La caduta, la cattura, l’abbandono, la nostalgia, l’intorpidimento, il sonno e l’ebbrezza sono motivi ricorrenti nella narrativa tradizionale eurasiatica. Uno per tutti valga l’Inno della Perla, un racconto gnostico conservato negli Atti di Tommaso e articolato proprio attorno al tema dell’amnesia che ciclicamente colpisce il genere umano.
Un Principe giunge dall’Oriente per cercare in Egitto la perla unica che si trova in mezzo al mare circondata da un serpente e protetta dal suo sibilo sonoro, ma qui viene catturato dagli uomini di quel paese e portato in una maestosa costruzione di pietra. La stanza che lo ospita è piccola e accogliente. Il letto è soffice. Dalla finestra a sei riquadri si vedono la piazza di un mercato affollato e due angoli di strada.
Ogni giorno i padroni di casa gli danno da mangiare del cibo molto gustoso e da bere del buon vino. Nessuno gli chiede di lavorare e abiti di fogge a lui sconosciute avvolgono adesso le sue forme. Non è difficile per il giovane adattarsi a quella vita agiata, e presto egli dimentica persino la sua identità.
In capo a un anno non ricorda più il volto di suo padre, né quello di sua madre, della nutrice che lo ha allevato e dei suoi servi. Dimentica anche la perla per cui è stato mandato in Egitto poiché le comodità di quel posto lo hanno sprofondato in un torpore profondo.
Per vie traverse i genitori lo rintracciano e gli scrivono una lettera che vola a destinazione come un’aquila, discendendo su di lui come una colomba. Il Principe la prende tra le mani e la bacia, com’è sua abitudine. Infrange il sigillo e lascia che quelle righe cantino per lui come un usignolo: “Da tuo padre, il re dei re, e da tua madre, sovrana dell’Oriente, e da tuo fratello, nostro secondogenito, a te, nostro figlio, salute! Risvegliati e sollevati dal tuo sonno, e ascolta le parole della nostra lettera. Ricordati che sei figlio di re. Guarda in quale schiavitù sei caduto. Ricordati della perla per cui sei stato inviato in Egitto”.
Incredulo il giovane scopre così che quel messaggio concorda con ciò che è scolpito da sempre nel suo cuore e di tanto in tanto i sogni riportano a galla. Ricorda all’improvviso di essere figlio di genitori regali. Ricorda la perla per cui è stato inviato in Egitto, e finalmente parte per la sua missione. Trova il serpente dai sibili sonori, lo ipnotizza pronunciando il nome potente di suo padre, e non appena la bestia cade in un sonno profondo prende la perla e torna a casa.
Qualsiasi origine abbia questo mito (probabilmente iranica) il suo messaggio è universale, presentando in forma inequivocabile la tendenza innata dell’uomo a cadere ciclicamente nell’oblio determinato dalla mollezza, così che l’anima dimentica la sua identità, il suo soggiorno d’origine, il suo vero centro, il suo essere eterno. Non per sempre, ma per un po’.
Il tema dell’eclisse del lume non interessa solo l’individuo ma riguarda qualsiasi società umana, come ben sappiamo noi cittadini di un’unione di Stati narcotizzati da mezzo secolo di comodità. Il nostro sonno secolare si chiama «liberismo», e dapprincipio anch’esso aveva dato l’impressione di favorire una condizione di pace e benessere.
Una prima missiva ci è stata recapitata dall’aquila (calva) nel 2007-8 e conteneva un verdetto inappellabile: «l’Europa ha bisogno di gravi crisi economiche per fare passi avanti». Ma non ci siamo svegliati. Consistenti parti di sovranità nazionale sono state così cedute a grossi investitori, multinazionali, fondi speculativi. Noi dormivamo e al posto nostro decidevano operatori specialistici come Goldman Sachs, Gp Morgan, Morgan Stanley, delegando ad agenzie private di rating (sempre di loro proprietà) il compito di valutare l’affidabilità economica degli Stati d’Europa sulla base di un principio truffaldino: il debito pubblico.
Increduli come il principe della leggenda un bel giorno abbiamo aperto gli occhi; giusto in tempo per assistere all’innesco del processo di «rifeudalizzazione della società» finalizzato a riportare tutti i capitali, grandi e piccoli, nelle mani dei Signori della Tecnofinanza in cambio di vitto, alloggio e precarietà.
