Sappiamo che il termine pagano acquistò con il Cristianesimo quel significato negativo che ancor oggi conserva. Erano pagani gli abitanti dei pagi, villaggi rurali resilienti nella loro religione arcaica quanto resistenti a convertirsi alla nuova fede. Ancorati al sodo lavoro dei campi come alla pastorizia, essi confidavano testardi negli antichi dèi protettori dei raccolti e degli armenti, sacrificando loro una scrofa gravida, offrendo latte e mosto pur di raccogliere messi abbondanti, ingraziarsi la protezione delle greggi come ci ricorda Ovidio (1). La festa del lavoro agreste erano le Paganalia istituite, dicitur, dal re Servio Tullio nel VI sec. ma coincidenti con le più antiche Feriae Sementivae che cadevano dal 23 al 27 Gennaio dedicate a Pares o Ceres, quando i chicchi delle sementi, riposti sotto i solchi richiusi, dovevano morire per germinare nella metamorfosi del grano.
Duilio Cambellotti ( Roma 1876-1960), di carattere selvatico, fu un artista poliedrico, convinto esponente della fusione perfetta tra le arti maggiori con quelle applicate, nel solco tracciato dall’inglese William Morris, al contempo anticipando la stagione del Bauhaus tedesco. Aderì ad uno stile internazionale, figlio della Secession viennese, l’Art Nouveau, investendo il suo ingegno in ogni espressione artistica, dalla grafica, alle ceramiche, dalla pittura alla scultura, dal design alla scenografia. Fu anche un convinto divulgatore delle opere del Fascismo agrario, in particolare del piano di bonifica delle malsane paludi pontine. Tutta la sua opera è nel segno di uno studio attento della Natura naturans nelle sue manifestazioni agresti, più un Vigilio Marone con la matita in pugno che un Giordano Bruno. Quell’immenso Agro romano, che a quel tempo si estendeva, comprendendola, fino alla postuma Provincia di Latina, con i suoi riti ancestrali, genesi della mitologia, lo affascinava tanto da essere un autentico cultore di quelle antichissime tradizioni della cultura rurale romana che il ventennio volle resuscitare. Fu un artista ecologista ante litteram appassionato al mondo bucolico dei contadini tanto da prestare il suo ingegno poliedrico al servizio del Comitato per le scuole dei contadini dell’Agro Romano, in un Paese dove l’analfabetismo sfiorava il 50% della popolazione. Perciò non solo chinino gratuito contro la malaria ma anche la penna per vincere l’ignoranza, suo d’altronde il logo del Comitato: un vomere che regge un libro aperto. Il nostro lavorò come decoratore di scuole, palazzi pubblici, chiese, da Littoria a Terracina fino alla frazione di Scauri di Minturno.
L’idea che lo guidava anticipava di molto il manifesto della pittura murale di Sironi del ’32, assegnando all’espressione artistica il ruolo di azione pedagogica tesa a diffondere, insegnare il valore della bellezza estetica, mediatrice di contenuti forti siano essi civili, didattici o religiosi. In quelle comunità “d’indiani pagani” chiamati guitti, chinati sulla terra per cavarne frutti o al pascolo con gli armenti, compito dell’estetica era trasferire quel duro lavoro in opere d’arte, ma senza la retorica sociale del realismo o l’anaffettività dell’impressionismo. L’arte è eleganza, raffinatezza del segno, a prescindere dal soggetto che di esse comunque deve poter godere. I soggetti della campagna romana erano pastori come Abele, allevatori di bestiame, nomadi per la transumanza, Caini che pizzicati dall’anopheles si beccavano la malaria; la bellezza per loro era la dea Natura ostile a farsi possedere simile a una cortigiana riottosa, ma ricca d’un fascino infinito perché ad ogni giorno si rinnova. In quel mondo Cambellotti ha scavato con innata eleganza nello stile della sua narrazione iconica, cogliendo il bello nell’immortalità di questo amplesso tra l’uomo e la sua terra.
Molti hanno incontrato Cambellotti nella copertina d’un romanzo pontino, quel Canale Mussolini scritto dal “fascio-comunista” Antonio Pennacchi. In realtà quella mandria di mucche chianine miscelate a bufale che un solerte buttero intabarrato guida al riparo sui monti Lepini, fa parte di un trittico che decora la Sala della Consulta del Palazzo del Governo di Littoria. Al centro del trittico spiccano i militi grigi con elmetto (postumo) che sorvegliano una squadra d’operai giganti intenti a scavare la terra con mani e furor di vanghe con al centro un fascio confitto nella roccia, mentre sullo sfondo si staglia la nuova città di fondazione. Sull’altro lato il nostro vi raffigura la lèstra, tipica capanna dei pastori dell’agro romano. Certo il buon Duilio usò per la decorazione pannelli mobili di eternit allora assai in voga nell’edilizia, senza saper nulla sulle sue polveri letali.
