9 Ottobre 2024
Filosofia

E’ la mia vita che muore. E’ la vita che rinasce – Sandro Giovannini

(Emo, Sessa ed un sogno dalla porta cornea)

“…La vita che non potrà mai liberarsi dalla morte,

né la morte dall’essere viva.”

Andrea Emo, Quaderni di Metafisica , Bompiani, pag. 887.

La mia vita muore. Scivola velocemente (o lentamente) verso la morte.  La vita rinasce (prima o poi) sempre.  Cosa c’è di più ovviamente constatabile?  (…Manuel Flores va a morir.  Eso es moneda corriente; morir es una costumbre que sabe tener la gente).  E così si potrebbe dire che il cerchio si chiuda.  Ma nella resurrezione costante ed innegabile della vita sulla morte, morte altrettanto costante ed innegabile, l’essere viva della morte agisce indubitabilmente erga omnes, mentre il dato che ci ha sempre inquietato è la mia (la nostra, ovvero di ognuno) individuale ri-esistenza o ritorno o resurrezione.  Al di là delle infinite differenziazioni tra le epistemi precristiane e quelle cristiane…

“…Né rigenerazione, né rianimazione, né palingenesi, né rinascita, né reviviscenza, né reincarnazione: ma il sollevamento, il levarsi o il levare in quanto verticalità perpendicolare all’orizzontalità del sepolcro – senza che questo sia abbandonato o ridotto a nulla, ma affermando in esso la tenuta (e dunque la trattenuta) di un intoccabile, di un inaccessibile…”  (1)

…resta che è qui che tutto il discorso di Emo, l’infinito rincorrersi ‘della vita dentro la morte’ (come direbbe Noica), trova la sua originalissima affermazione all’interno d’una aporia che ha marcato millenni di riflessione metafisica e teologica. Infatti è dalla discrasia tra la mia vita e la mia morte che corrispondono in maniera perfetta e la mia morte e la vita che rinasce indubitabilmente ma non è (né necessariamente, né probabilmente) la mia vita, (e che quindi non coincide esattamente) ma è solo la vita in generale, in assoluto, sia come eccezione che come regola, sia come rilevazione inevitabile che come meditazione profonda, che si gioca l’infinita insuperabile diatriba tra il riconoscimento di una corrispondenza e la negazione (o comunque la messa in forse) della corrispondenza medesima.  Se infatti crediamo sia ben vero che…

“…il togliersi dell’infinito è la sua salvezza?  è la sua salvezza se nell’infinito il togliersi assoluto è la assoluta realtà; la realtà come atto… (…)  Questo è lo splendore, la divinità del soggetto che può sapere tutto, che si ritrova nell’oggettivo, si riconosce nell’oggettivo, in cui esso si nega. Tutta la nostra conoscenza è opera dell’inconoscibile che è la soggettività della negazione, e che è la negazione della soggettività; soltanto la soggettività può conoscere la soggettività negandola cioè riducendola ad oggetto.  La pianura senza fine, gli orizzonti lontani, la nostalgia delle campane, ci danno l’idea di essere conosciuti, conosciuti da tutto ciò che non conosciamo, che è l’infinito.  Forse un infinito che riconosce la soggettività, che suscita l’inconoscibilità della nostra soggettività; la più poetica delle condizioni in cui ci è dato di vivere.  L’istante è eterno, è eterno perché muore; e la sua morte coincide esattamente con la sua resurrezione – resurrezione e negazione debbono coincidere esattamente, per essere ‘esattamente’, la eternità.  –  l’eternità è in noi; nell’infinito della sintesi di morte e resurrezione, l’eternità non è se non è vivente, e non è vivente se non muore.  Il soggetto è l’assoluto; perciò tutto ciò che è vivente è soggettivo; tutto ciò che è soggettivo è l’assoluto (l’assoluto è l’infinito) – tutto ciò che è assoluto è condannato al sacrificio, al sacrificio assoluto, è condannato a morte.  L’assoluto è sacro e perciò condannato a morte”  (2)

