“Sedendo quietamente, senza fare nulla, la primavera giunge, e l‘erba cresce da sé”.
Prima che il nostro perbenismo lo convertisse in vizio morale, l’otium era uno stato di benessere, medicina a quel negotium che è occupazione laboriosa, travaglio. Anzi, basterebbe superare un comune pregiudizio per vedere nell’ozio il padre d’ogni virtù. Non intendo il pigro bighellonare o un torpore à la manière de Oblomov, ma quel che un taoista direbbe wu-wei, e a cui Cristo allude dicendo “non affannatevi …”, e personalmente ritengo che coltivare quest’ozio sia oggi d’importanza cruciale.
Il problema era già noto a Laozi: “vorresti afferrare il mondo e manipolarlo? Io vedo che ciò non è possibile. Il mondo è un vaso sacro, chi lo afferra lo perde, chi lo manipola lo rovina”. L’uomo da tempo maneggia incautamente questo vaso spirituale, e ormai il nostro stile di vita è diventato un pericolo per il genere umano. L’arroganza con cui trattiamo il mondo finisce col renderlo inabitabile; la pretesa di piegare la natura al volere umano ha come effetto di disumanizzare la nostra volontà. I nostri apparati politici, tecnici o scientifici non possono certo offrire soluzioni. Infatti, son parte della malattia e non della cura.
Confucio, parlando di un mitico imperatore, dice: “Governare l’impero per mezzo del non-fare, ecco ciò che fece Shun. Come fece? Si sedette con atteggiamento rispettoso rivolto verso Sud. Ecco tutto”. In questo monarca tranquillamente seduto, che non si affanna a stabilire decreti e punizioni, vediamo un antico e perduto equilibrio.
L’idea taoista di governo è quella di una monarchia illuminata e non impicciona: “col non-fare si governa l’impero … perché più nel mondo sono i divieti più il popolo si impoverisce, più ingegnosi sono gli uomini più cose mostruose appaiono, quanto più si complicano e moltiplicano le leggi tanto più numerosi sono i ladri e i briganti … col non-fare il popolo spontaneamente prospera”.
Non bisogna cercare in questo una logica stringente. Il mondo cinese non ha mai prodotto un Organon aristotelico. Il suo genio si appella più all’intuizione che al ragionamento; più che i concetti rigorosi, ama le immagini, le metafore dai molteplici sensi: il cuoco cuoce i pesciolini senza rigirarli spesso, per non disfarli; il macellaio disossa il bue “seguendo i filamenti della carne, il coltello scivola attraverso le fessure nascoste, scorre attraverso le cavità del corpo, trova la via che già c’è”, così che la sua lama non perde il filo.
Il ‘non fare’ non è quindi una dottrina sistematica ma un’arte del vivere in senso lato. Il suo spirito si ritrova tanto nelle arti marziali quanto nelle arti figurative, nella cura dell’orto come nell’educazione dei figli. È un agire semplice e spontaneo, che rispetta la natura delle cose. Non si può obbligare con la forza un fiore a sbocciare, ma lo si può innaffiare.
È di fatto un agire il cui centro si sposta dall’autocoscienza alla Vita, perché il non-fare è indipendente dalla volontà: aprendo gli occhi si vede, senza volerlo si digerisce il cibo e il corpo guarisce da sé. In questo non v’è alcun potere personale. La vera forza è lasciarsi guidare da una Natura che è provvidenza metafisica, evoluzione solidale, non competizione per sopravvivere.
‘Non fare’ è una Via dell’azione-inazione (wei wu wei), un’arte dell’agire senza attaccamento e senza rivendicare risultati che ricorda il precetto della Bhagavad Gita: «Si devono dunque compiere il proprio lavoro e le proprie azioni per dovere, senza attaccamento ai frutti dell’azione, perché agendo senza attaccamento si raggiunge il Supremo». È trovar pace nell’ubbidire ai disegni di un Logos divino. Come dice Piccarda Donati a Dante: «E ‘n la sua volontade è nostra pace: ell’è quel mare al qual tutto si move, ciò ch’ella cria o che natura face». Laozi indica come simbolo perfetto di questo non-fare il neonato: non pensa a sé, perciò la sua forza vitale è intatta, non inquinata dalla volontà e dall’arroganza intellettuale.
