Seguendo il suono di un fiumiciattolo (lo scarico del Lete), Dante e Virgilio si allontanano dal Regno di Lucifero, l’Inferno, e imboccano un “cammino ascoso” che li porta finalmente a rivedere le stelle (If XXXIV 127-139). Il peggio è passato. E’ ora di entrare nel “regno / dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno” (Pg I 4-6), ma non prima di avere riordinato le mappe e sondato la geografia del luogo.
Quando Dante ne concepisce la struttura, il regno di mezzo è una novità. Siccome il Paradiso era per pochi e l’idea di un Inferno perpetuo creava scompiglio nel gregge dei fedeli, nel 1274 la Chiesa istituì una terra mediana accessibile a tutti, il Purgatorio appunto, facendo tirare un sospiro di sollievo ai cattolici.
Per prima cosa il poeta descrive il globo diviso in due emisferi: quello settentrionale (boreale) in cui si trovano le terre emerse, o abitate, e l’altro meridionale (australe) ricoperto dalle acque oceaniche. L’estensione della fascia solida va da Gade (Cadice, da intendersi come lo stretto di Gibilterra) alla foce del Gange, che è 90° a oriente. Nel centro, a 32° di latitudine nord, c’è Gerusalemme con sotto i piedi l’immenso imbuto infernale. In mezzo alla distesa liquida, a 32° di latitudine sud, sorge invece il sacro monte del Purgatorio, dalla cui sommità si comincia a vedere il Paradiso.
Il quadro spiazza e interroga. Da quando in qua gli uomini vivono al piano di sopra e gli angeli stanno sotto? Non dovrebbe essere il contrario? Com’è venuta al poeta l’idea di un mondo capovolto? Ha elaborato le conoscenze astronomiche dell’Europa medioevale, indagato in quelle sapienziali del continente eurasiatico, mischiato le due cose?
La geografia sacra della Commedia evoca luoghi che esistono in un mondo a metà strada tra l’ambito sensibile e quello puramente spirituale. Si tratta di una geografia immaginale che un tempo non aveva bisogno di troppe spiegazioni poiché alle persone veniva spontaneo considerare le due geografie, la materiale e l’immaginale, alla stregua di realtà comunicanti. “Il dominio materiale costituisce solo una proiezione di quello immateriale”, scrive Julius Evola.
A causa però del progressivo restringimento di vedute l’homo technologicus ha perso la facoltà di pensare in termini di livelli di verità diverse ma convergenti e costantemente regolabili. Motivo per cui a noi verrà richiesto uno sforzo maggiore, quindi godiamoci finché si può il bel panorama della spiaggetta “dove l’acqua di Tevero s’insala” (Pg II 101) nell’unico angolo del secondo regno non soggetto alla volubilità dei fenomeni atmosferici (Pg XXI 46-48).
L’isola-Purgatorio è suddivisa in tre macroaree: 1) L’Antipurgatorio così chiamato dai commentatori ma mai citato con questo nome nella Commedia, dove stazionano le anime dei negligenti ai quali non è inflitta alcuna pena; 2) il Purgatorio vero e proprio che sale da un balzo all’altro come una piramide a gradoni e presenta dopo ogni tornante una porta chiusa con davanti un Angelo; 3) il Paradiso Terrestre posto sulla terrazza della montagna e aperto verso il cielo.
Chiaramente questo non è il Purgatorio cattolico bensì una costruzione fisica e spirituale del tutto originale che Dante consiglia di leggere nei quattro sensi (letterale, allegorico, morale, anagogico), come scrive nella lettera con cui dedica la terza cantica a Casagrande della Scala (Epistola XIII, 21). Indubbiamente il senso che gli sta più a cuore è quello anagogico-iniziatico-spirituale che comprende la «liberazione» dalle catene delle rinascite, una cosa assai diversa dalla «salvezza» promessa dalla Chiesa in cambio di danaro e indulgenza, per cui cercheremo di assecondarlo.
Nei canti iniziali in modo esplicito e negli altri più velatamente Dante precisa di essere lì con il suo corpo. E’ vivo nel “… secondo regno / dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno” (Pg I 4-6). Detto altrimenti: i morti che incontreremo sulla strada si trovano nella sala d’attesa costituita dal Purgatorio cattolico; lui, no. Ma allora, dov’è? Cosa intende fare? Secondo la dantista Maria Soresina questo strano avvio ha tutta l’aria di essere un noviziato cataro, cioè un percorso complesso di purificazione che terminerà con il consolamentum, una sorta di «battesimo spirituale» che presso i Catari precedeva la liberazione vera e propria dello Spirito dalle catene dell’Anima (M. Soresina, Libertà va cercando, 2020).
