Tolti i testi sacri, compresi i pensierini rossi di Mao, il libro più letto al mondo è don Chisciotte della Mancia, scritto in due tappe pubblicate a distanza di dieci anni l’una dall’altra (1605. 1615) quando il loro autore, Miguel de Cervantes Saavedra, era già un tantino avanti con gli anni, dati i tempi, era nato infatti nel 1547 a Alcalà de Henares, comune dell’hinterland di Madrid. Mio nonno, grande divoratore di romanzi ne aveva un’edizione preziosa illustrata da G. Doré, ordinata tra i romanzi fantastici di J. Verne e l’Ettore Fieramosca di Massimo D’Azeglio per affinità cavalleresca. La figura del cavaliere solitario senza macchia né paura ha sempre plagiato la fantasia degli adolescenti volanti, conducendoli per mano a vivere una realtà onirica avvolta dalle brume dei fantasmi. Da un lato Tex Willer di Galup e Bonelli o il trapper Grande Blek edito a strisce, dall’altra Mafalda di Quino o Linus di Schutz, due mondi assai diversi, credo che la genetica in questo giochi un suo ruolo.
Pensiamo che El Quijote fosse l’alter ego di Cervantes stesso, hidalgo povero figlio di un chirurgo abusivo, nomade di città in città per sfuggire ai debiti paterni, compirà gli studi a morsi e bocconi in diverse scuole di preti fino al collegio “El Estudio” di Madrid. E’ imbevuto di cultura umanistica come testimoniano le sue liriche giovanili. Carattere forte, sanguigno e creativo quello di Miguel, il contrario dell’immagine stereotipa dello scrittore in vestaglia e pantofole seduto allo scrittoio. Il giovanotto non ha pura di battersi con i coetanei se provocato, anzi va all’assalto da aspirante cavaliere così, in una zuffa, ferisce gravemente tal Antonio Sigura. Riesce a scappare ma la gendarmeria lo cerca per comminargli la pena terribile del taglio della mano destra rea di quell’atto ( retaggio della vecchia legge islamica). Era il 1569, Miguel a 22 anni anticipa di quasi cinquant’anni analogo episodio legato a Michelangelo Merisi, personaggio senza dubbi brigoso, che infilzò a morte il lenone Ranuccio Tommasoni specie di capobastone del Rione Campo Marzio. Caravaggio fuggì a sud passando per Palestrina, Cervantes fece lo stesso approdando in Italia. L’animo di hidalgo, l’amore per l’avventura lo portarono ad arruolarsi da soldato sulla galea Marquesa della Lega Santa verso la battaglia vittoriosa di Lepanto, era il 7 ottobre del 1571, Salva la destra dal taglio ma qui perde, per una ferita, l’uso della sinistra quasi un destino, ma non si arrende, continua a battersi contro i turchi in Tunisia e Grecia. Catturato da pirati sulla galea Sol nel Mediterraneo sconterà cinque anni di sequestro ad Algeri, fino al pagamento del riscatto. Tornato nella sua Spagna continuerà la sua vita avventurosa ma anche disgraziata, subendo il carcere, due scomuniche, il fallimento del matrimonio e la povertà che lo avvolgerà come un sudario il 24 aprile del 1616. Neppure da morto fu lasciato in pace, i suoi resti sparirono inspiegabilmente fino ad essere rinvenuti solo nel 2015 dietro un muro del convento dei Padri Trinitari.
Stando anche alla ritrattistica su Cervantes è evidente quanta somiglianza fisica ci sia tra l’autore e il suo don Chisciotte quasi un’incarnazione letteraria. A dire il vero uno studioso del romanziere sostiene che il cavaliere folle della Mancha sia esistito davvero nelle sembianze di un barbiere un certo Agustin Ortiz, nato “bastardo” da una relazione adulterina d’un nobile hidalgo di El Toboso. Il fatto d’essere figlio naturale, nato fuori del matrimonio, l’ aveva privato di fregiarsi dell’araldica paterna con quel che ne consegue, portandolo così sulla china della pazzia. Dell’onanismo io centrico degli studiosi della virgola poco ce ne cale, in proposito è del 1905 l’uscita di un saggio fosforoso dello scrittore spagnolo Miguel de Unamuno (1864-1936): Vida de don Quijote y Sancho, según Miguel de Cervantes Saavedra. Al tempo in cui pubblicò il corposo libro il contesto socio culturale della Spagna viveva d’una faglia profonda tra l’ala conservatrice radicata nelle tradizioni e quella, tutta borghese, che definiremmo liberal, aperta alla contaminazione neopositivista dell’Europa che conta.