Il Palazzo della Bonifica di Terracina ha ospitato, lo scorso anno, una mostra retrospettiva sull’opera di Duilio Cambellotti nella pianura pontina per celebrarne il 140° anniversario della nascita. Questo ci fa riflettere sulla schizofrenia del ghota politico nazionale che va alla riscoperta di artisti segnati dal marchio d’infamia d’essere stati fascisti. Forse a sdoganare “Torello” ci aveva pensato Leonardo Sciascia con lo scritto Iinvenzione di una Prefettura ( Bompiani editore)(2) dedicato al restauro filologico, eseguito nel 1987, delle tempere dipinte dal Cambellotti nel Palazzo del Governo di Ragusa a partire dal ’33. La sua opera aveva lo scopo di celebrare la nascita della Provincia di Ragusa nel ’26 coniugandola alle opere febbrili di quella rivoluzione fascista ricordata nell’elogio mistico della Marcia su Roma. Già perché come per l’Italia fra le Arti e le Scienze di Mario Sironi, anche su quei dipinti erano intervenuti i “braghettoni” codini post bellum a bendare quella sconveniente celebrazione del Duce.
Fu solo l’esecuzione apatica d’una commessa senza un’autentica adesione all’ideologia fascista? Vittorio Sgarbi cerca di separare, col bisturi della lettura stilistica, l’artista dall’uomo, ma Cambellotti il regime lo aveva già cantato per tutto l’Agro Romano col pathos di chi celebra con l’elegante poesia del segno la rinascita dell’antico mondo rurale rinnovandone i miti.
Facciamo adesso un balzo adesso in una storia assai meno conosciuta ai lettori, anzi quasi ignorata dai libri di testo. Ci ritroviamo in un villaggio da fiaba, Colle di Fuori così chiamato perché posizionato appunto su una collina, fuori perché distante circa 4 Km dalla Rocca un tempo feudo dei Savelli. A questo punto chi legge queste mie sgrammaticate righe si chiederà parafrasando don Abbondio ” Colle di Fuori? Chi era costui?”. Io ci ho insegnato in questa piccola frazione del Comune montano di Rocca Priora, quello che si vanta d’essere il più in alto dei Castelli Romani ( 768 m s.l.m.). All’alba del “Secolo breve” uno sparuto gruppo di contadini e braccianti s’era insediato in questo lembo di terra fasciato dai boschi di castagno. Avevano rinunciato alla cittadinanza di Capranica Prenestina trasferendosi là, su terreni demaniali da liberi coloni però abusivi. Insomma avevano occupato quelle terre dei Conti Vannutelli poi espropriate dal Comune all’Ospizio dei ciechi di Roma a cui i patrizi l’avevano donate. Vivevano in capanne come i pontini, niente pavimenti, niente bagno, l’unico “arredo vivificante” era il fuoco acceso per scaldarsi e cuocere le vivande, erano come i teepee indiani o i villaggi del Congo a 35 Km dalla Città Eterna! Vessati per anni dai cittadini della Rocca che li consideravano “extracomunitari” occupanti le terre comunali con l’aggravante d’essere tutti o quasi comunisti, i “capranicotti” sopravvivevano facendo testuggine romana contro il Comune patrigno. Fatto sta che anche loro però avevano bisogno d’un minimo d’ alfabetizzazione, così nel 1912 si decise di costruire su quel colle la prima scuola rurale in muratura per i contadini della Campagna Romana, quella “scoletta” che è ancor’oggi in piedi col suo ampio giardino. Per decorarne a modo gli ambienti venne chiamato all’opera Duilio Cambellotti membro del variegato cenacolo dei “garibaldini dell’istruzione” come Alessandro Marcucci, Angelo Celli, Giovanni Cena, Sibilla Aleramo, che agli inizi del secolo si battevano caparbiamente per dotare di scuole i pagi isolati nelle campagne laziali.
Così tra il 1912 ed il’14 (3) lo sparuto nucleo di famiglie del Colle vide nascere la sua scuola in muratura alla realizzazione della quale tutti dettero una mano sia in opere che col povero portafoglio tassandosi per la cifra di 10 £ (2). Fu una costruzione spontanea, progettata dal pedagogista A. Marcucci, che architetto non era, per cui per farla stare in piedi ci pensarono, con sano empirismo, i muratori del posto. Il primo fabbricato era piccino, un’aula soltanto di 35 mq e una stanza per il maestro. Poi l’edificio venne appunto ampliato per rispondere meglio alle esigenze dei bambini, come alle classi differenti, fu aggiunta anche una cucina per la mensa e la monocamera del maestro si trasformò in decorosa abitazione. Sulla facciata della scuola c’era e c’è tutt’ora un campanile in mattoni a vista, serviva per scandire l’ingresso o l’uscita degli allievi, anzi non essendoci ancora la chiesa era l’unico campanile sonoro del villaggio.
