Un significante dai troppi significati.
Uno spettro si aggira per l’Europa e per l’occidente tutto: è il populismo. Non se ne conosce la vera natura, né si è certi della sua esistenza. Quel che si sa è che viene evocato ogni giorno, agitato a mo’ di paradigma negativo o semplice spauracchio, come il lupo cattivo delle favole. L’accusa di populismo investe ormai ogni idea, persona o attitudine non gradita al sistema di potere; diventa un’invettiva, una chiamata sul banco degli imputati. Peggio, è uno sbrigativo espediente per escludere dallo spazio pubblico e dal libero confronto il destinatario, ovvero chiunque non si pieghi al politicamente corretto ed alle verità di comodo. Essere chiamato populista è diventato un insulto carico di disprezzo, pronunciato con l’indice accusatore ed il falso sdegno dei finti portatori di virtù civica e politica, e, soprattutto, con l’insopportabile complesso di superiorità di chi tutto sa, tutto ha capito e non si capacita dell’ignoranza crassa e della becera testardaggine di quell’altro, il buzzurro globale detto populista. Egli, per definizione, non ha ragioni né argomenti, solo bassi istinti nonché un orizzonte mentale ristretto, incapace di innalzarsi alla comprensione della realtà.
Populista è quindi, di volta in volta, l’avversario della moneta unica europea o chi contesta il potere dei centri finanziari, oltre, ovviamente, a chi è contrario alla perdita di sovranità dei parlamenti e degli Stati nazionali. Populista ed in più xenofobo è chi desidera controlli alle frontiere e non riconosce le quattro libertà liberali, oggi più indiscutibili delle virtù cardinali. Libera circolazione di beni, servizi, uomini e capitali. Populista con l’aggravante suprema, l’accusa di razzismo, è chi non considera positivamente i fenomeni migratori e non crede nella versione ufficiale, unica ed indiscutibile secondo cui l’immigrazione verso l’Europa sarebbe una sorta di evento naturale, inevitabile ed infine benefico. Insomma, c’è un’ accusa di populismo in ogni salsa e per ogni questione sulla quale l’idea dei potenti diverga fastidiosamente da quella degli ex cittadini, ridiventati plebaglia, sudditi o schiavi.
Se quanto detto è vero, tuttavia, e purtroppo lo è, occorre rimettere le parole al loro posto, ricostruire una verità effettuale sul populismo, quanto meno al fine di comprendere di che cosa si stia parlando, per poi confutare il gioco sporco dei padroni delle parole, i signori dell’imbroglio chiamato politicamente corretto e, ove possibile, trarre forza e persino legittimazione dal sedicente insulto scagliato come arma impropria al malcapitato di turno, e, se è il caso, mettere in campo un orgoglio populista.
Nei Promessi Sposi, Renzo Tramaglino, fuggito nella Bergamasca dopo essere stato accusato, lui “reo buon uomo” di essere un facinoroso caporione della rivolta del pane a Milano, trova un ottimo lavoro ed un buon salario come tessitore con l’aiuto del cugino Tonio. La sua soddisfazione è però offuscata dal soprannome che i bergamaschi danno ai milanesi come lui, baggiani. Se ne lagna con l’esperto Tonio ed il dialogo è un piccolo delizioso capolavoro manzoniano. “Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere.” Lo diranno, m’immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire. ”Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto di poter viver qui”. Lasciamo dunque che l’accusa superciliosa di populismo scivoli come acqua sul marmo, e tentiamo di capire se i populisti-baggiani siano davvero dei minus habentes poveri di spirito, ovvero se, al contrario, vengano fatti oggetto di discredito interessato per nascondere la polvere sotto il tappeto di lorsignori. La prima operazione è restituire ai significanti, cioè alle parole concrete, il loro significato.
Le parole al loro posto. Definizioni ed esempi.
Il populismo come atteggiamento e posizionamento politico nasce storicamente nella seconda metà dell’Ottocento in Russia. I “narodnicki”, populisti appunto, furono un movimento politico ed intellettuale legato all’abolizione della servitù della gleba dei contadini, affrancati da Alessandro II nel 1861. I populisti, tra cui spiccò la figura di Alexsandr Herzen, propugnavano una forma di socialismo contadino legato alla tradizione russa dell’”obscina”, una comunità rurale autosufficiente ed autogovernata, in polemica con l’industrializzazione nascente nell’Europa Occidentale. Negli Stati Uniti ci fu un Partito del Popolo fino al 1908, fondato nell’ultima parte del XIX secolo per difendere gli interessi degli agricoltori e dei piccoli commercianti ed artigiani del Sud e del Midwest travolti dalle concentrazioni industriali politiche e finanziarie seguite al trionfo nordista nella guerra di secessione. Un altro importante elemento del populismo americano fu la lotta contro gli eccessi delle borse valori (una delle richieste era la limitazione nella emissione di azioni!) e contro il sistema bancario e monetario, che verso la metà dell’Ottocento ebbe come protagonisti la potente figura di Andrew Jackson e poi quella di Abraham Lincoln. Niente di nuovo sotto il sole!
