini e piatti caldi e patate e wuerstel bolliti con tanta senape. Preferisco inoltrarmi nel bosco e seguire uno dei possibili sentieri. Mi perdo tra nebbia rami intrecciati terreno fangoso e cosparso di foglie morte. Mi trovo, improvviso, un vecchio signore che mi indica il percorso e m’accompagna. Vorrei ringraziarlo, è sparito al limitare del bosco…

Niente paura. Abbandono il terreno mefitico del filosofare nel timore di ingenerare il Chaos, non quello interiore da cui il padre di Zarathustra, il mio amico Nietzsche, si attende veder sorgere ‘stelle danzanti’. Quello ove signoreggia solo quel vorticare di parole che spesso sono alibi a nascondere troppi cattivi pensieri e incapacitanti. (Chi ha letto qualcosina di Bastian Contrario sa come prediliga il raccontare le vicende di uomini e di donne che mi hanno insegnato intorno allo stile ‘in quantità di amore e sacrificio’ (come ebbe a rispondere Codreanu, il Capitano, al giudice che insinuava del losco nei suoi comportamenti) e mi hanno reso ostico e ostile nei confronti degli ‘indecenti e servili’- patentati paludati laureati o/e semplicemente stronzi).

‘Primum vivere deinde philosophari’, a dirla con il senso del realismo che caratterizza la sobrietà di Roma. Qui, però, non della ‘pagnotta’ si tratta ma di quello stile che ad esempio si esplicita nella coerenza verso se stessi le scelte le idee… Ecco perchè mi premuro collocare Martin Heidegger con l’anonimo camerata di Gambettola con Peppe il Matto o con il marò Franco del btg, Lupo.

E’ – e rimane – il linguaggio di Heidegger complesso e tale che ogni traduzione (del resto, tradurre equivale sempre un tradire inconsapevole) si rende arbitrio e limite. Darne una lettura ‘politica’, come hanno fatto alcuni e sono i detrattori, è volgersi alla volgarità del presente, cercare il passaggio più semplice e banale. Chi oserebbe contestare come il Male non fu assoluto né schierato su unico fronte. (Heidegger lo fece, ricordando – nel silenzio ipocrita dei vincitori e dei vinti sottomessi – quei ‘tedeschi dell’Est’ che pagarono con la vita le donne violentate un vero e proprio esodo l’avanzata delle armate sovietiche, in risposta ad Herbert Marcuse che l’invitava a giustificarsi per gli orrori di Auschwitz).

Come scrive Franco Volpi, che fu mente acuta ed esigente interprete:

‘La proverbiale difficoltà del suo linguaggio e la vertiginosa altezza delle questioni da lui affrontate rendono particolarmente ardua la comprensione del suo pensiero’.

E tanto basta. Di conseguenza estrapolare alcune frasi citare dichiarazioni ufficiali, ad esempio, nel breve periodo in cui tenne la carica di Rettore dell’università di Friburgo rifiutarsi di pubbliche abiure e condanne per marchiarlo – e, soprattutto, dequalificare i suoi scritti – è operazione, ripeto, stolida e vile. E la nobiltà dell’uomo oltre che del filosofo sta che seppe resistere alla tentazione di accreditarsi come vittima del tempo e delle circostanze, come fecero in molti e certo più di lui ‘compromessi’.

Nietzsche, di cui Heidegger diede prestigiosa interpretazione quale, al contempo, l’ultimo dei ‘metafisici’ e dissolutore primo della metafisica stessa, proponeva quel ‘prendere le distanze’. Esso indicava non soltanto il piano gnoseologico – nella lontananza lo sguardo raccoglie e si appropria di maggiore ampiezza dello spazio e di ciò che in esso è compreso –, ma un modello di approccio dell’esistenza, sorta di condizione etica per stabilire ciò che va al di là del bene e del male. E ‘Sag, was sollen wir denn tun? – Das Lassen (Di’, cosa dunque è da farsi? Lasciare), così, con inchiostro azzurro e in carattere gotico, omaggio all’ufficiale francese che lo visitava al termine del conflitto e cercava di comprenderne coinvolgimento e suo limite con il nazismo. (Agile libro dal titolo suggestivo, Ricordi di un messaggero della Foresta Nera, di Frédéric de Towarnicki).

Anche qui vi sarebbe da dire tanto ed oltre. Non è l’intento di queste brevi note. Ciò che mi conta, qui come altrove, è mettere in evidenza proprio questo suo rifiutarsi di cedere al facile gioco dell’abiura. Collocarlo in quello spazio dell’esistenza dove si determina lo stile tramite testimonianza. Fino all’ultimo, fino alla celebre intervista, resa al settimanale Der Spiegel, in data 23 settembre 1966, da pubblicarsi solo dopo la sua morte. Nessuna esitazione nel riconoscere come avesse plaudito all’avvento di Hitler al potere, gennaio del ’33, ‘non vedevo allora nessun’altra alternativa’ e, al contempo, riaffermare, di fronte allo strapotere della tecnica e a quale sistema politico possa essere adeguato, ‘non sono convinto che sia la democrazia’…

L’intervista porta come titolo Nur noch ein Gott kann uns helfen e, in Italia, apparve a dieci anni e oltre la morte del filosofo, avvenuta a Messkirch il 26 maggio del ’76, come Ormai solo un dio ci può salvare (in effetti ‘helfen’ indica l’aiuto più che la salvezza – e, forse, non è da poco questa ‘distrazione’). Come intendere il dio a cui si fa riferimento? Non sono in grado di fornire risposta se non ricordare come egli volle, quale epigrafe sulla sua tomba, la scritta ‘Auf einen Stern zugehen, nur dieses’ (In cammino verso una stella, null’altro che questo). Nella notte sono le stelle a guidare i naviganti, in sostituzione e in attesa del rinnovarsi del giorno illuminato dal sole, un asse ruotante su se stesso e quattro i raggi a completarne l’immagine. Mi spingo sul terreno ove pongo le (mie) fondamenta, che pretendono trascendere il contingente l’inutile il superficiale per connettersi ad antichi riti – un azzardo, lo so…

Hannah Arendt, intellettuale ebrea, da giovane discepola e amante di Heidegger, in Le origini del totalitarismo riporta questa affermazione del filosofo:

‘Tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo aveva una patria ed era radicato in una tradizione’.

Orfani, noi, di entrambe le radici. Noi, carnefici e vittime, ormai fedeli solo al nichilismo, illusi forse d’essere libertari nei diritti (‘né Dio né Stato né servi né padroni’, a dirla con un grido di rivolta) e, al contempo, fascisti nei valori (‘anticonformisti per eccellenza, antiborghesi sempre, irriverenti per vocazione’, come ci insegnò Robert Brasillach) ci atteniamo alla possibilità dell’incontro e della testimonianza di tutti coloro che, appunto, hanno saputo, consapevoli o meno, indicarci la via dello stile nell’esistenza. Essere stati in grado di realizzarne in misura adeguata non sta a noi dirlo…

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