18 Luglio 2024
Comunismo Controstoria Storia

Due donne, un unico destino

di Franca Poli
Luisa Ferida e Tina Modotti, due donne, due attrici di un’altra epoca. Due italiane che vissero anni difficili e fecero scelte diverse. Entrambe morirono proprio a causa delle loro passioni, delle scelte d’amore legate alla politica.  Luisa Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farnè, era di Castel San Pietro. La sua storia mai narrata, tenuta nascosta dai miei paesani mi ha sempre affascinata e incuriosita. Era nata il 18 marzo 1914, nella fragranza della terra emiliana, ai confini con la romagna. Marco Innocenti, giornalista de Il Sole 24 Ore, la descrive come una ragazza stupenda. Bruna, impacciata, focosa e “bella da morire” Dice: “Aveva stampato sul viso un broncio accattivante, che portò sempre con sé, nella sua breve vita.

Gli occhi pungenti da zingara, gli zigomi alti, i capelli color carbone, il corpo splendido, il portamento altero. In lei c’era qualcosa di erotico, di torbido e di felino, una sensualità, una rotonda carnalità da bellezza popolana, che conquistò tutti gli italiani di allora.” Divenne uno dei volti più celebri del cinema italiano negli anni ’30-’40, protagonista assoluta dell’epopea dei “telefoni bianchi”. Durante l’estate del 1939 la bella Luisa conobbe Osvaldo Valenti, altro divo del cinema dell’epoca. Si erano incontrati in uno dei più eleganti ristoranti romani, dove cenarono insieme. Di lui si dice che fosse eccentrico, sfacciato, esibizionista, cocainomane, strenuo affabulatore, eterno vagabondo, impenitente sciupa femmine. Lei conosceva già Valenti, come uno degli attori più quotati del momento. Insolente e gentiluomo a un tempo, aveva tratti fini, da gran signore, che sapevano diventare arroganti, nei ruoli del “cattivo” dello schermo. E’ ancora Innocenti che ne traccia un profilo preciso: “Sempre con un leggero sorriso ironico sulle labbra, amava il capriccio, la spavalderia, la provocazione, la trasgressione, l’avventura. Vivere alla giornata, senza perché e senza guardare al domani.” Luisa, ancora così semplice, pura, ingenua, se ne innamorò all’istante come l’eroina creata dalla fantasia di un romanziere che l’aveva predestinata per lui. Il loro fu un amore saldo e intenso. Osvaldo le insegnò tutto. Ad amare i libri, le feste e forse anche la cocaina, e le trasmise anche la sua inquietudine. Lei lo seguì sempre, ovunque, non lo lasciò mai per non perderlo, prigioniera della sua personalità, un’unione esaltante che li fece vivere un grande amore, ma che li condusse alla morte. Condivisero gioie e dolori, piaceri e rinunce, ma vissero sempre insieme, sempre uniti. Insieme ed uniti affrontarono anche le sorti dell’Italia a seguito del tradimento dell’8 settembre.
Valenti, che fino ad allora non aveva mai avuto incarichi nella compagine fascista, si arruolò volontariamente nella Repubblica Sociale Italiana. Nel ’44 fu tenente della XaFlottiglia MAS. Osvaldo, forse non era mai stato nemmeno un vero fascista, ma si schierò con la Repubblica di Mussolini a modo suo, da guascone qual era, che amava il rischio e Luisa lo seguì, come sempre, incapace di fermarsi prima che fosse troppo tardi. In quel periodo la coppia conobbe Pietro Koch e iniziò a frequentare Villa Triste a Milano, dove erano interrogati i partigiani catturati. Osvaldo e Luisa vennero accusati di connivenza con Koch e i suoi metodi. La loro partecipazione però non fu mai accertata. Nulla di certo, nulla di dimostrato, solo congetture e trame vigliacche, sufficienti per condannarli a morte. Osvaldo e Luisa recitavano ancora, ma il copione stavolta, fu loro fatale.