Per la presenza di un rapporto diretto tra il popolo ed il leader, un forma cesarista di populismo fu il bonapartismo francese, influenzato dal pensiero politico del ginevrino Jean Jacques Rousseau, che teorizzava l’esistenza di una “volontà generale” del popolo e l’esigenza della democrazia diretta, senza mediazioni o rappresentanza. Nel XX secolo si è parlato di populismo a proposito del peronismo argentino, della breve stagione politica di Pierre Poujade in Francia e di Guglielmo Giannini in Italia, tra il 1946 ed il 1948 con il movimento dell’Uomo Qualunque, da cui il termine, anch’esso enunciato dispregiativamente, di qualunquismo. Più di recente, sono stati accostati al populismo i movimenti bolivaristi di ascendenza socialista del Sudamerica (Chàvez in Venezuela, Correa in Ecuador, Morales in Bolivia), il leghismo settentrionale italiano, il lepenismo francese (padre e figlia), i movimenti per la Brexit in Inghilterra (Nigel Farage), il berlusconismo per l’uso politico della comunicazione televisiva, il movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, il fenomeno – che sembra già riassorbito – di Syriza e Tsipras in Grecia.
Da ultimo, si è assistito al fenomeno spagnolo di Podemos, un populismo neomarxista ed anarcoide e, soprattutto di Donald Trump, giunto contro ogni pronostico alla presidenza degli Usa, oggetto di una campagna di odio, discredito e di rigetto della scelta popolare sino alla delegittimazione dell’idea stessa di democrazia come metodo fondato sul suffragio universale in cui la maggioranza vince ed ha il diritto di governare realizzando il proprio programma politico.
Si tratta, come è evidente, di fenomeni diversissimi, lontani tra loro nello spazio, nel tempo e nelle prospettive, uniti da un filo di colore indefinito che sta in quella parola, populismo appunto, così difficile da digerire in quanto complicatissima da definire. Per non cadere in banalizzazioni, o in confuse confutazioni delle idee mainstream, nonché per motivi euristici legati alle analisi successive, il presente elaborato accoglie tre definizioni diverse.
L’ Enciclopedia Treccani, tendenzialmente il meglio della nostra cultura ufficiale, indica il populismo come “ termine usato per designare tendenze o movimenti politici sviluppatisi in differenti aree e contesti nel corso del 20° secolo. Tali movimenti presentano alcuni tratti comuni, almeno in parte riconducibili a una rappresentazione idealizzata del popolo e a un’esaltazione di quest’ultimo, come portatore di istanze e valori positivi (prevalentemente tradizionali), in contrasto con i difetti e la corruzione delle élite. Tra questi tratti comuni hanno spesso assunto particolare rilievo politico la tendenza a svalutare forme e procedure della democrazia rappresentativa, privilegiando modalità di tipo plebiscitario, e la contrapposizione di nuovi leader carismatici a partiti ed esponenti del ceto politico tradizionale.”
Nell’attuale, vivacissimo dibattito culturale accesosi intorno al populismo, la definizione più citata è quella dell’olandese Cas Mudde, del 2004, i cui pregi sono il riconoscimento del carattere di ideologia dell’atteggiamento populista, e l’individuazione di una debolezza. “ Il populismo è un’ideologia con un centro debole, la quale considera la società essenzialmente divisa in due gruppi omogenei, le persone oneste contro le élite corrotte e ritiene che la politica debba essere espressione della volontà generale delle persone”.