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…questo attiene al rapporto di un infinito che riconosce la soggettività, che suscita (il senso intimo) l’inconoscibilità della nostra soggettività, ma questa soggettività (…in generalibus latet error) temiamo non corrisponda esattamente (necessariamente) alla mia (nostra) soggettività. E’ una soggettività (individuale) che, in Emo, ha tutte le caratteristiche, nella vita, della categoria che tutto e tutti abbraccia, ma, nella morte, in Emo, non si ricollega alla stessa categoria universale, se non nella constatazione della ripetizione automatica… E’ una soggettività che sta al centro dell’universo, certamente, come metro di ogni paragone e di ogni visione, e, stando al centro di quest’universo potrebbe sì oggettivarsi in senso positivo e non negativo (il positivo che riscontra la propria sparizione – indiscutibile – nell’assoluto sarebbe allora l’esatto contrario dell’illusione che ipostatizza la propria permanenza – fittizia – nell’assoluto); anche perché poi…

“l’imaginazione è sempre una tentazione – (divina e diabolica – l’imaginazione è un doppio senso).”  (3)

…e questo attiene anche all’eternità dell’istante, che ci fa vivere, sapenti o nolenti, ma per lo più inconsapevolmente, una vita infinita dentro l’attimo che non esiste (‘non è più’ e ‘non è ancora’), ma non esistendo, con-vince di sé la vacuità del mondo e la in-onda di destino personale e civile…

Ma, al di là della nostra stessa distanza e/o disinteresse per l’altra nostra specifica futura (immortale/disumana) ventura (…se poi questa distanza veramente la ponessimo, se poi sapessimo autenticamente crearcela e non fosse ‘solo’ un mettere a lato, sia pur nobilissimamente, il problema), sappiamo che la tendenza a portare l’essere (ad implementare senza fine l’affermazione e l’aggressività) alla sua massima efficacia e durata (fino all’assoluto insondabile ed incredibile) è il motore immobile (sia all’interno che all’esterno, ovvero sia nelle intimità personali che nelle narrazioni coinvolgenti di ogni genere e grado) delle portentose realizzazioni dei grandi uomini, (grandianime) pensiero/spirito…

“…cioè lo spirito grazie alla dialettica guarisce della dialettica; e infatti alla fine del sistema hegeliano la dialettica viene abolita e lo spirito guarito è pura autocoscienza.  Ma se lo spirito (il pensiero) è essenzialmente dialettico, essenzialmente potenza negativa, esso non può guarirne senza morire appunto in forza della guarigione; e se vuole continuare a vivere lo può fare soltanto a prezzo di aggravare continuamente il suo male.  Se la vita è una dialettica, cioè una malattia assoluta, la morte è la sua guarigione, come Socrate affermò con il sacrificio del gallo ad Esculapio.”  (4)

… ma la guarigione della morte sarebbe poi cosa?  A parte la notazione negativa, malattia assoluta, della potenza del pensiero (unico onore, specifico, dell’uomo… comunque la si pensi sul ‘pensiero dell’uomo’, dato che le scaturigini di tutti i diversi onori si potrebbero in ogni modo – anche fantasiosamente – presupporre a tutti gli altri livelli della vita), che si sposa eternamente così bene a tanto irenismo, a tanta propaganda (in buona e cattiva fede) contro il pensiero stesso nelle sue guarigioni nell’affidamento, nell’atarassia, nel distacco, nella pace, nella naturalità, etc… ma ce ne sarebbe anche un’inaudita versione d’oggettività ascetica – ad esempio – nel primo stile evoliano, come ci ricorda sapientemente Sessa…

“…si tratta di riscoprire la lingua dell’inanimato, la quale non si manifesta prima che l’anima abbia cercato di versarsi sulle cose.”  (5)

…(come a dirci, a suggerirci, che la ‘forza dell’inanimato’ ci potrebbe salvare dalla proiezione inconscia di noi stessi sulle cose, proiezione che starebbe ben al di qua o troppo al di là della potenza dispiegata naturalmente dalle cose)…

…una prima corrispondenza, è nella perfetta chiusura del ciclo vitale (alla mia nascita corrisponde la mia morte…).  Ma questa supposta guarigione da quella malattia assoluta della volontà di potenza e di dominio dell’uomo (indubitabile, indiscutibile, e quindi indubitabilmente ed indiscutibilmente proiettata, anche se sovente inconsciamente, verso la più importante e diretta seconda corrispondenza), non farebbe che chiudere appunto un ciclo privato ma non connetterebbe (necessariamente, a chiusura dell’anello) questo ciclo privato alla storia universale di morte e rinascita che potrebbe chiudersi perfettamente solo se scattasse, appunto, anche la seconda corrispondenza.