Le linee guida del progetto sono state presentate nel 2014 al World Economic Forum di Davos dal suo ideatore, Klaus Schwab, per essere poi perfezionate dall’Agenda 2030, che al netto della melassa di cui è ricoperta prevede un futuro distopico degno del miglior film di fantascienza. La sfiducia tra governi e cittadini crescerà, il potere politico arretrerà davanti a quello economico, le piccole industrie e la piccola proprietà privata verranno abolite, ovunque ci saranno tecnologie di sorveglianza biometrica, la censura dei media e dei social media reprimerà il dissenso, il poco lavoro rimasto sarà svolto a domicilio.
In assenza di un’alternativa conclamata, che non si capisce bene da quale parte della galassia dovrebbe arrivare, l’Europa sospesa tra la memoria e l’attesa continua a rifiutare la parola, il gesto, l’azione. Si adegua alle altrui decisioni limitandosi a constatare i danni, prende le misure delle crepe sempre più profonde incise dal lungo sonno nella struttura complessiva, ma niente di più.
L’addormentamento ha ucciso la sua proverbiale audacia? Come sono arrivati a questo punto popoli di indomiti guerrieri, raffinati pensatori, geniali scienziati e fondatori d’importanti civiltà? E’ possibile fare una genesi del liberalismo, tentare una esegesi del suo farsi mondo nella contemporaneità?
La catena delle concause è lunga e intricata. Un’enciclopedia potrebbe solo elencarne le maglie, senza tuttavia esaminare adeguatamente gli addentellati. Ma almeno una veduta a volo d’uccello può essere colta e considerata, tenendo presente che prima di Platone e Aristotele l’«economia» era sconosciuta all’umanità, non essendovi distinzione alcuna tra la vita in generale e la cosiddetta «vita economica».
Grosso modo il tarlo s’insinuò nel corpo della società europea a partire da Paolo (Ai Romani, 9, 16), che introdusse nella discussione uno dei più esplosivi concetti teologico-filosofici che a quell’epoca si potessero immaginare: che si venga o meno salvati “non dipende né da chi vuole, né da chi corre, ma da dio che usa misericordia”.
Agostino aggiunse che non solo la redenzione ma anche ogni intelligenza razionale era atto di grazia divina, per lo meno da quando Adamo aveva sottratto all’uomo la libertà di agire innocentemente. Su questo punto Lutero si disperò, Melantone superò l’ostacolo con la diplomazia, Calvino lo elevò a verità centrale, a «terribile decreto», come lo chiamava. Ma con riserva: il principio di predestinazione era «inoppugnabile e fatale», pur tuttavia l’individuo poteva stimare quanto fosse nelle grazie del Signore dal proprio successo, o insuccesso, nella vita.
Il ponte tra le antiquate dottrine teologiche e l’ideologia economica moderna era gettato. L’Europa lo attraversò rapidamente, e oltre il guado l’invenzione della stampa a caratteri mobili contribuì a rendere l’uomo un soggetto autonomo «riflettente» in grado di chiamarsi fuori dalla comunità. Il tutto a spese dell’homo naturaliter, che fino a quel momento aveva basato la propria vita su una visione animistica.
Dalla fusione del mercato locale con il commercio internazionale nasceva intanto il mercato liberale, al quale Thomas Hobbes (1588-1679) diede dignità filosofica interpretando la Natura come il «luogo delle relazioni meccaniche tra corpi in moto». Una visione moderna sulla quale la scienza mise immediatamente il cappello, finendo per ridurre il mondo naturale a una dimensione meramente quantitativa leggibile attraverso la matematizzazione.
Si aprivano le porte (infernali) dello sfruttamento illimitato delle risorse di cui il Terzo Millennio sta pagando i salatissimi interessi. L’ambiente divenne il luogo del conflitto perenne, un campo di battaglia dal quale il singolo soldato poteva uscire solo delegando in toto la libertà individuale allo Stato assoluto.
Ma poiché la proposta era tutt’altro che liberale, John Locke (1632-1704) precisò che si trattava solo di una «delega parziale» a vantaggio dello Stato. Niente di definitivo, insomma, l’individuo e i suoi diritti non erano in discussione. Tuttavia appariva chiaro che la famiglia sociale cominciava ad essere un po’ troppo numerosa e qualcuno dei suoi membri avrebbe dovuto fare le valige e andarsene, se si voleva permettere agli altri di proseguire sulla strada dello sviluppo.