Le sorprese, comunque, non finiscono qui. Come il senso di marcia all’Inferno ha mantenuto la sinistra (yang), così la salita sul Sacro Monte procede verso destra (yin). Tale orientamento potrebbe riallacciarsi alla Y pitagorica, conosciuta da Virgilio e perciò anche da Dante. Forse il poeta ha invertito la rotta per richiamare l’attenzione del lettore sulla differenza esistente tra la Via della Mano Sinistra, più precipitosa e senza mezzi termini (l’Inferno), e la Via della Mano Destra (il Purgatorio), con meno costrizioni ma molto faticosa.
Andata e ritorno. Nell’andata sono favoriti gli impavidi mentre il ritorno (alla matrice) è riservato ai mistici e agli asceti. Emblematiche a questo proposito appaiono le posizioni assunte dalle varie culture tradizionali all’interno della variopinta famiglia eurasiatica: ad esempio i Cinesi, avvezzi da sempre alla disciplina, accordavano una maggiore «autorevolezza» alla mano sinistra e al lato sinistro; i Pitagorici invece ammettevano che, sì, in effetti il moto procedeva naturalmente da est a ovest, cioè da sinistra verso destra, ma persino la «naturalezza» talvolta necessitava di una spintarella (De coelo, II, 285 B 25).
In altre parole: vero è che il seme germina da quella parte, la stessa da cui sorge il sole, ma senza il senso pratico che appartiene al lato «femminile» dell’animo umano la pianta ha poche probabilità di crescere. Il concetto si applica a un campo coltivato come a un’anima in cerca di riscatto; non a caso sulla «terrazza» del cono di espiazione disegnato da Dante una donna attende l’«amico suo» per condurlo ancora più in alto.
Formatosi via via che Lucifero cadeva giù e l’anima della Terra si ritraeva inorridita, fino a sfondare il polo opposto ed uscire nell’emisfero australe, il Sacro Monte ha una forma eloquente: è una ziggurat. In queste costruzioni preistoriche i piani erano normalmente sette, proprio come i balzi del Purgatorio; le antiche terrazze, sede della divinità, venivano ricoperte d’oro mentre qui la fitta vegetazione della spianata superiore (il Paradiso Terrestre) evoca l’Età dell’Oro; simbolicamente le ziggurat costituivano il punto d’incontro del Cielo e della Terra, allo stesso modo il Purgatorio permetterà al poeta di spostarsi dalla Terra al Paradiso.
Presso molte culture dell’Eurasia centro-meridionale le antiche divinità femminili, come ad esempio Astarte, erano inoltre rappresentate da questa forma geometrica. Pietre coniche che fungevano da idoli sono state trovate nelle isole di Cipro e di Malta, probabilmente scolpite dai Fenici scesi dall’area nordatlantica, mentre dai canyon del Sinai sono spuntati coni di arenaria grosso modo databili nello stesso periodo.
Era un enorme tronco di cono anche la Torre di Gerico, in Cisgiordania, vecchia di 11mila anni e considerata il primo «grattacielo» dell’umanità, la quale esercitava «maternamente» sul territorio circostante la sua funzione protettiva. In qualità di ricevitore catturava i giochi di luce del solstizio d’estate e al termine del giorno più lungo dell’anno, quando l’ombra del vicino Jebel Quruntul (il Monte della Tentazione) la colpiva prima di allargarsi sulla città, fungeva da scudo fisico e simbolico contro l’arrivo della «fase buia» a rischio di morte spirituale.
Possiamo fingere che Dante non abbia considerato tutti questi elementi, del resto ha impiegato solo quindici anni a scrivere la Commedia e magari non ha avuto il tempo di informarsi, tuttavia le analogie con la millenaria tradizione eurasiatica sono troppe per essere casuali.
Un altro interessante indizio proviene dal lato terrestre in cui il poeta colloca la montagna del Purgatorio, il Sud, ritenuto presso molte culture arcaiche la direzione spiritualmente rilevante. I Sumeri, ad esempio, indicavano questa direzione come la «radice di ogni esistenza». Nell’oceano abissale sotterraneo (o sottostante) regnava il Signore dell’Apsû, cioè Enki-Ea alias Kronos, alias Yama-Varuṇa, alias Ptah, o Kiho-tumu presso i Tuamotuani, e via dicendo.