Ma quei bambini che vivevano da guitti in capanne simili a quelle dell’Abissinia, chiusi in quegli ambienti con le pareti bianche di calce, erano ancor più insofferenti ad essere scolarizzati, occorreva che anche in quel luogo assaporassero la natura che li circondava, il lavoro dei padri, il sapore della libertà che si respirava nei boschi. Quella scuola per essere accogliente doveva ricordare loro la vita che conducevano fuori di quelle mura, doveva essere parte integrata dell’habitat quotidiano, richiamando alla memoria degli alunni la placenta della Natura nella quale erano immerse le loro giovani vite ruspanti.
C’era però anche un secondo obiettivo da mettere bene a fuoco per quei bambini e di rimando per le loro famiglie. La scuola, come fosse un’antica chiesa, doveva testimoniare il bello, trasmetterlo a chi altrimenti sarebbe rimasto nella sua ignoranza, di più quel luogo doveva trasformarsi in un piccolo gioiello del quale la comunità poteva andare fiera. Scuola come centro distintivo della loro laboriosità dura e cocciuta, luogo d’orgoglio e festa, un piccolo tempio dei Panigalia. Per questo Giovanni Marcucci aveva chiamato un grande artista ad abbellire, con pitture e maioliche, la scoletta, Duilio Cambellotti appunto. Si convenne di affrescare la lunga parete dell’originaria scuola, con motivi ripresi dal noto paesaggio circostante: le colline amene incorniciate qua e là dal profilo degli alberi boschivi, i campi lasciati a maggese, seguiti da quelli scavati dagli aratri che sovesciavano zolle brune, ricche di humus mentre più avanti,seguendo le stagioni, essi brulicavano di verdi germogli di grano novello. In realtà l’affresco era un trittico scandito da due grandi alberi di castagno in stile liberty, posti in primo piano nell’affresco. All’esterno, sulla facciata della scuola, a lato del campanile, sopra la porta, Cambellotti realizzò, in maniera stilizzata, quel villaggio con il suo agglomerato di capanne.
Purtroppo di quei primi affreschi restano solo descrizioni in quanto l’umidità del luogo e la povertà dei materiali usati avevano provocato il loro rapido deterioramento. Così chiamato nuovamente all’opera, due anni dopo, a scuola ultimata con l’aggiunta di un’aula per l’asilo, Cambellotti ridipinse le precedenti scene su pannelli lignei ben preparati a gesso, aggiungendo un secondo trittico con dolci paesaggi della campagna romana affiancati da simboli della vita rurale facilmente comprensibili dagli allievi,. I trittici erano poi intervallati da pannelli con aforismi scritti in rosso suggeriti dal pedagogista Marcucci, con sopra il logo delle scuole dei contadini; la vanga e un libro aperto. Oggi quei sei dipinti sono stati trasferiti presso l’Università di Roma Tre.
All’esterno dell’edificio, sulla facciata a capanna, nel timpano sezionato dal campanile, sostituì la decorazione iniziale, con una composizione in maioliche raffigurante ancora il villaggio di capanne di Colle di Fuori ma di notte, con le fiamme ardenti del fuoco acceso al centro dell’unico vano.
Aggiunse poi come ornamento, quasi ad omaggiare il nostro Romanico, delle ciotole in terracotta invetriata dai colori squillanti allocate nel muro, in tutto simili a quelle che abbellivano i campanili delle chiese nel X-XI secolo. Sua è anche la stele in memoria di Giovanni Cena la quale recita: O SCUOLA NOI TI SALUTIAMO CON RICONOSCENZA TU CI CONDUCI DALLE TENEBRE ALLA LUCE, DALL’ERRORE ALLA VERITA’, DALL’EGOISMO ALL’AMORE SCANBIEVOLE.
Non è un caso che l’IC di Rocca Priora con sede anche a Colle di Fuori sia intitolato a Duilio Cambellotti.
Emanuele Casalena
Note:
- Ovidio, Fasti I -658
- Leonardo Sciascia, Invenzione di una Prefettura. Le tempere di Duilio Cambellotti nel Palazzo della Prefettura a Ragusa, Ed. illustrata. Bompiani Editore, nuova edizione 2009.
- Notizie riprese dal sito istituzionale del Comune di Rocca Priora.
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