Ed anche in Socrate, alla certezza della morte non rimane che il vuoto, (il vuoto carenza/dialettica di questa seconda corrispondenza), sia pur guardato in faccia (e quindi comunque pleromatico, perché né disperato né disinteressato, ma sostanzialmente ed onorevolmente problematico), della propria individuale resurrezione ad una qualche altra vita… Sessa, nel suo libro, approfonditamente parla del doppio discorso di Socrate nel Fedro

“…Nel Fedro, Platone presenta dapprima Socrate intento a pronunciare ‘col capo velato’ il discorso empio e falso intorno a Eros e, in una seconda fase, prospetta una ‘purificazione’ alla quale Socrate deve sottoporsi.  Non si tratta di sostituire quanto detto nel primo discorso con un altro logos, ma di purgarsi di quello precedente per la spinta verso l’alto prodotta dal daimon, il demone che spinge Socrate a porsi ‘al servizio di un dio’- come fece il poeta Stesicoro, musico e filosofo, allo scopo di recuperare la vista, persa per una colpa analoga a quella socratica.”  (6)

Al ‘servizio di un dio’ significa che si crede – in estrema sintesi – che esista/no potenza/e oltre la sfera dell’apparente/visibile, (potenze che illuminano ed accecano, anche) ma non implica necessariamente alcuna idea certa sulla sopravvivenza singolare, dopo la morte singolare… che ogni morte, poi, è singolare, anche se si riconosce in un innegabile processo universale.  E’ troppo facile dedurre la corrispondenza singolare da quella universale con una sorta di sillogismo cosmico e direi che in questo caso, anche Emo, non fa eccezione, come catturato dalla sua stessa tela di ragno

“…che tesse le mirabili simmetrie delle sue tele con l’argenteo filo da lui stesso filato e non mutuato da nessuna altra sorgente se non forse dalla luna e da un’idea celeste; e il ritmico disegno della sua fantasia arbitraria… diviene la geometria della bellezza…”  (7)

…contento/i (perché consapevole/i) di stare già nella bellezza geometrica dell’aldilà…

“È restando fermi nell’al di qua rinunciando ad ogni al di là che abbiamo improvvisamente la rivelazione di essere nell’al di là, di essere attualmente nell’a di là; l’attualità stessa come supremo al di là ed unica trascendenza – la pace e la riconciliazione tra il tempo e l’istante” (8)

Perché la vita per Emo è un dis-astro, ma può essere felice, non tanto nel non ammettere la distanza siderale rispetto alla ‘regolarità (sic) astronomica’, quanto perché…

“La vita è errore è fantasia, irrazionalità ed invenzione; nessun astro, simbolo di regolarità appunto astronomica, può presiedere e regolare la vita che è il regno meraviglioso della differenza in sé; che è appunto un dis-astro, la vita è colpevole appunto perché è anima, e perché morirebbe se non fosse pura fantasia.”  (9)

…l’ammissione dell’occulto orrore di Keplero, alla sua stessa rappresentazione, repertato sconcerto furioso sulla spossessata centralità terrestre, così poi ben ripercorsa da Sessa  (10)  nella rivisitazione dello stesso orrore emiano, che pur non scagliandosi contro la visione scientifica bensì contro l’ideologizzazione più corriva della stessa visione scientifica, risolve il tutto nell’accettazione persuasa dell’al di qua, scelto non più come rassegnazione rabbiosa od esaltata rispetto al rivoluzionato posizionamento astrale (un sotto invariato rispetto ad un mutato sopra), ma come visione del comune ed inevitabile dis-astro esistenziale, a suo modo potenzialmente consapevole, orgoglioso e felice.  Felicità che poi attiene alla pietas, alla poesia che è ‘pietà di se stessi e d’altrui’…

“…la grande poesia che è la pietà di se stessi e d’altrui; l’immortalità seconda – chi può avere pietà dell’anima propria se essa è immortale? O forse bisognerebbe averne pietà proprio per questo una pietà però più simile al terrore che a se stessa.”  (11)