“Chi possiede la Virtù suprema è simile al lattante … chi conserva la Virtù ritorna allo stato di neonato … come un bambino che ama poppare dalla madre”. Ricordiamo che qui ‘virtù’ non ha senso morale ma operativo, di forza vitale. Nel Vangelo troviamo una similitudine analoga: “Gesù vide alcuni neonati che poppavano. Disse ai suoi discepoli: questi neonati che poppano sono simili a coloro che entrano nel Regno”.
Il ‘non fare’ è l’antidoto ai veleni dell’Occidente, ai suoi sogni titanici e megalomani. Ripristina gli equilibri ambientali, riporta l’ordine naturale nelle relazioni umane. Libera il cuore dai calcoli e dai progetti ambiziosi. Rifiuta tutto ciò che, nella famiglia, nella società, corrompe il corso della Natura. Non ha bisogno di tragedie e di grandi ideali, di martiri ed eroi. Rifugge gli aneliti faustiani, i patti diabolici della scienza e della tecnologia. Nel governare è autenticamente liberale, nel curare asseconda la vis medicatrix naturae. È una via sobria, che si accontenta di poco. Se la guardi non ti seduce, se l’assaggi non ha sapore.
È inutile farne un’utopia politica o morale. Nessuna epoca ha mai seguito la via del ‘non fare’, ed è improbabile che accada mai. Non sappiamo ancora coglierne il senso. “Le mie parole sono semplici da capire e facili da mettere in pratica, eppure nessuno al mondo le capisce, nessuno le mette in pratica”, dice Laozi. E dopo duemila e cinquecento anni, è difficile essere ottimisti. Purtroppo, nella nostra miopia, non vediamo i pericoli di una cultura dai tratti involutivi e minacciosi.
Siamo convinti che la nostra tecno-scienza possa salvarci. In realtà le sue soluzioni creano problemi peggiori di quelli già esistenti per poi rincorrerli con nuove soluzioni, ma ogni soluzione viene superata da un nuovo problema. Benché simile progresso sia chiaramente autolesionistico, l’idea di abbandonarlo non ci sfiora neppure. Siamo chiusi in questo pregiudizio, d’esser spinti da una costante e benefica corrente ascensionale.
Fermarsi o cambiar strada vorrebbe dire perdere i beni così faticosamente acquistati, quei prodotti dell’evoluta civiltà contemporanea – farmaci, vaccini, aeroplani, lavatrici, computer ecc. – che ci sembrano ormai imprescindibili (di tali beni salverei solo la lavatrice, ma se qualcuno ne deducesse che le macchine sono un progresso necessario, tornerei a lavare i panni a mano).
Sembra un’eresia pensare che senza queste e tante altre conquiste della modernità vivremmo tutti meglio, o anche solo sospettare che sarebbe stato un mondo migliore senza la rivoluzione industriale, la fisica nucleare, l’ingegneria genetica, la cibernetica ecc. Di fatto, nessuno lo può provare. È difficile dimostrare che “un tempo si stava meglio”, e gli apologeti della modernità avrebbero buon gioco a portare esempi di come, grazie a scienza e tecnologia, siano cresciuti il benessere, le comodità, la durata media della vita ecc.
Tuttavia, è ancor più difficile dimostrare che questo accrescimento abbia un nesso con la reale qualità della vita o con la felicità umana. Questo non incrina la fede di chi crede solo alla quantità, alle percentuali e alle statistiche. E se qualcuno, in via teorica, concedesse che questo progresso ha qualche aspetto negativo, probabilmente chiederebbe: “quindi, cosa devo fare?”, perché nessuno dubita che i problemi si risolvano col ‘fare qualcosa’.
Crediamo solo in un sano pragmatismo. Scartate le entità come il destino e la provvidenza, scientificamente indimostrabili, nelle nostre faccende preferiamo adottare un pratico realismo, una realpolitik libera da impacci ideologici. Ogni problema va risolto analizzando i dati e applicando i mezzi di cui disponiamo: il denaro, le armi o altro.
È tuttavia evidente che anche il più ferreo realismo e la più cinica realpolitk dipendono da un’idea di cosa sia reale. E ogni obiettivo deve per forza basarsi su un’ideologia che ne definisca il senso. Ma siamo così assuefatti alle ideologie del nostro tempo che pensiamo di non averne. Invece respiriamo ideologie ogni momento, come mandiamo aria ai polmoni, le inaliamo da questa ammorbata atmosfera chiamata mainstream.
