All’inizio furono i romanzi di Emilio Salgari. Nel grande appartamento, al terzo piano, del palazzo del ‘500, a ridosso della Basilica di Santa Maria Maggiore, dove sono nato e da dove mio padre vide i tedeschi che… vi risparmio per l’ennesima volta la storia della mia nascita alla vigilia dell’entrata degli alleati a Roma. I soffitti alti quattro metri e oltre, i muri spessi, senza riscaldamento. Magro magro mi venivano i geloni perfino alle ginocchia. Così, uomo di grande cultura e abile affabulatore, mio padre mi avvolgeva nella veste da camera e, tenendomi in braccio nella poltrona, mentre la radio diffondeva rigorosamente musica classica, leggeva di Sandokan e delle tigri della Malesia… prima che, in un fortunato sceneggiato, bianche vele all’orizzonte sul mare rinnovassero lo spirito indomito e il giuramento di battersi contro Lord James Brooke, ‘il Rajah Bianco di Sarawak’, la bandiera rossa e la testa della regina della jungla garrire al vento. Sì, ‘La Tigre non è morta!’. E ti commuovi, facile alle lacrime…
Poi ti schieri d’istinto con i nativi d’America, Apaches e Sioux, scegli di stare dalla parte dei Sudisti, grigie le divise le sciabole rilucenti al sole – la mattina del 12 dicembre ’69, approssimandosi il giorno di Natale, feste e regali d’obbligo (a me furono sbarre e chiavistelli!), dopo aver comprato da UPIM il fortino in legno del Far West per mio nipote, gli tolgo la bandiera a stelle e strisce e vi incollo, di carta colorata, quella della Confederazione –. E poi ti schieri, non sai perché, con i tedeschi, sempre descritti da ottusi, e i giapponesi, sempre dipinti da crudeli fino a pensare, da sempre, che ‘Nero è bello!’ e che vale la pena stare dalla parte del ‘male assoluto’. Sempre dalla parte dei vinti, valorosi e mai domi…
Imparo a leggere e, all’età di otto anni, compro il mio primo libro al Palazzo dell’Esposizione in via Nazionale attratto dalla copertina a colori e da quell’indiano con il tomahawk levato al cielo, L’ultimo dei Mohicani di Fenimore Cooper (1826), prima del bel film, la notte il tripudio di stelle il cimitero della tribù. Lo conservo tuttora, salvato dal tempo e da un paio di traslochi. E sempre Emilio Salgari, letteratura nazional-popolare, romanzi su romanzi per pagarsi i debiti, la moglie folle, la tovaglia rossa sul tavolo zoppicante, mai stato per mare (una sola volta a Chioggia, mi pare) e sognare ad occhi aperti e far sognare ad occhi aperti ragazzi e adulti di più generazioni, l’isola di Mompracem il mare dei Caraibi l’India misteriosa e ogni parte di quel mondo aperto alla fantasia e all’avventura di cui nutrirsi alla faccia del cortile della strada polverosa della scuola con i suoi maestri pedanti e l’oratorio con la morale da pollaio. Il 25 aprile 1911 (meglio ricordare questo anniversario che quello fosco del ’45) lascia tre lettere, una ai figli una ai direttori dei giornali una ai suoi editori; prende il solito tram scende e si inoltra nel bosco di Val San Martino, dove portava la famiglia per i pic-nic; ha in tasca un rasoio. Lo trova casualmente una giovane lavandaia, andata a far legna, ha la gola e il ventre orribilmente squarciati (simile a un samurai, di cui non ebbe mai a scrivere, credo; come, sessant’anni dopo, un altro scrittore, Mishima Yukio).
Dopo il ciclo dei Pirati della Malesia, con Sandokan l’amico Yanez, il portoghese dall’’ennesima sigaretta’ e grande bevitore di tè, Marianna ‘la perla di Labuan’, una fitta schiera di personaggi sia buoni che malvagi, l’altra serie, cinque libri in tutto, famosa anch’essa e, secondo alcuni, migliore per costruzione narrativa e stile, è I Corsari delle Antille che si apre con Il Corsaro Nero (1898). Emilio di Roccabruna, signore di Ventimiglia, si dà alla pirateria, insieme ai due fratelli, per vendicarsi del tradimento operato dal ‘perfido olandese’, il duca fiammingo Wam Gould, che al soldo degli Spagnoli è stato causa dell’uccisione di un quarto fratello. In cambio costui ha ottenuto il titolo di governatore di Maracaibo e, dunque, lo scenario sono le Antille, i filibustieri, l’isola della Tortuga, le navi prese all’arrembaggio… E, di fronte ai corpi senza vita dei fratelli, impiccati dal suo nemico, pronti per essere seppelliti in mare (il Conte Verde e il Conte Rosso), Emilio pronuncia il giuramento ‘Uomini del mare! Uditemi! Io giuro su Dio, su queste onde che ci sono fedeli compagne e sulla mia anima, che non avrò pace sulla terra finchè non avrò vendicato i miei fratelli…’. Avventure intrighi ritmo incalzante il lettore trasportato in luoghi fascinosi e, al contempo, nelle tenebre oscure della foresta e del destino. Infatti Emilio si innamorerà – e ne sarà ricambiato – da una giovane nobildonna, Honorata, catturata su un galeone spagnolo. Felicità breve e interrotta dalla scoperta che essa è la figlia del ‘perfido olandese’. Pur con il cuore infranto, sentendosi crollare dentro ogni bene, ogni promessa di possibile felicità, Emilio attua il suo giuramento, abbandonando la fanciulla da sola su una scialuppa. E sono i suoi scanzonati e temibili filibustieri a mettere la parola fine al primo romanzo di questo ciclo con Carmaux che, rivolgendosi a Vam Stiller, dice: ‘Guarda lassù! Il Corsaro Nero piange!’…
