Emanuele Severino è stato uno dei pochi filosofi contemporanei, i cui libri si leggono tutti d’un fiato, alla stregua di un avvincente romanzo dal colore vagamente “noir”. Quella che, sin troppe volte, è stata ridotta ad apodittica ed arida descrizione del percorso dell’umano pensiero, dalle fin troppe zucche pensanti, in un modo, tale da far odiare la filosofia a qualunque persona normale, in Severino va invece facendosi impetuosa narrazione, sorretta da un linguaggio sì difficile e delle volte infarcito di termini filosofici e concetti alti, ma indubbiamente affascinante, e che va, via via sciogliendosi, disvelando i propri reconditi significati ad un qualsivoglia lettore.
Una vera e propria tempesta, quella all’interno della quale, Emanuele Severino ci trascina, rappresentata dalla storia dell’umano pensiero ed il cui momento nodale è rappresentato dalla filosofia greca, da quell’ansioso interrogarsi sulla natura dell’Essere, che costituirà lo spartiacque per il pensiero d’occidente dei secoli a venire. Quell’ Essere che “è e non può non essere”, così come enunciato nel principio di non contraddizione e che, invece, trova il proprio contraltare, sempre in ambito ellenico, nell’eracliteo concetto di Divenire che, come un fiume impetuoso, tutto sembra travolgere e divellere, senza lasciar alcuna certezza ad un individuo sempre più spaesato e terrorizzato. L’idea che un Ente possa uscir dal Nulla, per poi nel Nulla ritornare, costituisce la molla di tutta la riflessione filosofica occidentale a venire, elaborata, volta per volta, proprio al fine di costituire una serie di vere e proprie dighe, messe là ad arginare l’impetuoso irrompere del Caos e dell’annichilamento, nella vita dell’uomo.
Una serie di barriere che non resistono alla furia del Divenire e lasciano, man mano, il posto all’avvento ed al predominio assoluto di quella “Tèchne” che, dell’intera narrazione severiniana, costituisce un concetto portante. “Tèchne”, quale ventaglio di infinite possibilità di agire sulla realtà, attraverso saperi e strumenti esterni all’uomo, donati nella notte dei tempi, dal Titano Prometeo ad un’umanità abbrutita ed impaurita dall’oscurità in cui giaceva…Ma Tèchne si fa sapere meccanico, vera e propria espropriazione dell’animo umano, di fronte ad un sapere strumentale, che va facendosi esso stesso fine ultimo dell’umana vita. Pertanto, Tèchne, eretta a somma difesa dalla precarietà dell’esistenza, diviene essa stessa simbolo e punto finale di tale ontologica contraddizione, assumendo la precaria natura di quel Divenire dal quale, invece, ci si voleva difendere, attraverso il suo continuo ed infinito rinnovarsi, contraddirsi, arrivando ora a metter in pericolo la stessa esistenza dell’umana progenie e del mondo in cui essa vive.
Ed allora Severino ci riporta al nodo dell’intera questione, a quel preambolo sul senso dell’Essere, disceverato da quel principio di non contraddizione, tanto chiaro nel suo palesarsi, quanto oscuro ed irto di problematiche, nel suo voler essere integralmente applicato alle cose di questo mondo. La prima, costituiva, domanda che, spontanea, sorge in uno spaesato interlocutore, riguarda proprio la natura degli enti, uomo in primis, il loro continuo apparire e scomparire nel nulla, il loro nascere e morire, il loro irrimediabile invecchiare e deteriorarsi, per poi, nuovamente, annichilarsi. A questo ansioso interrogarsi, viene decisamente opposta la centralità della riflessione parmenidea sull’Essere che, se è, non può non essere e pertanto gli enti, in quanto tali, esistono “ab aeternum”. Le cose, il creato intero, sono immutabili, non destinati a perire ma ( e qui sta la assoluta novità del pensiero severiniano…) a “nascondersi”, ad eclissarsi momentaneamente, per poi riapparire.
E qui sorge anche la distinzione tra le varie gradazioni di un Essere perenne come generale ordine delle cose ed un Essere transeunte, dei vari aspetti della realtà, animato sì da un continuo eclissarsi e da un successivo ritornare alla manifestazione, ma esente da qualunque dissolvimento nel nulla e pertanto eterno ed immutabile nel suo palesarsi. Una risposta questa, che Severino ritiene molto più incisiva e risolutiva, rispetto a quanto espresso da coloro che lo hanno preceduto nei secoli.