In tal modo si forma in noi uno strato di pregiudizi, alcuni superficiali e mutevoli (sulla storia, la politica, la sessualità ecc.), altri più profondi e tenaci. Per esempio, è sempre preferibile la ricchezza alla povertà, la forza alla debolezza, il sapere all’ignoranza? Vivere è sempre meglio che morire? Fare qualcosa è sempre meglio che non far nulla? Come esercizio quotidiano dovremmo capovolgere le nostre abituali prospettive e cercare di guardare il mondo alla rovescia. E non è detto che “facendo della destra la sinistra, dell’alto il basso” le cose non tornino al loro giusto posto.
Ottima propedeutica a questa metanoia sarebbe vedere nell’uomo, invece che un mammifero più o meno evoluto, un essere spirituale. La gerarchia dei nostri bisogni ne verrebbe sovvertita. I rifornimenti alimentari, i farmaci, le provviste energetiche, l’informazione, le procedure democratiche, le attività commerciali, le produzioni industriali e tanti altri indefettibili beni del bipede mammifero, verrebbero messi in second’ordine rispetto ai diletti dell’arte e della filosofia, della poesia e dell’amore, necessari a un essere spirituale.
Purtroppo, se oggi si parla di spirito, è per farne una metafora del sistema nervoso. Oppure di quel residuo di insoddisfazione che resta dopo aver espletato i nostri primari bisogni animali. In sostanza, un fantasma neurologico, epifenomeno dell’evoluzione, sviluppatosi nel corso di una lotta tra i meccanismi generali del cosmo e quelli psico-fisiologici dell’individuo.
Se rovesciassimo tali presupposti, vedremmo invece che i circuiti neuronali e la loro evoluzione sono un epifenomeno dello spirito. Lo spirito si fa unico fondamento reale del mondo; coincide con l’essere e determina ogni sua manifestazione. Il nostro agire ci rimanda così a un universo di Senso la cui rete di relazioni esula dagli schemi della causalità o casualità scientifica.
Il ‘fare’ è centrato nell’io, nel ‘non fare’ il centro è l’Inconscio, termine convenzionale per indicare un fondo inconoscibile, assimilabile al Brahman vedantino, al Tao o al Logos eracliteo (nelle bibbie cinesi, “in principio era il λόγος” viene tradotto “in principio era il Tao). ‘Fare’ contiene ogni procedura mediante cui l’uomo conta di risolvere un problema basandosi sulle sue conoscenze, i suoi mezzi, le sue tecniche. ‘Non fare’ è accettare in sé l’agire misterioso dell’Altro. Come dice Ibn’Atā’ Allāh, “evita di governare te stesso. Ciò che l’Altro fa per te non volerlo fare tu”.
Questa cruciale differenza è perfettamente formalizzata nei concetti buddhisti di jiriki e tariki. Il primo dottrina dell’auto-potere, il secondo affidamento al potere dell’Altro, al voto che il Buddha Amitābha ha fatto di portarci nel suo Paradiso, nella Terra Pura. E se al posto del Buddha Amitābha mettessimo il Cristo, non troveremmo sostanziali differenze tra questa idea amidista di Grazia, fede e predestinazione, e i pensieri di un Agostino o di un Lutero.
Lo shivaismo medievale o tantrismo è ancor più estremo e radicale: tutto ciò che accade è libera volontà di Shiva. Questo sembra ridurre l’agire umano a pura illusione. Lo scettico obietta: “se è così, perché dunque non starsene comodamente seduti senza far nulla?” Al che il filosofo tantrico risponde: “puoi certo star seduto senza far nulla se questa è la volontà di Shiva. Ma se Shiva vuole che tu spacchi le pietre, ti alzerai e spaccherai le pietre”. Per la mentalità comune è un’idea empia, che pare scalzare ogni certezza sulla libertà e la responsabilità umana.
Per questo le verità metafisiche vanno insegnate secondo le capacità di ciascuno di comprenderle. Una coscienza immatura potrebbe infatti pervertirle in aberranti assurdità. Del resto, è quello che succede nel caso del wu-wei, inteso da molti come il ‘dolce far niente’ o come un primitivismo utopico, che vorrebbe riportare gli uomini a viver nelle caverne, rinunciando a ogni sforzo d’ingegno per migliorar le proprie condizioni.