Come sempre accade in questi casi si decise di sacrificare l’elemento più anziano del gruppo, ovvero il principio di «bene comune» che per millenni aveva retto e fatto prosperare le società eurasiatiche di matrice indoeuropea. La sua dipartita favorì l’ingresso della competizione, così che la vita divenne una gara senza fine. Nulla di cui preoccuparsi, disse Adam Smith (1723-1790), perché il perseguimento dell’interesse privato (che l’etica antica giudicava un vizio) era assimilabile alla produzione del bene comune (la virtù). E anche stavolta le apparenze erano salve.
Le istanze filosofiche di Hobbes, Locke e Smith si coagularono attorno a tre assi portanti: l’affermarsi dell’individualismo, la creazione di danaro attraverso la ricerca tecnico-scientifica, il supporto di uno Stato Nazionale disposto ad impegnarsi nella moltiplicazione del capitale. Partendo da queste premesse la rivoluzione industriale inglese costruì una vera e propria azione politica volta al consolidamento della «ragione strumentale», o liberale, la cui ascesa fu rapida e inarrestabile.
Diligentemente gli Europei si adeguarono alle nuove regole rimuovendo dalla strada tutti gli ostacoli che si frapponevano fra l’essere profondo e l’avanzata trionfale che l’Ego individuale si riprometteva, aiutati nella digestione del rospo dall’«etica protestante del capitalismo» che giustificava teologicamente sia la ricchezza sia l’aspirazione ad essa.
Il passo successivo fu l’intronizzazione della «mano invisibile» indicata dal padre del liberismo Adam Smith come il regolatore dei mercati. Oggi gli altari di quella religione sorgono a Manhattan e sono alti da far paura, oltre che inaccessibili. Li protegge il sacro dogma dell’Economia, cioè quella cosa mostruosa che ha spinto la somma totale di denaro presente nel mondo fino a 60 trilioni di dollari, sebbene in concreto le monete e le banconote circolanti non arrivino a 6 trilioni di dollari, perché il resto esiste solo sui server dei computer.
Attualmente gran parte delle transazioni commerciali viene eseguita trasferendo dati elettronici da un computer a un altro, senza alcuno scambio di soldi tangibili né merci, e l’introduzione a tappeto della moneta digitale prevista dalla Quarta Rivoluzione Industriale porterà i movimenti virtuali all’esasperazione. Ne consegue che sotto i nostri piedi c’è attualmente un mondo finto che potrebbe sparire da un momento all’altro, e senza preavviso.
L’ingranaggio liberista oggi non potrebbe funzionare senza il fattivo apporto dello scientismo dogmatico, che sforna a pieno ritmo dai laboratori tecnologici e farmaceutici prodotti sempre più promettenti e accattivanti. Mente e corpo possono dormire sonni tranquilli. Altrettanto non si può dire del mondo interiore, che svuotato di ogni senso continua a riempirsi di effimero, ovvero del novum che il mercato incessantemente propone a «ottimi prezzi».
La separante avidità di beni materiali, il mito del successo e la brama di ricchezze hanno messo in ombra gli insegnamenti spirituali delle grandi civiltà europee del passato, sbriciolando un patrimonio culturale dal valore inestimabile. Ciò nonostante al capezzale dello Spirito l’accumulo mondializzato di ricchezza continua imperterrito a portare soldi nelle casse di un gruppuscolo di nababbi in perenne conflitto con il «limite interno». Resta da capire per quanto tempo ancora il capitale potrà moltiplicare se stesso.
Ipotizzando l’approssimarsi del punto di rottura, che prima o poi arriva, non sarebbe più saggio cominciare a ragionare nella prospettiva di un «dopo»? L’Europa ce la farà a soppiantare l’ordoliberismo con un nuovo socialismo? Non un marxismo vecchio stampo, che non reggerebbe ai colpi della modernità, ma una visione realmente rivoluzionaria capace di coniugare le necessità contingenti con il pensiero di Tradizione che appartiene all’Europa prima d’ogni altro paese al mondo.
Piedi radicati nella Storia e sguardo puntato sui futuri ricongiungimenti famigliari tra i popoli affini che abitano l’Eurasia. Solo in questa prospettiva si può pensare a un’azione capace di riabilitare il «lavoro vivo», che è l’unica cosa in grado di porre un freno agli eccessi e alla dismisura, quint’essenza della «ragione liberale».
Proprio la dismisura ci ha portato a considerare ogni persona, come ogni cosa, in relazione a un prezzo. Così i farmaci che dipendono da un brevetto non vengono venduti a chi ne ha bisogno ma al miglior offerente, gli spazi urbani sono regolarmente privatizzati, le strade commercializzate, e c’è persino un biglietto da pagare per sdraiarsi su una spiaggia a prendere il sole.
