Premesse
Ogni corpo umano ha in sé una piccola quantità di ferro, rame, zinco ecc. Se dovessimo pesarla e calcolare il suo valore di mercato, potremmo vendere il nostro corpo a un ben misero prezzo. Viceversa, se consideriamo quanto vengono valutati i nostri organi – cuore, fegato ecc. – sul relativo mercato, la nostra autostima, almeno in termini economici, ne uscirebbe notevolmente rafforzata. Scopriremmo infatti di valere parecchie centinaia di migliaia di dollari. E questa cifra sarebbe solo una parte del giro d’affari che i nostri organi possono creare. In America, ad esempio, un trapianto di cuore costa oltre un milione di dollari, uno di cuore e reni oltre due milioni. V’è poi un ampio indotto relativo alle cure post-operatorie, che durano fino alla morte del trapiantato. A questo punto ci renderemmo conto che il nostro corpo, il vituperato frate-asino, la nostra umile dimora di carne, è in realtà un capitale di tutto rispetto, un piccolo tesoro che può far gola a molti. E in un mondo retto non certo da valori etici o spirituali ma da quelli disumani del Mercato, potremmo stupirci che qualcuno ancora non ci abbia fatto la pelle per impossessarsi delle nostre preziose frattaglie.
Il fatto è che la Legge, vecchia noiosa piena di fisime, ancora proibisce l’omicidio. Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che l’ingegno umano si lasci scoraggiare e rinunci a lucrosi profitti per colpa di qualche cavillo legale. E difatti, fatta la legge, scoperto l’inganno. Come si può depredare una persona dei suoi organi vitali senza ucciderla? La soluzione è semplice, ma occorreva del genio per vederla. Basta far credere che quella persona sia già morta. Ovviamente una diagnosi di morte va certificata, ma questo non è un problema. È sufficiente modificare alcuni tradizionali parametri clinici.
Per esempio, anche se il vostro cuore batte, siete morti. Respirate? Siete morti comunque. Se anche il vostro sangue circola, avete ancora membra rosee, elastiche e calde, potete ancora contrarre un’infezione e guarirne, conservate le vostre difese immunitarie, potete essere alimentati, persino portare avanti una gravidanza e partorire, generare figli ecc., non fatevi ingannare, siete morti. Ce lo dice un aggeggio che capta alcuni fenomeni elettrici nel cervello. Quando una persona è viva il suo cervello emette infatti una serie di onde elettriche. Se la macchinetta non le registra, ne deduciamo, con una logica rigorosa, che la persona è morta. Come dire: se uno canta è sveglio, ergo, se non lo sento cantare vuol dire che dorme.
Questa morte ancora così piena di vita è l’ingegnosa invenzione di una scienza medica impaziente di certificare il nostro decesso. Ma il medico non dovrebbe essere colui che ci cura e ci guarisce? Probabilmente era così, un tempo. Ma oggi la medicina è il volano di un enorme business e non può occuparsi di cose futili e poco remunerative come la salute dei pazienti. All’industria sanitaria e farmaceutica rende molto di più che la gente si ammali o, in certi casi, che muoia. Motto della moderna medicina potrebbe essere: primum nocere.
La covidomania, con tutti i suoi corollari, potrebbe apparire in tal senso il caso più rappresentativo di una sanità pubblica ormai asservita a scopi maligni. Ma a mio parere sono ancora i trapianti di organi a occupare il punto più basso mai raggiunto dalla coscienza medica. Purtroppo questa pratica, sintesi di una polimorfa perversione sanitaria, ha col tempo ricevuto patenti di normalità, moralità e legalità, e la gente non riesce più a percepirne il carattere aberrante. La ‘bioetica’ ufficiale le ha concesso il nulla osta, la politica l’ha avallata, i media l’hanno incoraggiata, la Chiesa stessa, piegandosi all’opinione dei medici, l’ha accettata e benedetta. Oggi, resi forse un poco più accorti dall’esperienza della pseudo-pandemia, dovremmo sapere che sotto il profilo etico tali riconoscimenti e approvazioni ufficiali non valgono nulla e in genere non hanno alcun nesso con la verità.