Che il wu-wei non escluda ma anzi stimoli l’applicazione di una rigorosa disciplina fisica e mentale è dimostrato dal fatto che per secoli ha ispirato uomini di valore a creare non solo opere di poesia, filosofia, pittura, ma arti marziali come il judo, un’arte del governo e della guerra, una scienza medica efficace.
Il ‘fare’ ha ispirato una medicina che interferisce nelle funzioni del nostro organismo usando procedure invasive e violente, rendendoci succubi di apparati computerizzati e di industrie farmaceutiche. Il ‘non fare’ vede invece la malattia come una disarmonia tra microcosmo e macrocosmo e ne comprende le ragioni sottili. Non delega a una macchina la diagnosi, ma scruta da sé ogni segno del corpo e dell’anima. Asseconda la spontanea viriditas del malato senza disturbare delicati processi di guarigione e di autoregolazione.
Nel mondo dell’agricoltura il ‘fare’ sfrutta intensivamente la terra fino a inaridirla, rovinando gli equilibri degli elementi e la sinergia naturale tra il mondo degli uomini, degli animali e delle piante. È un’agricoltura antibiotica che devasta chimicamente la vita per accrescere il profitto dell’uomo. ‘Non fare’ è il lavoro del contadino che obbedisce ai ritmi e ai flussi della Natura, stabilendo una saggia proporzione tra i benefici che trae dalla terra e i costi del suo agire sull’ecosistema. Ne abbiamo un esempio nell’agricoltura del Mu preconizzata da Fukuoka, dove Mu è particella negativa equivalente al Wu di wu-wei.
‘Fare’ è una scienza dei dettagli, che si perde in una miriade di parcellizzazioni del sapere. ‘Non fare’ è un’intuizione spontanea dell’insieme, come si divina il carattere di una persona dal suo aspetto. Una teologia complicata da concetti astratti e innaturali è ‘fare’. Un’illuminazione mistica, semplice e diretta, è ‘non fare’. Forme del ‘fare’ sono una politica repressiva e soffocante, quella del tacitiano corruptissima re publica plurimae leges, o un’economia dominata da logiche di potere e avidità. ‘Non fare’ è un sistema di governo che, riducendo al minimo la sua ingerenza nelle faccende umane, ne favorisce il libero sviluppo, cosicché “gli uomini, senza bisogno di leggi, trovano spontaneamente l’armonia”.
‘Fare’ sono le classiche virtù confuciane – benevolenza, rettitudine, sapienza ecc. – quel moralismo d’etichetta al quale Laozi imputa la perdita della semplicità originaria, il disperdersi della vera virtù in surrogati artefatti. Anche quella che noi chiameremmo ‘meritocrazia’ viene da Laozi considerata un male (“non premiare i meritevoli, così si evita che la gente competa”). Concetto per noi inconcepibile, che contraddice il nostro elementare senso di giustizia, ma il cui intento è scoraggiare le contese e gli antagonismi del ‘fare’.
Anche la nostra etica insegna un ‘fare’ volontario, ponendo l’uomo in dissidio costante con sé stesso e con le proprie passioni, costringendolo a reprimere le pulsioni indesiderate come la medicina moderna sopprime i sintomi, senza capirne il senso. E c’è un ‘fare’ religioso che si conforma a modelli e stereotipi di bontà e santità, dimenticando che l’amore di Dio non è mai stato motivato dalla buona volontà dell’uomo. Infatti “egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” o, come dice Laozi: “il Tao è il tesoro dei buoni e il rifugio dei malvagi”.
Nell’arte il ‘non fare’ è eliminazione del superfluo, stile semplice ed essenziale che evita eccessi e ridondanze barocche, ignora l’autocompiacimento dell’autore. Esempi sono il canto gregoriano, le chiese romaniche, la pittura dell’estremo Oriente. Arte dell’inesprimibile che accenna più che dire, che si fa tramite non delle intenzioni di un individuo ma della trascendenza che lo abita. La sensibilità dell’artista o del poeta è un setaccio le cui maglie filtrano le forme più sottili dello spirito trattenendo le scorie psicologiche più grossolane.