Come coniugare questi due volti di Giano, uno canuto rivolto al passato e l’altro giovane, avido del presente? Il pensatore hispanico propone una lettura filologico-critica del personaggio che più incarna, a suo dire, questo dualismo, appunto don Chisciotte. A suo dire la soluzione sta nello scavare fin nel fondo, sprofondando nella miniera d’oro della tradizione eterna, sorgente della vita autentica del popolo spagnolo, sintesi di conservazione e progresso. In quest’ottica El Quijote esce dalle pagine cervantine per assurgere al ruolo d’un eroe vero del quale la Spagna ha tanto bisogno, diventa l’incarnazione ideale dell’immaginario collettivo di una Nazione pronta ad affrontare la sfida della storia ma con le sue di armi. C’è la Spagna degli hidalgo ingenosi, sprofondati nell’otium della cultura senza curarsi delle proprie terre ed è il don Chisciotte perdente che deve morire perché il tempo di quella generazione ormai è scaduto, poi c’è il cavaliere simbolo d’indomito coraggio speso per i suoi ideali radicati nei valori eterni del fondo, ove giace il tesoro di virtù, fede, giustizia sociale e libertà che il popolo identifica nelle fortunate gesta dell’eroe della Mancha.
Il desiderio di fama immortale porta il segaligno cavaliere, oramai cinquantenne, a lasciare il suo mondo di romanzi per passare dalla theoria alla poiesis (azione), può farlo perché ormai è povero non ha interessi che lo leghino a qualcosa e sceglie per compagno d’ avventure il contadino Sancio Panza, più arguto e onesto di quel ch’appare, ma come il padrone con le tasche vuote, coltiva il sogno di governare un’isola che non c’è. La povertà diventa condizione essenziale per affrontare in piena libertà ogni avventura e poco o nulla importa se a nominarlo cavaliere è un oste impietosito dalla sua follia, se Dulcinea del Toboso è un’umile contadinella, se i famosi mulini a vento vengono scambiati per giganti, se neppure i leoni se lo filano restandosene comodi nella gabbia e così via. Ogni avventura si tramuta in burla grottesca, un insuccesso dopo l’altro, ma l’hidalgo si rialza sempre con immutata fierezza, la realtà che vive costruita dalla sua immaginazione non è meno tangibile di quella sensibile che noi chiamiamo vera. Don Chisciotte ha spirito intrepido, sentimento dell’onore, senso assoluto del dovere, diremmo anzi aristocrazia del dovere, applicata agli umili, agli indifesi, oggi diremmo agli emarginati, questa è la sua nobile missione oltre ogni fallimento. La cultura digital-pantofolaia del presente non può che ridere di questo e farsene spallucce, ma coloro che sogghignano di lui non s’avvedono che irridono se stessi incapaci d’uscire allo scoperto per dare carne ai sogni. Don Chisciotte, al contrario, è un bambino che li arma, li vive sino in fondo, riportato a forza nelle mura domestiche, fugge di nuovo e riprende a cavalcarli, è un bambino cocciuto ma se non diventeremo come i bambini ci sarà negato anche il Regno dei Cieli, se non erro.
Don Chisciotte è un S. Francesco con la spada, un mistico sognatore che lascia, dopo anni di ozio, la propria magione per affrontare la vita, incarnazione del binomio a noi tanto caro di pensiero-azione. Il Cristo si manifestò a trent’anni, lui a cinquanta, ma che importa la loro missione è salvare l’Umanità. Il primo però fu agnello sacrificale di salvezza, mentre il povero hidalgo morirà nel suo letto sconfessando la sua follia. Sull’analisi di Unamuno ho una mia osservazione, è vero sempre che il soggetto di un’opera travalica l’autore, vale in letteratura quanto nelle arti figurative e su questo, l’interpretazione d’un testo, ha scritto bene H. Gadamer in Verità e Metodo, ma Don Chisciotte è un’autobiografia dello stesso Cervantes del quale abbiamo brevemente tracciato il profilo della vita.