Il 10 aprile del 1945 Valenti, forse per aver salva la vita e, soprattutto, quella di Luisa che aspettava un bambino, (la coppia aveva già concepito un figlio, morto purtroppo poco dopo la nascita), decise di consegnarsi spontaneamente ai partigiani. Si rifugiò in casa di Nino Pulejo, appartenente alle Brigate Matteotti, il quale affidò le due celebrità al comandante Marozin della Divisione Pasubio, (noto per i crimini della alta valle del Chiampo dai quali venne assolto dopo 15 anni perché la Magistratura riconobbe che erano stati commessi, ma “per motivi di lotta politica contro il nazi-fascismo”.) Il 21 aprile Marozin incontrò Sandro Pertini il quale, avendo avuta notizia della prigionia di Valenti, gli ordinò lapidario: “fucilali e non perdere tempo”. Questo fu dichiarato dallo stesso Marozin durante un procedimento a suo carico. Di tale ordine, proveniente secondo loro dal CLN non fu trovata nessuna traccia scritta. Di scritto c’è soltanto un foglio in data 25 aprile dove si legge che “…il CLN su proposta dei socialisti vota all’ unanimità il deferimento al tribunale militare di Valenti Osvaldo e Ferida Luisa per essere giudicati per direttissima quali criminali di guerra per avere inflitto torture e sevizie a detenuti politici”. Ci doveva dunque essere un processo stando alle carte, non una condanna a morte. Valenti e la Ferida furono condotti in una cascina, ove vissero i loro ultimi giorni. L’attore subì un processo sommario, al termine del quale fu confermata la sentenza di morte. Condanna che non fu mai comunicata al diretto interessato e che riguardava anche la compagna. Ignari della loro fine, i due innamorati furono caricati su un camion insieme ad altri rastrellati. Giunti in via Poliziano, furono fatti scendere e messi faccia al muro. La donna stringeva in mano una scarpina azzurra di lana, destinata a scaldare i piedi innocenti di quel bambino che non vide mai la luce. Partì la raffica di mitra. I due caddero al suolo, stretti tanto nella vita quanto nella morte. Su di loro furono adagiati due cartelloni. Due scritte rosse dicevano: «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Osvaldo Valenti»; «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Luisa Ferida». Tre vite spezzate in un colpo solo. Due vite probabilmente incolpevoli e una semplicemente candida. Pochi giorni dopo l’esecuzione la casa dei due attori fu svaligiata e depredata di ogni avere della coppia, da autori ignoti. Negli anni successivi, la madre della Ferida domandò una pensione di guerra, dato che traeva il suo mantenimento dai proventi della figlia. La domanda rese doverosi degli accertamenti sulla vicenda. Le indagini dei Carabinieri portarono alla conclusione che “la Manfrini, dopo l’8 settembre 1943 si è mantenuta estranea alle vicende politiche dell’epoca e non si è m
acchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione italiana e del movimento partigiano”. Conclusione ribadita dallo stesso Marozin, che ebbe a dichiarare: “La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente. Ma era con Valenti. La rivoluzione travolge tutti”. Luisa Ferida fu riconosciuta completamente estranea ai fatti imputateli e alla madre venne elargita dal Ministero del Tesoro la pensione di guerra richiesta. Nemmeno Valenti aveva probabilmente fatto niente, come fu poi confermato dalla Corte d’Appello di Milano: la Ferida e Valenti non furono giustiziati, bensì assassinati. Si trova sulla stessa posizione anche Romano Bracalini, biografo di Valenti, che dice: “La frettolosa condanna del CLN obbediva sostanzialmente alla regola umana e crudele che alla spettacolarità del simbolo che egli aveva rappresentato corrispondesse subito e senza ambagi una punizione altrettanto spettacolare. In altre parole egli doveva morire non già per quello che aveva fatto, quesito secondario, ma per l’esempio che aveva costituito”.
Tina Modotti, era nata a Udine nel 1896, aveva attraversato da sola, a diciassette anni, l’Atlantico per raggiungere il padre muratore emigrato a San Francisco. Dotata di una bellezza straordinaria, era stata scelta come modella da Edward Weston, un famoso fotografo di Hollywood e le sue pose disinibite, le fotografie dei suoi nudi divennero famose. Le si aprirono le porte del cinema girò, col ruolo di protagonista, alcuni film muti, ma pur avendo avanti a sé un brillante avvenire, vi rinunciò per coltivare una delle sue passioni: la fotografia, dove rivelò ottime capacità artistiche. Poi iniziò a dedicare sempre più tempo all’altra sua passione: l’attivismo politico. Era una comunista fanatica e convinta e appunto per ragioni politiche si trasferì a Città del Messico, dove era stata accolta nella comune di Diego Rivera.