Il ‘fare’ decide anche del rapporto tra l’uomo e la macchina. Se qualcuno sostenesse che la macchina, liberando l’uomo dalla fatica del lavoro, è alleata dell’ozio e del ‘non fare’, dimostrerebbe di non aver capito nulla. Il ‘non fare’ non ha nulla contro il tagliar legna, spaccar pietre e ogni altro lavoro fisico o intellettuale che comporti uno sforzo. L’otium di cui parlo è uno stato d’animo.
Il problema è sapere quanto un comportamento umano danneggi un ordine naturale. Per capirlo non serve la razionalità ma un orecchio che percepisca consonanze e dissonanze. È infatti questione di armonia. Quando abbiamo mangiato a sufficienza, la natura ci manda un segnale di sazietà. Se noi lo ignoriamo, ci trasformiamo in mostri voraci e siamo infine afflitti da gravi e numerose malattie. Il punto è dunque riconoscere il limite: “bisogna sapersi fermare. Sapendo quando fermarsi non si corre pericolo”. Questo senso della misura è elemento fondamentale anche nel problema uomo-macchina.
Nessuna macchina è neutra ma altera la relazione dell’uomo col mondo e con sé stesso. Anni addietro una signora (una monaca zen!) mi disse: “in fondo, il nostro cervello è simile a un computer”. Lo trovai sconcertante e terribile. Dimostra come inevitabilmente finiamo con lo specchiarci nelle macchine che costruiamo. Quella signora avrebbe dovuto provare orrore a identificare la coscienza umana con una macchina.
Ma il progresso contrabbanda queste infamie ideologiche in modo così subdolo che persino una monaca zen accetta inconsapevolmente il transumanesimo e il post umano. Il ‘non fare’ non ha tendenze tecnofobiche a priori ma perché teme quello sviluppo tecnologico che meccanizza il cuore dell’uomo e deturpa il volto della natura. Molti si fanno ingannare dalle promesse del progresso perché il ‘fare’ può produrre apparenti benefici. Ma sono effetti superficiali e temporanei mentre il male che fa è profondo e duraturo.
L’esperienza del ‘non fare’ rende inapplicabili quelle misure di quantità attraverso cui controlliamo la realtà. Perciò il nostro pensiero scientifico, fatto di percentuali, ne diffida. Teme le qualità imponderabili, quelle dimensioni dell’essere da cui traspare l’impotenza del ‘fare’ – l’amore, il genio artistico e poetico, la fede religiosa, la stessa intuizione scientifica. Il ‘fare’ assume così la forma di un’alienazione, perché rifugge le più profonde e segrete correnti della vita.
Il ‘non fare’ ricorda la grazia di un movimento spontaneo, in cui fasci muscolari antagonisti si contraggono e si rilasciano seguendo le leggi di un’involontaria armonia; una danza in cui la coscienza mantiene l’equilibrio seguendo i passi dell’Inconscio, adattandosi al suo ritmo senza interferire. Questo richiede una decontrazione della volontà, il non fare resistenza. La nostra società soffre invece di un crampo della razionalità e del volere.
Cristo allude più volte al ‘non fare’. Quando parla degli uccelli del cielo e dei gigli del campo, quando lo insinua nel precetto di non resistere al male, nel “fiat voluntas tua“, nella parabola del seme. «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga».
Mirabile sintesi del ‘non fare’ che ne mostra la naturale intimità col ‘non sapere’: «come, egli stesso non lo sa». Il ‘fare’ è infatti saldamente legato alle nostre conoscenze. ‘Non fare’ appare quindi come libertà da un sistema di concetti. È una Teoria nel senso più alto del termine, ossia visione, intuizione spontanea del reale. Perciò disdegna ogni inseguimento del sapere, ogni atteggiamento didattico e professorale. Chi si attiene al ‘non fare’ non vuol esser maestro di nessuno e se insegna lo fa senza intenzione. È per sua natura un dilettante, un eterno principiante.
È quindi il rifiuto di una cultura che è accumulo e capitalizzazione di pensieri. “Chi si applica allo studio cresce ogni giorno. Chi segue il Tao diminuisce ogni giorno. Sempre meno, sempre meno, finché arriva al non fare”. Se il ‘fare’ riempie il mondo mediante la proiezione dei suoi giudizi, il ‘non fare’ lo svuota dalle opinioni, lascia le cose nella loro nudità senza che il pensiero le ricopra di immagini.