Più datato, risale al 1970, ma assai acuto è il giudizio di uno scienziato della politica italiano, Nicola Matteucci. “ [ Il p.] è’ l’apparire, al di sotto del sistema partitico, di un nuovo clima di idee semplici e di passioni elementari, in radicale protesta contro (…) quella cultura e quella classe politica che ne è l’espressione ufficiale. Si coagula una nuova sintesi politica che non può essere definita (…) conservatrice o progressista, perché supera e mantiene entrambe le posizioni”. Il professore bolognese, un liberale a ventiquattro carati, lamenta una “volontà autoritaria”, insofferente delle procedure della democrazia moderna, ed una intenzione manipolatoria delle masse. Trascuriamo l’ultima osservazione di Matteucci, che può essere agevolmente attribuita ad ogni idea di potere, tanto più quello oggi incontrastato del progressismo “liberal” di cui fu peraltro fiero avversario per tutta la sua vita, e cerchiamo di riassumere, dalle tre definizioni accolte, i tratti tipici dell’idea populista.
I tratti comuni del populismo sembrano chiari: un idea forte, talora idealizzata di popolo, titolare di diritti e valori morali soffocati da gruppi di potere, il rancore verso quelle che un tempo erano aristocrazie, o élite, viste ormai come oligarchie corrotte, autoreferenziali, privilegiate ed incapaci; la svalutazione del concetto di democrazia rappresentativa, considerata un meccanismo distante dalle persone comuni, disfunzionale e caduto in mano a caste dedite a procedure lente, irritanti, destituite di senso e di efficacia; l’idea che il popolo possieda una sua peculiare etica sociale (hegelianamente, sitten) e volontà della quale occorre tenere conto, al di là delle tesi russoviane. Alle élite, ed ai loro mandatari politici viene preferito il rapporto diretto del popolo con i capi carismatici e la democrazia diretta, partecipativa, ad esempio con l’enfasi sull’istituto del referendum. Il populismo trascende le categorie di destra e sinistra, situandosi in una dimensione prepolitica, quella che, con una punta di degnazione elitista, Matteucci posiziona “al di sotto “ dei partiti, ma che, al contrario, è oltre le contrapposizioni ed i distinguo cari ai Dottor Sottile ma incomprensibili ai più.
Non sembrano terribili difetti, semmai questioni delicate, sensibili, di cui è opportuno discutere senza la violenza verbale e la demonizzazione corrente. La linea di frattura vera è una sola: idee, comportamenti e decisioni prese in segreto sopra la testa di uomini e popoli dai ceti dominanti hanno prodotto, oggettivamente, povertà, smarrimento, vuoto morale, disgregazione civile, ricchezze intollerabili a fronte di povertà ed insicurezza, cambiamenti negativi rapidi e profondi. Il male è dinanzi a noi, per cui il populismo può essere considerato un nemico del nemico, che è fortissimo, ha in mano quasi tutto e si difende a partire dal disprezzo diffuso, dal sarcasmo e dalla stigmatizzazione. Il populismo vero o presunto può essere utilizzato anche per rinchiudere una comunità nel recinto del sangue e del suolo, ma nasce, più serenamente, per difendere la comunità/popolo dall’invasione culturale, economica o materiale tesa a cancellarne cultura ed identità.
Dai fatti, constatava il fondatore della scienza politica Nicolò machiavelli, “occorre trarre significazione, e l’esistenza dei popoli è un fatto. L’altro fatto è che si è costituito un sistema di potere deterritorializzato, il liberismo ultracapitalista, deciso a distruggere l’indipendenza e la personalità dei popoli, delle nazioni e degli Stati, sino alla trasformazione universale in “spazio liscio e senza frontiere per lo scorrimento rapido degli investimenti di capitale e per la speculazione finanziaria“ (Costanzo Preve).
I falsi sinonimi. Demagogia, qualunquismo, antipolitica.
La prassi, o espediente dialettico, meglio ancora l’edificio del pregiudizio antipopulista è costruito su una ben congegnata confusione: la falsa sinonimia tra il populismo, che è, comunque lo si giudichi, una precisa idea della politica e dei rapporti pubblici e tre termini, tre significanti che rappresentano concetti distinti e distanti dal populismo. Il primo “falso amico” è la demagogia, concetto che richiama la volontà e capacità di singoli soggetti o movimenti a farsi guida del popolo in base a promesse che non si vorranno o potranno mantenere, parole d’ordine false o ingannevoli, programmi di cui si conosce l’irrealizzabilità. La demagogia fu ben conosciuta fin dall’antica Grecia – ellenico è il termine, che fa riferimento ad una supposta “guida del popolo “ – ed è una caratteristica attribuibile a qualunque regime, tanto che pure i più convinti sostenitori della democrazia rappresentativa riconoscono che ne è la più frequente degenerazione. E’ dunque un inganno bello e buono confondere comportamenti, idee o attitudini demagogiche con i principi populisti.