Qui passò attraverso vari amori, fino a che divenne l’inseparabile compagna di J.Antonio Mella, giovane e aitante esponente della fronda trozkista. La sera in cui questi venne ucciso, con due colpi di pistola, Tina era in sua compagnia e di lì a poco lasciò Città del Messico insieme a Vittorio Vidali, entrato prepotentemente nella sua vita. Fu sospettata di averlo aiutato ad eliminare il suo ex amante, consegnandolo, senza che questi si insospettisse, al “misterioso killer stalinista”. I giornali gridarono allo scandalo e Tina fu pubblicamente accusata di complicità nel misfatto. Fuggita dal Messico si trasferì a Mosca e iniziò la sua nuova vita come amante di Vittorio Vidali alias “Carlos Contrera”.
Un uomo senza scrupoli, un assassino freddo e spietato, ma la sua biografia è colma di sospetti, mai corredati da prove certe. La sua ombra inquietante aleggia su tutti gli omicidi misteriosi che formano la storia della lotta intestina tra comunisti e trozkisti. Nel 1929 a Città del Messico uccise Mella, con la complicità di Tina, che aveva sedotto e plagiato. Nella guerra civile spagnola fu coinvolto nell’omicidio di Andrés Nin e di chissà quanti altri, furono gli anni più intensi della sua “attività”, tanto da essere definito “il vicerè” di Stalin, per arrivare al 1940 dove primeggia come sospettato fra gli autori, sempre insieme a Tina, del doppio attentato proprio contro Leone Trozkij, fino al 1943 dove fu coinvolto nell’omicidio del sindacalista Carlo Tresca a New York. Una vita spesa a cambiare identità e a girare di paese in paese seminando morte, in nome di un’ideologia di egemonia culturale che fece più vittime fra gli adepti, che fra gli avversari politici. Tina Modotti conosceva sicuramente tante verità che non rivelò mai, nemmeno quando la sua storia d’amore con Vidali finì, non perché non volle farlo, ma perché non fece in tempo. Dopo dodici lunghi anni di convivenza e connivenza con il pericoloso amante, la Modotti si era stancata, intristita anche a causa dei suoi continui tradimenti. In seguito alla delusione sentimentale era entrata in crisi politica e non nascose la sua intenzione di ritirarsi. Durante una lite con Vidali fu sentita esclamare “Stalin e la vostra banda di assassini, avete trasformato la parola comunismo in un insulto, io non rinnoverò la tessera…” Vidali con freddezza rispose “Questo non puoi farlo dal partito si esce solo in due modi con l’espulsione o con la morte!”
Nei giorni successivi alla loro rottura Tina Modotti morì dopo aver partecipato a una festa organizzata da Pablo Neruda e dove aveva incontrato Vidali senza scambiarvi parola. Fu trovata morta sul taxi che la stava accompagnando a casa: “crisi cardiaca” fu la diagnosi ufficiale. Vidali era scomparso dalla circolazione e non presenziò nemmeno ai funerali.
La stampa parlò di “tipica eliminazione stalinista”. La morte di Tina Modotti fu collegata a quella di Mella e di Trozkij, eventi in cui i due amanti risultavano entrambi coinvolti. Secondo la Polizia la donna doveva essere stata uccisa usando il curaro, un veleno che non lascia traccia e che era già stato abbondantemente usato in Messico per altre “esecuzioni politiche”, ma il referto parlava di attacco cardiaco e l’autopsia non fu ritenuta necessaria.
Si conclude con la morte violenta anche la vita di quest’altra donna che aveva abbracciato una fede politica diversa, ma non cambiano gli infami assassini. Sia per la “fascista” Ferida, che per la “comunista” Modotti la mano crudele che troncò le loro vite è la stessa, quella della “democrazia proletaria”, dell’idea liberticida di quei compagni che ancora oggi chiamano la resistenza “giornate radiose” e negano (loro sì) ogni comunanza con gli stragismi di Stalin.
La mia riflessione è rivolta a coloro che sono convinti che il mondo sia davvero come ci hanno raccontato, che pensano di avere tutta la verità in tasca, che si riempiono la bocca di concetti e di “democrazia”. La nostra società, nata dalle bugie raccontateci dopo la caduta del Fascismo, dall’ipoc
risia e dalle menzogne con cui ci hanno riempito la testa, non ha futuro ed è destinata a un triste declino di cui siamo ogni giorno di più, testimoni. Occorre svegliarsi dal torpore in cui ci hanno sopiti e battersi perché venga una nuova alba, una nuova era.

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