Tuttavia, grazie alla complicità tra media, pseudo-scienza, politica e mondo degli affari, il consenso sociale ai trapianti è ormai un riflesso condizionato, una sorta di dogma religioso o articolo di fede. È difficile sottrarsi ai pregiudizi della propria epoca. Un tempo, nei processi per stregoneria, si pungeva il corpo della presunta strega in alcuni punti e se quella non sentiva dolore se ne ricavava la dimostrazione inoppugnabile della possessione diabolica. Pochi dubitavano della razionalità di tale procedimento. Oggi si crede che, misurando alcuni voltaggi elettrici, si possa stabilire se una persona è posseduta dalla morte, e si dà a questa credenza dignità di teorema scientifico. Li vedo, questi moderni inquisitori, interrogare l’encefalo del malcapitato. “Non risponde”. Li immagino chini su di lui, intenti a staccare e riattaccare il boccaglio del respiratore, in una scientifica tortura. “Non reagisce”. Il tutto molto in fretta, perché bisogna depositare celermente gli atti del processo e consegnare il poveretto al carnefice. Infine – Deo gratias! – dopo averlo eviscerato, i suoi organi diverranno proprietà di chi ansiosamente li attendeva. Mors tua vita mea, è la vita.
La filosofia del trapianto è il paradigma di un’involuzione antropologica. Visione utilitaristica della persona, ridotta a corpo-macchina, essere senza sostanza ontologica, pura funzionalità. Rottura della nostra unitaria percezione psicofisica, anticipazione di un futuro corpo ibrido, mero assemblaggio di parti, di innesti estranei, da cui sarà possibile espiantare anche la mente, l’anima e farne commercio. Simbolo di una vita artificiale, che per affermarsi sopprime le nostre difese naturali, inibisce il nostro sistema immunitario, che altrimenti la rigetterebbe. In fondo, ammissione di un fallimento della medicina, una sostanziale degenerazione terapeutica che, all’incomprensione dei processi vitali, ovvia con interventi meccanici, aggressivi e distruttivi. Emblema di un progresso tecnico cui corrisponde un regresso etico e su cui, non a caso, attecchiscono vasti fenomeni speculativi e criminali.
Analisi
Questo cascante edificio poggia in realtà su un guscio di noce, sul fragile sofisma della ‘morte cerebrale’, sotterfugio che rende possibili i trapianti e cancella il volto antico e familiare della morte. Scriveva Shakespeare: “il polso arresterà il suo battito: e non ci sarà più calore in te né respiro a rivelare la vita. Le rose della labbra e del viso appassiranno nel pallido colore della cenere. Le membra private del movimento, dure, rigide, fredde ecc.” Questo è l’ordine naturale delle cose, fino a ieri indiscutibile. Ma oggi cos’è la morte?
Un comune malinteso vuole che la risposta stia in un formale referto medico. In realtà è legata a un’elaborazione concettuale. La morte non è solo un dato di fatto ma un’interpretazione. Può essere annullamento, estinzione, compimento, transito, liberazione, distacco ecc. secondo varie prospettive culturali. Potremmo anche dirla un nulla, un’astrazione, un’invenzione della mente, un’illusione, un pregiudizio. In ogni caso una definizione ci è necessaria, perché la nostra società deve dotarsi di criteri logici, medici e giuridici, per distinguere i vivi dai morti. La legge del 1993 che regola tale materia, recita: “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”. Questa formula, che apparentemente inventa una morte più ‘razionale’, presenta in realtà profonde contraddizioni. Emergono qui quattro punti problematici e interdipendenti.
Innanzitutto, si pone un’opzione di tipo filosofico: qual è il soggetto della morte? Nella cultura tradizionale è il corpo che muore, mentre la persona, o anima, sopravvive in forma incorporea. Viceversa, nella condizione di ‘morte cerebrale’ il corpo è ancora vivo, e forse è sottinteso che a morire sia la ‘persona’, o un’entità vaga identificata nelle ‘funzioni encefaliche’. La legge non lo chiarisce.