E ti commuovi, facile alle lacrime… In Salgari, così preso dall’azione – costretto a scrivere e scrivere senza poter rileggere correggere, come si lamenta con un amico, assillato dagli editori e creditori –, rari gli stati d’animo i sentimenti profondi lo scavo intimista. Tutto si rende azione, sequenza cinematografica, i buoni i cattivi, anticipatore del film (peggiore) americano (con la notevole differenza che il film americano esalta i vincitori, gli uomini del successo, mentre Salgari conosce i vinti e ne riscatta la sconfitta). Ecco che, però, con una frase, un rigo, quasi si vergognasse d’un moto d’animo troppo palese, un nodo messo allo scoperto a denunciare il protagonista (e ogni protagonista è l’autore i suoi sogni le illusioni quanto si vorrebbe essere e non si sarà mai, come rilevava – sempre lui – il nostro amico Nietzsche). Così Sandokan, quella Tigre della Malesia che non muore, rinasce, si rigenera come la Fenice nonostante l’apparente sconfitta e la perdita di Marianna, la donna amata; così il Corsaro Nero, già nel nome datosi il segno di una guerra senza tregua, un collocarsi ai confini dell’umano per vendicarsi del disumano – ‘Che l’uccisore di draghi non si trasformi egli stesso in drago’ – sa nel silenzio e nel buio della notte dare sfogo al proprio dolore ( penso a E Nietzsche pianse, un libro suggestivo e filologicamente corretto di Irvin D. Yalom, Rizzoli 1993).
Johann Wilhelm von Archenholtz (1741-1813), nato a Langfuhr nella Prussia Orientale, nei pressi di Danzica, fu ufficiale agli ordini di Federico II il Grande, combattendo dal 1759 al ‘63 (da cui trarrà Geschichte des 7-Jaehrigen Krieges, Storia della Guerra dei Sette Anni, capace di penetrare a fondo nel cuore del popolo tedesco per l’efficace scrittura e i sentimenti di vivo patriottismo), ammiratore della Rivoluzione Francese e della Costituzione del 1791 – non il solo, si pensi ai futuri filosofi Schelling ed Hegel, studenti all’università di Tubinga, che furono segnalati dalla polizia per aver piantato un simbolico albero della libertà –, ma resosi avverso ai Giacobini se ne tornò in Germania divenendo direttore del periodico Medusa. Trovo su cartoni stesi sul marciapiede, di fronte alla statua del San Francesco, euro 1, la sua opera Storia dei filibustieri, edita in Italia nel 1935, Edizioni Mediolanum. E mi rammento come fosse uno dei tanti libri che rivestivano il lungo corridoio della nostra abitazione di Santa Maria Maggiore, uno dei tanti libri di cui mio padre faceva incetta e se ne tornava a casa tutto felice di condividerli con me e le mie sorelle. L’acquisto.
Così i romanzi di Emilio Salgari – nello specifico Il Corsaro Nero – si ritrovano con il saggio inizio Ottocento di uno sconosciuto o quasi ex ufficiale del Regno di Prussia, tasselli di quella storia di formazione culturale e non solo che mi appartiene. I filibustieri, corruzione del termine inglese free Booter, o ‘fratelli della costa’, come preferivano chiamarsi fra loro, entrano dunque nella storia con i loro capitani, coraggiosi e feroci, in quelle guerre in cui la Spagna, tra il Seicento e la prima metà del Settecento, invidia per i suoi possedimenti e ormai entrata in una crisi irreversibile, diviene oggetto da preda di spoliazione simile ad un gigante dai piedi d’argilla. Fra costoro emergono, dal generale anonimato, uomini come l’Olonese (citato sa Salgari) di cui si rammenta l’avventurosa conquista della città di Maracaibo, la crudeltà di cui diede prova ad esempio strappando il cuore ad un prigioniero e divorandolo simile a bestia predatrice, la fine orribile, catturato e squartato e mangiato da una tribù di Indiani. Oppure Morgan, ‘figlio di un ricco fattore del Galles, che, per il suo carattere selvaggio, la sua forza d’animo, la grandiosità e la durata delle sue imprese, come per la sua fortuna, sorpassò forse tutti gli altri Filibustieri’.
V’è in questa opera, accanto alle imprese compiute da questi corsari una velata, non troppo, ammirazione – ‘la storia succinta delle loro operazioni, coraggiose, gloriose pure se la gloria può accompagnare il brigantaggio’ –, che potrebbe stupire in uno storico che fu ufficiale e suddito di uno Stato, la Prussia, dove il senso dell’autorità la disciplina il dovere e l’amministrazione pubblica produssero quello che, in tempi più recenti, Werner Sombart chiamò ‘socialismo prussiano’. E’ che, ci sembra di intendere, von Archenholtz fa parte ancora di un mondo dove il coraggio la lealtà l’avventura sono valori da stimare in sé e non per la bandiera sotto la quale si collocano. Consegnare la spada quale segno di onorevole resa e rifiutarla quale rispettoso atto d’omaggio da parte del vincitore appariva atto nobile e dovuto…
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