L’esortazione di Agostino – “non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità” – indica la via di un ritorno a uno Spirito che è assoluta interiorità. Infatti, essendo infinito, non può avere un esterno che lo limiti o che prema su di lui. Dunque, neppure una attività mentale che lo conosce. Solo il ‘non fare’ lo può cogliere. Un ‘fare’ teso alla conoscenza di una realtà esteriore se ne allontanerà quanto più si sforzerà di avvicinarlo.
Il ‘non fare’ è il riflesso di un non-essere metafisico. Esprime quel Vuoto che origina le forme. Rivela l’inconsistenza ontologica dell’io, puro fantasma evocato dal non-io, legato cioè a una dialettica di contrari. Mostra quindi la parallela inconsistenza di ogni ‘fare’ basato sull’io, la caducità e la vacuità di ogni sua pretesa psicologica. Riconosce il non-dualismo del Reale, per cui non v’è un io che agisce su un mondo esterno (vedi Shankaracharya: «l’azione è inazione … il Sé non agisce»).
Gli scopi personali e la riflessione inclinano dunque al ‘fare’, l’intuizione e il disinteresse al ‘non fare’. Tuttavia rimane difficile spiegare la differenza tra wei, agire, e wei-wu-wei, agire senza agire, perché se ne coglie il senso non attraverso una serie di laboriosi passaggi deduttivi ma immediatamente e senza fatica, come si ride per uno scherzo o si piange per un dolore.
Non c’è una tecnica per ridere o piangere. È un agire spontaneo che non lascia tra il pensiero e l’azione lo spessore di un capello. Ogni premeditazione, calcolo o progetto, è figlio del ‘fare’. Chi fa del ‘non fare’ una tecnica è come chi fa del Vuoto un oggetto. Vacuità, direbbe Nagarjuna, è eliminare le opinioni, e coloro che fanno anche della vacuità un’opinione son detti inguaribili. Così il ‘non fare’ è libertà dalla volontà personale, e chi ne fa un atto volontario si dimostra refrattario a ogni cura.
Quanto hanno influito il nostro sapere e la nostra volontà sul nostro concepimento, la nostra nascita, sul nostro sviluppo fisico e mentale? L’uomo non si fa da sé ma tutto si fa in lui. Basterebbe questo, o un semplice memento mori, per capire l’assurdità del nostro ‘fare’ e della nostra ansia di controllo.
‘Non fare’ è una medicina per ripulire le arterie dure e intasate della mente. È la libertà di un’anima vagabonda, che però conosce la via per tornare a casa e sa accettare le regole della vita. Non fa crescere l’erba tirandola, non recita incantesimi per far sorgere il Sole. Nessuno fa niente ma ogni cosa si fa, prima che la volontà intervenga o la coscienza se ne avveda.
Il ‘fare’ colpisce alla radice un ordine spirituale. Questo crea una frattura nella realtà, vi apre una falla da cui irrompono le forze disgreganti del Caos, e gli ordini naturali vengono sovvertiti. A noi sembra che ciò corrisponda a una maggior libertà, a una benefica apertura mentale. Occorre invece avere una mente meno aperta. Ma temo ormai vi siano poche speranze di cambiare. Sento risuonare le parole di Livio: “finché si è giunti a questi tempi in cui non possiamo tollerare né i nostri vizi né i loro rimedi”.
È inutile moltiplicare le parole. E chi si picca come me d’esser laozioso, dovrebbe almeno tentare d’essere laconico. Perciò, in sintesi, direi che il ‘non fare’ è un’inconscia creatività. Ma alla fine è qualcosa che non si può spiegare. Per i detrattori sarà un ingenuo neoluddismo, utopia, oblomovismo, la fantasia di chi sta pigramente disteso a rimirare le nuvole o le stelle.
Anche avessero ragione, preferirei una contemplativa pigrizia a un affaccendarsi rovinoso. Ma l’ozio di cui parlo è più faticoso del ‘fare’. Ognuno sa che è più difficile districare i grovigli che crearli. Forse qualcuno capirà, vedrà l’innocente bellezza dell’ozio, e si porrà pazientemente a sciogliere i nodi dell’essere. Forse troverà che il suo ‘fare’, la sua volontà, sono un peso di cui è dolce svuotarsi. “Ed ènne dolce così fatto scemo, perché il ben nostro in questo ben s’affina, che quel che vole Iddio, e noi volemo” (Paradiso, Canto XX).
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