Mircea Eliade è stato storico delle religioni di grande valore e, al medesimo tempo, filosofo. Egli ha ampiamente contaminato l’esegesi storico-religiosa di elementi teoretici significativi. La formazione, gli interessi culturali dello studioso, fin dalla giovinezza, furono molteplici e policentrici. In particolare, nel momento culminante del suo iter accademico, guardava con estremo interesse, tanto al mondo indiano, quanto alla filosofia rinascimentale italiana. La cosa la si evince dalla tesi di dottorato, per la prima volta pubblicata nella nostra lingua, Psicologia della meditazione indiana, dalle Edizioni Mediterranee (per ordini: 06/3235433; ordinipv@edizionimed iterranne.net, euro 17,00). Il volume è curato da Horia Corneliu Cicortaş che, nell’ Introduzione, fornisce al lettore le chiavi d’accesso necessarie alla comprensione delle pagine eliadiane.
Innanzitutto, bisogna aver contezza che lo studioso romeno discusse nel 1933, all’Università di Bucarest, la sua tesi di dottorato in filosofia. Appena laureato, cinque anni prima, era partito per l’India stabilendosi a Calcutta, seguito nel suo percorso di studi di indologia da Surendranath Dasgupta, noto storico della filosofia indiana. In realtà, il giovane studioso, fin dagli anni del liceo, aveva manifestato un evidente interesse per il pensiero indiano e per la sua profondità misterica, e si era dato ad appassionate letture in argomento. La scelta di concedere veste accademica a tale naturale propensione, maturò durante l’ultimo viaggio pre-laurea a Roma. Eliade era giunto nella nostra Capitale per approfondire la conoscenza della filosofia rinascimentale ma gli capitò di leggere, nella biblioteca del dipartimento di Indianistica de “La Sapienza” diretto da Tucci, la Storia della filosofia indiana di Dasgupta. Nella prefazione, si diceva che il lavoro di ricerca dell’eminente studioso, era stato portato a termine grazie agli aiuti finanziari del mahārāja Manindra Chandra Nandy.
Senza pensarci due volte, il giovane scrisse a quest’ultimo per chiedergli una borsa di studio che gli consentisse la permanenza, per un lungo periodo, in India. La risposta del mecenate fu positiva e la vita di Eliade cambiò radicalmente. Nel medesimo periodo, lo studioso romeno intratteneva un fitto scambio epistolare con Tucci e con il sanscritista Formichi. Questi gli consigliò la permanenza, per una migliore formazione in indianistica, a Dacca, sotto la guida del tibetologo maceratese. Recatosi a Calcutta, l’intellettuale, per caso, incontrò, nella biblioteca teosofica della città, Dasgupta, intento a condurre ricerche sul tantrismo. Eliade fu immediatamente coinvolto spiritualmente dallo studioso indiano e decise di seguirlo. Ben presto, il Maestro lo accolse nella propria abitazione. Lo studente europeo poté conoscere direttamente il quotidiano della civiltà orientale e, dopo qualche esitazione, iniziò una liaison con Maitreyi Devi, figlia sedicenne di Dasgupta. Fu allontanato, a causa di questo episodio, dalla casa del docente. La vicenda nel 1933 sarà narrata da Eliade nel romanzo Maitreyi, che gli concesse notorietà in patria.
Il giovane decise allora di recarsi a Rishikesh, ai piedi della catena himalayana, dove si radunavano asceti “indipendenti”. La permanenza, sotto la guida di Swami Shivananda, fu davvero proficua per Eliade, non solo apprese le tecniche propedeutiche dello yoga, āsana, prāṇāyāma, ma soprattutto comprese come lo yoga fosse una sorta di centro attorno al quale ruotava l’intera speculazione dell’India. Su tale intuizione è stato costruito il libro che presentiamo. Psicologia della meditazione indiana fu iniziato nel 1929 a Calcutta e concluso a Bucarest tre anni dopo. Il volume in origine fu scritto in inglese, ma alcuni suoi frammenti uscirono in romeno nel 1930-31, ed altri in italiano sulla rivista Ricerche religiose di Ernesto Buonaiuti.
La finalità essenziale perseguita da Eliade, avrebbe dovuto consistere nel tracciare un “un quadro integrale dello yoga, affrontato nella sua complessità e nella specifica prospettiva della storia delle religioni” (p. 28). L’autore affronta esplicitamente la questione delle origini dello yoga nel primo capitolo, mentre nel terzo si occupa dell’integrazione con il buddhismo delle origini. L’impostazione del lavoro è storica: Eliade presenta lo sviluppo delle pratiche meditative e della tradizione testuale yogica, sostenendo l’impossibilità di individuare, in termini definitivi, il momento iniziale di tale pratica ma, al tempo stesso, rileva come essa rappresenti la più profonda “struttura dello spirito indiano” (p. 28). Particolare attenzione esegetica è posta dall’autore sul conflitto a volte latente, a volte esplicito, che si evince negli sviluppi dello yoga, tra la componente ario-brahmanica e gli elementi autoctoni pre-vedici. Le pratiche yogiche, in qualche modo eterodosse, furono progressivamente assimilate dalla religione indo-aria. Lo storico delle religioni mostra tale iter discutendo la novità rappresentata dal buddhismo, presentando i sistemi del sāṃkhya, la psicologia yoga, le sue pratiche psico-fisiche e meditative. Nelle Appendici, oltre a soffermarsi sulla metodologia adottata, fa il punto sulle figure più significative di yogin “eccentrici”.
Gli aspetti teoretici legati allo yoga sono analizzati nei capitoli quinto e sesto. Pertanto, in termini complessivi, il volume, caratterizzato da una scrittura coinvolgente, ha il tratto di un saggio di filosofia della cultura. Per Eliade, la storia delle religioni non può che essere disciplina multidisciplinare. Egli individua il senso “mistico” generale dello yoga, nell’etimologia della parola che, discendendo dal sanscrito yuj, indica l’unione dell’anima tanto con la divinità, quanto, in modo più acconcio, con l’assoluto impersonale, il brahman. Il termine rinvia alla restaurazione “dell’autocoscienza ultima, autonoma, non alterata dall’esperienza mentale” (p. 31). Dal punto di vista realizzativo, l’espressione si riferisce a tutte le pratiche fisico-mistiche miranti al samādhi, autonomia suprema ed identità realizzata.
Eliade è assai attento agli aspetti “popolari” dello yoga, promuove un approccio “trasversale” a tale disciplina: la considera humus, sostanza vitalizzante delle diverse scuole di pensiero indiane. Coglie, in modo preminente, il tratto concreto della libertà cui la pratica conduce e la interpreta quale filosofia capace di parlare, in colloquio serrato con la psicoanalisi e l’esistenzialismo, all’uomo contemporaneo, che ha obliato la sua natura divina. Questo libro rappresenta, pertanto, il punto di partenza della successiva trattatistica eliadiana in tema. Ci riferiamo allo scritto del 1936 Yoga. Saggio sulle origini della mistica indiana, e all’ormai classico Lo yoga. Immortalità e libertà del 1954. La pagine di Psicologia della meditazione indiana sono preziose, quindi, per chiunque voglia avere accesso a tale universo intellettuale e spirituale.