In secondo luogo, dovremmo definire cosa si intenda per morte. Tradizionalmente è il distacco dell’anima dal corpo, ovvero la frattura insanabile tra un principio vitale e la sua struttura somatica, la perdita di un ordine, di un’entelechia o principio sintropico che unifica e organizza la materia biologica. Nella legge anche questo punto è lasciato in sospeso, dato che il silenzio encefalico può essere un indizio di morte, ma non la morte in sé. Dovremmo arguire che la vita coincide con l’attività cerebrale. Ma allora perché non con un’altra attività: il movimento, il linguaggio, le relazioni sociali? Anche questo non è chiaro.
In realtà la legge dice ‘funzione encefalica’, ma l’EEG può solo registrare una certa attività del cervello, non la sua funzione. Questa distinzione è cruciale. Se svengo perdo temporaneamente l’attività della coscienza, ma questo non significa che ne abbia perso la facoltà. Che all’assenza di attività encefalica corrisponda un’incontrovertibile cessazione delle relative funzioni è una mera congettura. Un domani potremmo trovare il modo di curare queste lesioni al cervello, come oggi possiamo rianimare persone colpite da arresto cardiaco.
Un terzo livello attiene ai segni mediante cui la morte si manifesta. In passato questi indizi erano l’assenza prolungata di respiro, di battito del cuore e di circolazione sanguigna, cui seguivano inconfondibili segni di disgregazione biologica, conferma della morte intesa come totale divorzio tra il corpo e la vis o pneuma che lo animava. Qui la legge del ’93 è pertinente, ci indica un reale segno tanatologico ma, avendo omesso di definire la ‘morte’, ci dà un ‘significante’ senza ‘significato’, ovvero un segno di sé stesso, autoreferenziale.
Il quarto e ultimo livello, di carattere specificamente medico, concerne strumenti e metodologie mediante cui possiamo rilevare i segni di morte. In passato bastava un’osservazione empirica per constatare la mancanza di respiro e di pulsazioni. In seguito il corpo era vegliato per un tempo minimo (di solito due giorni) prima di procedere all’inumazione. La ‘morte cerebrale’ va invece certificata tramite elettroencefalogramma, o valutando i riflessi del tronco encefalico, e dopo sei ore si può procedere all’espianto.
Tuttavia, i limiti tecnici delle nostre apparecchiature le rendono inadeguate a scandagliare la complessità del nostro sistema nervoso centrale nel suo insieme. Di conseguenza, quando la legge chiede di accertare la “cessazione totale e irreversibile delle funzioni encefaliche” chiede l’impossibile e affida la diagnosi a un’approssimazione. Per altro, la prassi clinica contraddice la legge, perché il paziente cui viene diagnosticata la ‘morte cerebrale’ presenta funzioni vitali – cardiorespiratorie, endocrine, metaboliche etc. – che sono incompatibili con una presunta distruzione totale del cervello.
Infatti, in centinaia di casi l’autopsia condotta su persone dichiarate cerebralmente morte ha evidenziato danni al cervello parziali, limitati, non irreparabili e che avrebbero puto venir curati, se non avesse prevalso la ‘fame di organi’. In Giappone, dove la diagnosi di ‘morte cerebrale’ è stata rifiutata fino al 1999, le persone che in altre parti del mondo venivano definite ‘morte’ erano assistite e in certi casi recuperate a una vita normale, rivelando quanto la stessa prognosi di ‘coma irreversibile’ fosse in molti casi immotivata. Se cito l’esperienza giapponese non è però per insinuare che la diagnosi di ‘morte cerebrale’ possa in certi casi peccare di negligenza o di imperizia. Essa è sempre radicalmente inammissibile, per ragioni di metodo e di pensiero.
Si può capire l’incongruenza della legge citata riferendola ad altre fenomenologie. Per esempio, se dicessimo: “il concepimento è la cessazione del mestruo”, oppure: “il sonno è un’assenza di onde beta nel cervello” diremmo una palese sciocchezza. Il concepimento include ma insieme trascende l’assenza di flusso mestruale, come il sonno l’assenza di onde beta. Ben oltre questi segni, il loro significato comprende un’enorme varietà di altri fattori costitutivi. Analogamente, a prescindere dai limiti degli strumenti impiegati, è assurdo far coincidere la morte con la cessazione delle funzioni encefaliche.