Con perfetta faccia di bronzo, molti servitori del liberismo progressista attribuiscono il successo della demagogia all’ignoranza delle masse. Ma chi, se non loro, è preposto all’informazione ed all’educazione popolare? E se i più sono ignoranti o disinformati, è fallito il senso “progressivo” della democrazia e non si giustifica la fede cieca nel principio che la sorregge. Lo si è verificato in più occasioni, nel corso del memorabile 2016: allorché il giudizio popolare espresso in elezioni o referendum sufficientemente liberi è stato contrario alle aspettative delle élite, molti loro esponenti, soprattutto quelli del livello mediatico culturale, hanno revocato in dubbio lo stesso principio di maggioranza, cardine della loro democrazia. Si sono ascoltati gli argomenti dei “biechi” reazionari di una volta, voti solo chi ha studiato e sa capire la materia del contendere, meglio ancora va sottratto al giudizio popolare ciò che è “troppo complesso”.
Forse aveva visto giusto la Compagnia dell’Anello, quarant’anni fa, cantando “Democrazia, democrazia, in quanto ché comandate voi, democrazia, è cosa vostra e non è mia “. O almeno, tutto funziona fintanto che i sapienti, gli esperti, gli illuminati riescono a convincere la maggioranza del popolaccio. Per converso, è divenuto un gioco da ragazzi ritorcere l’accusa mossa al populismo di banalizzare i problemi, e nutrirsi di passioni semplificate al massimo o ridotte all’osso. Se infatti i popoli non sono strutturalmente in grado di decidere da sé, nonostante l’illuminismo e la religione secolare del progresso abbiano tratto l’umanità dall’infanzia or sono due secoli e mezzo fa, questo prova che la democrazia è fallita clamorosamente come pedagogia e come metodo.
Senza affermarlo a chiare lettere, quella fu la conclusione cui pervenne, dopo decenni di studi, il più lodato dei cattivi maestri dell’Italia del secondo Novecento, Norberto Bobbio, il Papa laico, il distributore di patenti di cultura ed incultura, dopo aver esaminato da ogni lato il pensiero giuspositivista e progressivo di Hans Kelsen. La democrazia, esalò stremato il vecchio leone torinese, è solo una procedura. Che funziona spesso molto male, aggiungiamo noi, e giustifica le perplessità, i dubbi e le obiezioni che, se definite populiste, perdono valore, dignità, credibilità, valenza etica.
Secondo falso sinonimo è qualunquismo, termine dispregiativo al massimo anche perché è agevole attribuirlo alla vecchia destra popolare italiana, che Guglielmo Giannini tolse dalle catacombe nel 1946 e che è poi vissuta di luce fioca e riflessa in varie esperienze successive. Tale termine indica una sfiducia generalizzata nel sistema istituzionale e politico, considerati fisiologicamente distanti dal popolo. Il potere tende sempre a considerare sobillatori e qualunquisti i suoi contestatori più radicali, fingendo di dimenticare che gli eventuali eccessi della controparte dipendono proprio dai comportamenti, dalle malefatte e dalla sfacciata propaganda (demagogia anch’essa…) di chi comanda.
L’ultimo finto sinonimo è quello di “antipolitica”, neologismo che bolla l’atteggiamento di chi disprezza ed avversa le forme, le attività e gli esponenti della politica. Anche tale disposizione mentale, tuttavia, è di natura reattiva ed ha spesso un fondamento morale, giacché si nutre delle promesse non mantenute, delle ingiustizie subite e della constatazione – enunciare la quale produce orticaria al sistema – che, alla prova dei fatti, i comportamenti pratici dei diversi schieramenti si equivalgono in negativo.
Quelli indicati sono ovviamente stereotipi, ma assai vicini al vero. I detentori del potere, non diversamente dai loro avversari qualunquisti, antipolitici e demagogici, tendono però a disprezzare questo tipo di oppositori soprattutto in quanto temono che si possa saldare non un semplice sentimento loro avverso, ma una vera e propria alleanza strategica tra gli esclusi ed i perdenti della post modernità globalizzata, che appartengono sempre più alla classe media ed alla crescente area di chi era riuscito da poco – diciamo da una, massimo due generazioni – ad emergere dalla povertà, o dalla miseria e dall’irrilevanza sociale. Di qui un altro aspetto del cosiddetto populismo, che chiameremo il rasoio di Occam.
Roberto Pecchioli (1 — continua)
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