Anzitutto da quello stesso Parmenide che, quale primo ufficiale animatore della riflessione sull’Essere, cercò di risolvere il conflitto tra Essere e Divenire negando l’esistenza di quello steso Divenire e negando, quindi, l’esistenza delle cose del mondo, finendo con il cadere in un’evidente contraddizione. Ancor meno bene, sarebbe andata ad Aristotele, la cui enunciazione del principio di non contraddizione, per cui il suo”è necessario che l’essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è” ci esprime l’idea per la quale, in un determinato momento, l’ente è nulla, per cui l’Essere è eguale al nulla. Questa impensabile contraddizione costituisce la “follia essenziale” che anima l’intero percorso del pensiero occidentale.
La stessa riflessione heideggeriana, anch’essa rivolta alla riflessione sull’Essere ed ad un suo ritorno sulla scena del pensiero occidentale, attraverso il momento del “pensiero rammemorante” e dell’”Ereignis”, è, a detta di Severino, insufficiente. Per Heidegger, difatti, l’Essere non è un ente tra gli enti, ma un qualcosa da questi ultimi ben distinto. Esso ne costituisce invece la luce, l’apparire ontologico, costituendo pertanto, un elemento transcendente rispetto all’ente. Invece, a detta del Nostro, l’Essere, nella sua totalità, è costituito dall’insieme degli enti, ovverosia dalla realtà tutta ed anche se, come abbiamo già visto, caratterizzato da differenti modalità di manifestazione (quale ordine generale delle cose e quale continuo “nascondimento”, sic!), è eterno, immutabile e pertanto, impossibilitato ad esser soggetto a mutamento alcuno.
Essendo la realtà, una, immobile ed eterna, anche nelle sue differenti gradazioni, non è assolutamente concepibile un Ente Supremo, un Dio, che aprioristicamente determini la natura degli enti, ovverosia li faccia uscire e rientrare con un gesto di proprio arbitrio nel nulla. L’uomo e la sua esistenza, vanno così facendosi essi stessi Dei, immortalizzandosi. Una posizione questa che, a Severino è costata l’espulsione dalla Università Cattolica di Milano, nel 1969 e che non può non porci dinnanzi ad ulteriori interrogativi sulla natura del suo pensiero che si presta, sicuramente a più di una lettura.
La prima vede nel suo pensiero, una continuazione del tema nietzscheano dell’Eterno Ritorno, ovverosia il ciclico ripetersi senza soluzione di continuità degli Enti e dell’umana esistenza che, in tal modo è destinata a mai finire. Un uomo reso da Nietzsche, presenza stabilizzata di fronte al Chaos ed all’indefinitezza di un Essere, di cui raccoglie gli elementi a lui più consoni ed opportuni, determinando così un vero e proprio Samsara, che andrà continuamente ripresentandosi, facendo così dello stesso uomo un “superuomo” o “oltreuomo”, in grado di sopportare il peso del continuo ripetersi degli eventi. La stessa idea manifestata dal più tardo Severino con gli scritti “La Gloria” e “Destino della necessità”, con il concetto di “oltrepassa mento” degli enti in un moto di successive circolarità (i cosiddetti “cerchi del destino”), ci pone dinnanzi all’idea di uno sbilanciamento in direzione di una imprevista ciclicità e, pertanto, di un suo movimento, sempre più a detrimento di quell’idea di ontologica immutabilità, al centro della sua riflessione.
Non solo. Tale impostazione, potrebbe preludere ad un sistema di pensiero che ci pone dinnanzi alla duplice soluzione di una determinatezza ed una finitezza,oltre e prima delle quali vi sarebbe il nulla, o, per contro, dell’infinita staticità ontologica di tale sistema di pensiero, in tal caso impossibilitata a concepire qualsivoglia movimento. E pertanto, anche qui, potrebbe riemergere il problema di un ritorno della tanto avversata metafisica occidentale. Punto secondo. Il pensiero di Severino, potrebbe anche essere inteso nel senso di un immanentismo materialistico, animato da un principio di casualità in grado di relegare l’intero mondo alla dimensione di una materiale apparenza, senza soluzione di continuità, riportando, nuovamente, la palla nel campo di un meccanicistico materialismo.
Nel tentativo di superare le aporie e le ambiguità del pensiero occidentale, Severino ci dimostra, ancora una volta, la contraddittorietà e l’ambiguità di fondo di un intero percorso di pensiero che, perfettamente simboleggiato dal Sofismo greco, vive imperniato su una perenne auto-contraddizione, al centro della quale sta l’uomo d’Occidente, proteso tra l’abisso dell’alienazione Tecno Economica e lo slancio verso l’Infinito. Rimane la constatazione di aver perduto, con Emanuele Severino, un indubbio protagonista della vicenda occidentale, un affascinante narratore, in grado di rendere magicamente accattivante ai più, anche una realtà spesso complessa e dai mille risvolti, come quella del pensiero filosofico.
UMBERTO BIANCHI