“Quando un soggetto è morto v’è in lui una cessazione di funzioni encefaliche, quindi, se v’è in lui una cessazione di funzioni encefaliche il soggetto è morto” è un ragionamento chiaramente fallace. Il fatto è che la legge richiede l’accertamento di qualcosa che non sa definire. Ma come accerti una cosa se non sai cos’è? Quindi si rifugia in una petizione di principio. Alcuni obiettano che la legge non dice in cosa la morte consista ma come vada accertata. Secondo loro il senso esatto sarebbe: “la morte è avvenuta quando si registra la cessazione ecc.”. Ma è come dire: “il concepimento è avvenuto quando si registra la cessazione del mestruo”.
In sostanza, si pretende che la mera indagine clinica possa, arbitrariamente, senza un vero fondamento logico, definire la morte. Perciò il processo epistemologico cui prima s’accennava viene compresso e capovolto: si parte dall’ultimo punto e ci si ferma al penultimo. Prima si pone una diagnosi che dichiari una cessazione di funzioni encefaliche e poi si decreta che quella è la morte. Questo rovesciamento di piani si spiega solo supponendo un tacito punto preliminare: la necessità di legittimare l’espianto di organi. Si fissa una formula legale per rendere possibile qualcosa che altrimenti sarebbe illegale. Quindi, non è la legge a pretendere dalla medicina un accertamento secondo determinati criteri diagnostici, ma è la medicina a pretendere dalla legge una definizione di morte che autorizzi i criteri diagnostici funzionali al trapianto.
Tutto ciò si fonda quindi su un artificio dialettico, per cui un certo grado di coma, con prognosi negativa, viene equiparato alla morte. Perciò i cinesi, coerenti e pragmatici, espiantavano gli organi ai condannati a morte. La morte sembra una questione di ‘tempo vitale residuo’. Ma chi può dire quanto tempo ci resti? Alcune persone, i cui familiari si sono opposti al prelievo, sono sopravvissute in condizioni di ‘morte cerebrale’ per settimane, mesi o anni. È noto il caso di un bambino, dichiarato ‘morto’ a 4 anni che, accudito a casa dalla madre, che aveva negato il consenso all’espianto, sopravvisse altri 17 anni.
Obiezioni
Spesso si obietta che queste persone sopravvivono solo perché collegate a un respiratore. Non sarebbero realmente vive perché “tenute in vita artificialmente”. Ma con questa stessa espressione – “tenute in vita” – si ammette quel che si vuol negare. Un morto, collegato a un respiratore, non potrebbe respirare. E quante persone dipendono, per vivere, da farmaci, dalla ventilazione meccanica, da un rene artificiale ecc.?
Alcuni propongono di distinguere ‘morto’ da ‘cadavere’. Prima dell’espianto il corpo sarebbe morto, ma solo dopo diventerebbe un cadavere. Difatti, nessuno acconsentirebbe a cremare una persona in ‘morte cerebrale’, a cuore battente. Pare invece legittimo sventrarla. Avremmo così due morti. Una morte A, provvisoria, in attesa di donare gli organi, e una B, definitiva, dopo averli donati; una morte vitale e una cadaverica. Ma come non esiste una donna più o meno incinta – l’apparizione della vita è infatti repentina e rappresenta uno scarto ontologico – in modo analogo non esiste una persona più o meno morta. Se non distinguiamo la morte dal processo del morire potremmo andare a ritroso e trovare evidenze di morte in chiunque.
Altri sostengono che il corpo di queste persone è ancora vivo ma è morta in loro la ‘coscienza’, ciò che le rende ‘esseri umani’. Costoro identificano l’io col cervello e credono dunque di poter dire, sulla base di un esame neurologico, che l’io è morto. Ma questa idea, la si condivida o no, è una supposizione metafisica. Inoltre, la morte della coscienza è a priori una realtà non sperimentabile e indimostrabile. In ogni caso, è arbitrario assimilare la morte a una perdita di umanità, di coscienza o altra particolare prerogativa psicofisica. Negli anni ‘20 dei medici tedeschi proposero di sopprimere alcune categorie di persone perché la loro esistenza era considerata ‘priva di valore vitale’. Così, oggi alcuni vengono sacrificati perché pensiamo che la loro vita non abbia più valore, mentre la loro morte ci può tornar utile.