In un serrato dialogo con Sgroi proprio a proposito del mio suggeritore notturno, che avrebbe secondo la mia versione, in Emo, segnalato questa non chiusura dell’anello privato in costanza di una corrispondenza esatta invece di quello universale, ci siamo interrogati progressivamente sulla vera consistenza dell’al di qua, sempre al modo emiano e quindi sgombrando preliminarmente il campo delle possibili velature che venissero forzosamente dall’al di là (almeno da quello che ci prospettano sistemi, dottrine e religioni) e ne siamo usciti però con ancor meno certezze di quante ne avevamo entrandoci… resta che ci siamo confermati comunque che la corrispondenza probabilmente sfalsante delle ipotesi al-di-là-della-fisica (dall’indefinibile… solo l’indefinito), lascia una traccia di forzatura pur ben evidente (da tenere quindi sotto controllo) nel nostro inquieto presente eterno.  Residua, di lato, la fides

“Vi sono interrogazioni notturne profonde e necessarie da cui la superficialità diurna rifugge.

Il sole illumina tutte le superfici; ma non scende oltre di esse. –

durante il giorno l’io tirannico e la ragione sicura dei suoi diritti,

controllano l’animo e lo spirito; durante la notte l’anima lo spirito la memoria

occupano la nostra assenza e parlano il loro linguaggio segreto con i sogni con gli

spettri con i sovrani e i profeti erranti del mondo notturno.”    (12)

 

Note:

1) Jean-Luc Nancy, Noli me tangere, Bollati Boringhieri, 2005. Vedi anche il mio ‘Su Noli me tangere, di Jean-Luc Nancy, un apax teologico?’, in: Sandro Giovannini, …come vacuità e destino, NovAntico, 2013, pag. 137.

2) Andrea Emo, Quaderni di Metafisica, 1927-1981, Bompiani, 2006, pagg. 1323-1324.

3) A. E., Quad., cit., pag. 888.

4) A. E., idem, pag. 680.

5) Julius Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, 1971, pagg. 122-123. Citato in: Giovanni Sessa, La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, 2014, pag. 185.

6) Giovanni Sessa, La meraviglia…, cit., pag. 64.

7) A. E., Lettere a Cristina Campo, a cura di G. Fozzer, In forma di parole, 3, 2001.

8) A. E., Quad., cit., pag. 891.

9) A. E., idem, pag. 891.

10) Giovanni Sessa, La meraviglia…, cit., pag. 289, nota 41.

11) A. E., Quad., cit., pag. 891.

12) A. E., idem, pag. 899.

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Sandro Giovannini, Pesaro 1947. Figlio di ufficiale pilota pluridecorato. Giurisprudenza. Ha vissuto in molte città italiane. Ex Uff. dei Carabinieri. Organizzatore culturale e scrittore su vari quotidiani e riviste, alcune fondate e dirette. Centro Studi Heliopolis1975-1995. Movimento Poesia Tradizionale-Vertex, 1979-1991. Nuova Oggettività, 2010-2015. Heliopolis Edizioni in Pesaro, dal 1985, tuttora in attività, compiendo un’esperienza intensissima d’indagine sulle tecniche dell’antico e confrontandole, in chiave creativa, con le logiche di ricerca contemporanea, (poesia concreta, poesia visiva, mail art, istallazione, performance). Per primo in Italia:“Magliette letterarie”, 1988, grande successo anche commerciale. “Manifesto della scrittura esterna”, 1990. Fondatore e redattore capo di 43 numeri della rivista Letteratura-Tradizione: 1997-2009.

Libri personali: Atemporale, varia, Edizioni Casa della Poesia, 1985; Carme si-no, poesia, rivista “Parsifal”, anno III, n° 19, Gennaio-Febbraio 1986; Il piano inclinato, poesia, Heliopolis, Tabulae, 1995; L’armonioso fine, critica letteraria e metapolitica, SEB, Milano, 2005; Poesie complete (1960-2006), Heliopolis, 2007;   …come vacuità e destino, critica lett. e metapolitica, NovAntico, 2013, Nel presente eterno…, saggio filosofico, Tabulae, Heliopolis, 2013; La capitale del tempo, romanzo, NovAntico, 2014.

Partecipazioni a libri collettanei e varie curatele di libri comunitari. Disegni di ogni genere, prototipi pergamenacei, sculture, opere materiche, grandi istallazioni arredative, progetti per alta moda, gioiellistica e promozionale, progetti multimediali e telematici…

 

 

giovannini.sandro@libero.it  

www.heliopolisedizioni.com    

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