E’ difficile ritenere fortuito il posizionamento del regno intermedio tra punizione e purificazione nell’emisfero australe, cioè nell’area più «spirituale» del pianeta. Scavato nella roccia il monte si presenta alle anime che aspirano alla trasformazione in «puro spirito» sotto forma di un enorme monastero, un luogo di ritiro e meditazione in cui il passaggio da una Cornice all’altra avviene secondo un cerimoniale prestabilito con tanto di canti e salmi, inni dedicati e apparizioni angeliche che scandiscono una tempistica liturgica precisa.
In questo posto va concesso tempo al tempo. Il lavoro di ripulitura delle scorie ha i suoi ritmi. Irrilevante in un luogo eterno come l’Inferno e superfluo nel Paradiso, il Tempo è basilare per chi affronta il processo di purificazione sul Sacro Monte, allegoria del percorso morale dell’anima umana verso la liberazione.
Il semplice pentimento e i buoni propositi non bastano per raggiungere la meta, l’anima non scende (come all’Inferno) o sale per forza d’inerzia. In Purgatorio il Tempo non «passa da solo» né basta semplicemente attendere per ottenere i risultati sperati. La collaborazione attiva dell’anima è fondamentale, ricorda Dante, un minimo errore può riportare il penitente al punto di partenza. Le regole del gioco vengono spiegate con chiarezza dall’angelo posto a guardia della sacra porta di san Pietro: “Intrate; ma facciovi accorti / che di fuor torna chi ‘n dietro si guata” (Pg XI 131-132).
L’Angelo sta evidentemente testando il grado di preparazione dell’ordinando e tocca a Virgilio, come sempre, perorare la causa del suo pupillo. Alcuni commentatori hanno visto in questo passo dei riferimenti al Vangelo di Luca: «Un altro disse: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Ma Gesù rispose: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di dio”».
In effetti la Via dello Spirito è assolutizzante. L’impegno deve essere assoluto. L’abbandono di tutte le distrazioni della vita precedente, radicale e definitivo. Come insegna qualsiasi Maestro spirituale all’inizio di ogni apprendistato non c’è riscatto finché non vengono tolte di mezzo le cose inutili, a cominciare dal sogno del successo, che tra i mortali è diventato un dio (Eschilo).
Conversando nella prima cornice con il superbo Oderisi da Gubbio sulla finitezza della fama, che non dura per sempre, Dante fa chiedere all’artista: credi che avrai una fama maggiore se muori di vecchiaia anziché trapassare con il ciuccio in bocca? “Che voce avrai tu più, se vecchia scindi / da te la carne, che se fossi morto / anzi che tu lasciassi il ‛ pappo ‘ e ‘l ‛ dindi ‘, / pria che passin mill’anni? ch’è più corto / spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia / al cerchio che più tardi in cielo è torto” (Pg XI 103-108).
Chi si ricorderà di noi fra mille anni? Un soffio al confronto dell’eternità. Un batter di ciglia rispetto al movimento del cielo che si muove più lentamente, cioè al periodo di precessione degli equinozi (36mila anni per l’astronomia antica). Tra qualche secolo persino la figura di Dante potrebbe essere svanita, già gli stravolgimenti odierni non promettono nulla di buono.
Come fonte del Tempo il poeta indica il cielo cristallino, o Primo Mobile; il che significa che l’uscita di questo flusso ha avuto un inizio, indicato appunto nell’Età dell’Oro, (Pg XXII 71), sebbene non sia ben chiaro cosa ci fosse prima, ma si capisce che qualcosa deve esserci stato. Un motivo in più da parte del poeta per affermare l’assoluta opposizione tra tempo ed eternità, tra il fluire delle ore e lo stato immutabile della realtà oltremondana.
Se il Tempo eterno non ha bisogno di nulla, quello mondano deve essere misurato dal Sole, “lo ministro maggior de la natura, / che del valor del ciel lo mondo imprenta, / e col suo lume il tempo ne misura” (Pd X 28-30). Conformemente al suo avvicinarsi o al suo allontanarsi dalla linea equinoziale, il tempo mondano pre-dispone le singole cose a ricevere in modo differente la “virtù informante” (l’influsso celeste) posta da dio nel sole e negli astri.