Le valutazioni economiche si estendono ai fiumi contenuti dalle dighe, alle foreste disboscate, ai mari lottizzati, all’acqua imbottigliata e messa sul mercato, ai sistemi di conoscenza tradizionali saccheggiati attraverso norme di proprietà intellettuale, alle scuole trasformate in imprese volte al profitto, ai luoghi di cura divenuti aziende ospedaliere. Il risultato di queste grandi manovre è assai deludente: non siamo più liberi, più ricchi, più felici. Solo più disincantati, e difatti la vita umana procede da decenni verso una generale perdita di senso.
E’ ora di decidere cosa vogliamo fare da grandi. Chiaramente il futuro della debole e impaurita Europa non sarà politico (sullo scacchiere internazionale abbiamo un’influenza prossima allo zero) né industriale (non siamo competitivi su scala mondiale). Altri si occuperanno di questi settori con più possibilità e migliori risultati. In compenso gli Stati dell’Unione sono ricchi di competenze poiché in molte regioni sopravvivono ancora gli artigiani in grado di fare uscire qualcosa di unico dalle proprie mani. Muratori e architetti capaci di «lavorare» sulle dimore dei vivi e dei morti in modo da creare un flusso di armonia, agricoltori e cuochi in grado di estrarre dalla terra e cucinare prelibatezze che altrove si sognano, sarti dallo stile unico, tecnici ingegnosi e propositivi.
Incredibile a dirsi ma la tecnologia non ha annientato queste figure professionali, e saremmo degli stupidi se adesso non ci concentrassimo sulle possibilità inesplorate del «lavoro vivo» derivante dalla Tecnica. Sempre meglio di perdersi in fantasticherie sulle potenzialità (tutte da vedere, e comunque non infinite) della Tecnologia.
Nel vero lavoro c’è la fonte di ogni valore aggiunto, di ogni accrescimento personale come di ogni profitto. Tutto. Non è campata in aria l’idea di edificare il prossimo modello di sostentamento su quell’Archè che a dispetto delle apparenze è sempre vivo tra noi e ancora ci parla attraverso simboli e paesaggi, profumi e sapori, afflati e slanci poetici sgorganti dall’autentica natura europea.
Già stanno tornando ad esercitare un certo fascino sull’immaginario collettivo idee sempreverdi quali «comunità» e «bene comune». In ogni angolo d’Europa unioni di giovani (pochi ma buoni) si stanno spendendo per costruire orti urbani, laboratori artigianali, banche del tempo, gruppi di acquisto solidale, centri di baratto, cucine popolari, esperienze culturali condivise.
Un domani potrebbero essere queste le «armi europee» per combattere l’assalto finale delle forze infernali dell’ordoliberismo, gettando i semi di una società capace di superare il Mercato e lo Stato. Sarebbe comunque tempo perso pensare di poter contare sull’appoggio degli eurocrati di Bruxelles, che provenendo da un’«educazione americana» neanche capiscono le potenzialità e il valore aggiunto di proposte del genere.
Toccherà ai cittadini europei riuniti in piccole comunità darsi daffare, magari rinunciando a qualcosa. Poco male, non sta scritto da nessuna parte che una vita per dirsi tale debba riempirsi di roba inutile comprata il «venerdì nero» sulla piattaforma di acquisti più famosa del mondo, che naturalmente fattura in un paradiso fiscale, con il beneplacito delle istituzioni.
Come il principe della leggenda persiana l’Europa si svegli e ricordi la sua vera identità. Se non ora, quando? Il processo di desacralizzazione e reificazione del mondo è in flessione e prima o poi cederà, perché tutto finisce. Meglio portarsi avanti cominciando ad ammettere che il modello culturale denominato «civiltà tecnologico-industriale» ha fallito nell’impresa di diffondere la pace e il benessere nel mondo.
Il sogno è finito, come hanno già capito alcuni popoli europei che prima di addormentarsi se la passavano piuttosto bene ed ora sono a bordo del Titanic: una nave enorme sta colando a picco ma la paura (della morte) suggerisce di ignorare la gravità della falla nello scafo affinché i passeggeri possano continuare a ballare nel salone delle feste, con i camerieri sorridenti che cercano di rendere l’ultimo viaggio il più confortevole possibile. Può anche darsi che l’Italia non rientri nel novero dei sopravvissuti al disastro, ma non c’è dubbio che i più svegli saliranno sulle scialuppe di salvataggio e toccheranno terra da qualche parte.
Rita Remagnino
Fonte immagine copertina: web
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