Per molti, l’opposizione al prelievo di organi è un’ottusa reazione al ‘progresso della medicina”. C’è l’idea che più il medico si serve di procedure sofisticate, di macchinari complessi per la diagnosi, più questa sia sicura e ‘scientifica’. È in fondo l’espressione di quel senso di inferiorità che l’uomo prova ormai di fronte alla macchina da lui stesso creata. Verificare l’assenza di pulsazioni e di respiro è possibile anche a un selvaggio ignorante. L’uso di elettrodi e di strumentazioni moderne, affidate ad esperti, sembra invece garantire un alto tasso di professionalità e di certezza. In realtà è il contrario, perché averla spostata dal cuore al cervello rende la morte molto più problematica e ambigua.
V’è anche una forte censura morale verso chi in tale materia è scettico o dissente. Il rifiuto di ‘donare gli organi’ è visto come manifestazione d’inumana insensibilità. Celebrare il consenso all’espianto come forma di solidarietà e generosità, definirlo “dono di vita”, “estremo atto d’amore”, evocare una commovente e virtuale ‘continuità’ del donatore in altri corpi, è diventato un atto doveroso del perbenismo borghese, della sua etica da soap opera. Ma io fatico a vedere in questo sentimentalismo una nobiltà d’animo. Non mi pare eroico o sublime lasciare ad altri una proprietà che si reputa senza alcun valore, rinunciare ai propri organi vedendovi un’inutile res derelicta. E se anche tale decisione nasce da buone intenzioni, quest’ultime nascono da una cattiva cognizione della realtà.
Infine, la più classica obiezione, che vorrebbe inchiodarci al nostro naturale egoismo, alle nostre paure. Cito le parole di un esponente AIDO: “è facile disquisire in modo astratto su morte encefalica, coma od altro, se si sta bene, ma in che condizioni saremmo se dal trapianto dipendesse l’unica occasione di vita per noi o i nostri cari?”. Pare dunque sia irrilevante distinguere tra coma e morte. Se anche il prelievo di organi fosse un crimine, ciò ha poca importanza, perché il fine giustifica i mezzi, e la mia necessità rende inutile ogni riflessione. Non serve porsi dubbi etici perché, come diceva Hitler, ‘etico’ è ciò che la legge consente.
Conclusione
Dopo aver riflettuto, ammettiamo pure che la morte sia materia indecidibile. Una nostra invenzione, un confine convenzionale che l’uomo traccia tra l’aldiqua e un ignoto aldilà. Una linea immaginaria posta tra ciò che appartiene alla vita terrena e quello che forse, misterioso, sta oltre. Dobbiamo indicare quel limite ma il dubbio ci frena. Allora mi dico: se traccio la linea più in là rischio di giudicare ancora viva una persona già morta e di fornirle quindi un’inutile assistenza medica. Se la traccio più in qua, il pericolo è che io consideri già morta una persona ancora viva e quindi, nel caso dell’espianto di organi, che io la uccida. È un’opzione che non può decidere la scienza ma la mia coscienza.
Io scelgo, come Shakespeare, di segnare quella linea là, dove tutte le funzioni vitali cessano. Ossia, di lasciarla dove è sempre stata, perché ritengo che finché il nostro cuore pulsa siamo ancora legati a questa terra. I suoi elementi scorrono ancora in noi attraverso i canali del corpo, del sangue, del respiro. Solo quando il cuore irrevocabilmente si ferma, anche il cervello muore. Si apre la porta della nostra piccola cella e possiamo andarcene.
Era semplice, un tempo, la morte. Un bambino, un animale, la potevano riconoscere. Capivi che una persona non era più nel suo corpo. Non servivano commissioni ad hoc, collegi di esperti e tecnologie sofisticate. La morte era una candela subito spenta, senza più alcuna tremolante luce. Un ritmo che improvvisamente si ferma, tra un battere e un levare. Non era cerebrale, epatica, polmonare o altro. Era la morte. Invenzione umana e sublime per sancire una fine, e un nuovo inizio. Per tornare umani bisogna riportare il centro dell’essere dal cervello al cuore. Se la nostra società strappa gli organi a persone vive è perché essa stessa è ormai senza cuore. E una società così non poteva che inventarsi una ‘morte cerebrale’.
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