Significa che il Tempo conosciuto è responsabile di tutto ciò che ci riguarda, compresa la diffusione del Male nel mondo? Affermativo, secondo Dante. Scartata l’ipotesi che dio abbia portato il Male sulla Terrà, perché dio è infinito amore e assoluta bontà, l’indiziata numero uno è l’azione inarrestabile del Tempo che va e viene senza sosta trascinando dietro di sé ogni cosa. Il Bene come il Male. D’altra parte il movimento è la sua cifra, neppure volendo il Tempo potrebbe smettere di creare le fasi della Storia. In ultima analisi, comunque, spetta al libero arbitrio di ciascuno agire con coscienza.
Appurato che tocca al Tempo purgatoriale la smacchiatura dell’anima, viene di conseguenza che spetta a lui anche la definizione della durata del soggiorno lungo il percorso di preghiera, espiazione e purificazione. Difatti chi si pente in punto di morte deve rimanere nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo che ha trascorso nella sua ribellione, a meno che questo decreto non venga abbreviato dalle buone preghiere di qualcuno. “(…) per ognun tempo ch’elli è stato, trenta, / in sua presunzion, se tal decreto / più corto per buon prieghi non diventa” (Pg III 139-141).
Naturalmente le orazioni devono sorgere da un cuore in grazia di dio, altrimenti il cielo non le ascolterebbe. L’allusione è rivolta a un cuore femminile, visto che anche nel Medioevo il numero delle vedove era di gran lunga superiore a quello dei vedovi. Sebbene su questo aiuto ormai ci sia poco da sperare, si rammarica Dante per bocca dell’amico Forense Donati.
Purtroppo il malcostume dilaga a Firenze e le fiorentine sono diventate addirittura più svergognate delle donne dell’arretrata Barbagia, che ostentano abbondanti scollature per mostrare il seno. Bei tempi quando le figlie non volevano uscire di casa troppo presto mettendo alle strette i padri sul pagamento della dote, le mogli vegliavano amorevolmente la prole, lavoravano al telaio e vivevano in modo modesto senza desiderare monili appariscenti o gonne ricamate.
Chiaramente la donna “sobria e pudica” è un elemento poetico. Questo è pur sempre un poema, seppure “sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra”. A noi però non interessano i costumi bensì il Tempo che Dante ripropone in quasi tutte le sue opere, mostrando influenze provenienti sia dagli orientamenti contrastanti della cultura filosofico-teologica del suo tempo sia da fonti tradizionali più remote e geograficamente lontane.
Sarebbe un peccato non fare tesoro delle acute riflessioni del Fiorentino per rimodulare il proprio Tempo individuale, limitato nella maggioranza dei casi al Tempo biologico (giovinezza, maturità, vecchiaia). La super-intelligente Età Oscura non sa nulla del Tempo eterno di cui Dante farà esperienza nel Paradiso Terrestre né conosce il Tempo cairologico, o cruciale, riservato alla discesa dal cielo dei segnali angelici che indicano alle anime terrestri il «momento giusto», «supremo», «opportuno» per cominciare a spiccare il volo verso la casa del Padre. Quante volte diciamo a noi stessi che bisogna cogliere l’attimo, prendere l’iniziativa, rispondere alle sfide di questa vita in previsione dell’altra vita? Quante volte, poi, lo facciamo per davvero?
La verità è che anche sul Tempo, come su tutto il resto, abbiamo le idee abbastanza confuse. I fisici lo rimuovono, lo negano, affermando che i fenomeni fondamentali della natura sono indifferenti al suo scorrere. Siccome le particelle elementari presenti nel microcosmo dell’atomo non lo sentono, il Tempo non conta nulla. Diversa è la posizione dei biologi, per i quali il Tempo ha una direzione ben precisa e ogni organismo è chiaramente inserito nel suo flusso.
Qual è, dunque, il Tempo vero? Quello dei fisici o quello dei biologi? Probabilmente quello del nostro sherpa spirituale, Dante, che aprirà sulla strada nuovi sentieri. E’ fattuale che il regno spazio-temporale non esisterebbe se la nostra «anima terrena» non lo percepisse. Come diceva il fisico John Wheeler: “nessun fenomeno è un fenomeno reale finché non è un fenomeno osservato.” Ma il destino dell’Anima è quello di diventare «scintilla», cioè Spirito, perciò prima o poi il Tempo sparirà.