Lasciato il pensatore tratteggiamo uno schizzo sull’esoterismo vero o presunto del romanzo di Cervantes.
Nel gennaio del 1966 venne pubblicato un saggio dal titolo “El Quijote Profeta d’ Israele” a firma della studiosa francese Dominique Aubier, nel quale l’autrice sostiene la radice ebraica della famiglia Cervantes convertitasi poi, obtorto collo, al cristianesimo ma vivendo con sofferenza lo stato degli anusin, coè l’ansia dei convertiti sottoposti alla lente d’ingrandimento dell’Inquisizione spagnola. In sostanza Miguel Cervantes conservava in sé profonde conoscenze del Talmud come del misticismo della Kabbalah, approfondita nella sua frequentazione dei quartieri ebraici di Toledo e Cremona, versate copiosamente nel suo romanzo dove lo studio del linguaggio rivestirebbe un doppio significato, uno essoterico e l’altro di rimando ai gradi di conoscenza spirituale riferibile al quarto grado della conoscenza della tradizione sacra ebraica. L’autrice si spinge a citare la Merkavah, il misticismo del Carro divino, associato alle visioni di Ezechiele e i cui attributi sono verità, giustizia, conoscenza e amore per il prossimo, tutti riscontrabili nel messaggio morale del romanzo, meno la saggezza del protagonista almeno fino alla morte, ma è proprio il folle che ci affascina non il mansueto. In proposito c’è un libro, da me letto attentamente, di 320 pagine “I Segreti della Sistina” confezionato da Roy Doliner, studioso dell’arte e docente nei Musei Vaticani, e Benjamin Blech, docente di Talmud alla Yeshiva University di New York e considerato fra i più autorevoli rabbini cabbalisti, nel quale si sostiene la tesi che Michelangelo avesse utilizzato un codice segreto nel dipingere la volta, intingendo i pennelli più nella Kabbalah ebraica che nei colori col fine neoplatonico di costruire un ponte simbolico tra l’ebraismo e il cristianesimo, seguendo l’insegnamento di Marsilio Ficino in dialogo stretto con le scuole rabbiniche che in quel di Firenze vivevano in piena libertà di confessione. C’è la traccia del sentiero contorto e scivoloso percorso da Dan Brown in tutto ciò, a noi piace di più l’immagine di don Chisciotte che carica contro i mulini a vento, di quell’esile folle uomo lanciato in sella verso i giganti e gli lasciamo volentieri la voce:
“Ed ecco intanto scoprirsi da trenta o quaranta mulini da vento, che si trovavano in quella campagna; e tostochè don Chisciotte li vide, disse al suo scudiere: “La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare. Vedi là, amico Sancio, come si vengono manifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie; perciocché questa è guerra onorata, ed è un servire Iddio il togliere dalla faccia della terra sì trista semente. — Dove sono i giganti? disse Sancio Panza. — Quelli che vedi laggiù, rispose il padrone, con quelle braccia sì lunghe, che taluno d’essi le ha come di due leghe. — Guardi bene la signoria vostra, soggiunse Sancio, che quelli che colà si discuoprono non sono altrimenti giganti, ma mulini da vento, e quelle che le pajono braccia sono le pale delle ruote, che percosse dal vento, fanno girare la macina del mulino. — Ben si conosce, disse don Chisciotte, che non sei pratico di avventure; quelli sono giganti, e se ne temi, fatti in disparte e mettiti in orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disuguale tenzone”.
(Dal I Volume Cap. VIII del don Chisciotte della Mancia di Miguel Cervantes di Saavedra)
Chiudiamo citando l’ultima strofa del don Chisciotte di Francesco Guccini perché è il senso vero della sua aristocratica, anarchica storia:
“Il potere è l’immondizia della storia degli umani
e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte:
siamo i “Grandi della Mancha”,
Sancho Panza… e Don Chisciotte!”
Emanuele Casalena
Bibliografia
- Michele Cervantes di Saavedra, Don Chisciotte della Mancia, illustrato da Gustavo Doré, Attilio Quattrini Editore Firenze, 1926.
- Carmine Luigi Ferraro Simbologia del Don Chisciotte Piccolo saggio riflessivo Amaltea Trimestrale di cultura anno VII / numero due giugno 2012
- Miguel de Unamuno, Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza, Mondadori Bruno Editore, 2005.