17 Luglio 2024
Appunti di Storia Controstoria

Empoli, 1° marzo: il brodo di Carabiniere – prima parte – Giacinto Reale

“L’è inutile pigliarsela con i pesci piccini e che l’è meglio pescare quelli grossi, e, allora, via per Firenze, a cercarli”.

 

A Firenze, la mattina di domenica 27 febbraio, dopo averci pensato molto su, le Autorità concedono ai giovani liberali l’autorizzazione per un corteo che, con un paio di centinaio di ragazzi aderenti al neocostituito Gruppo Studentesco Liberale, superscortati da Carabinieri e Guardie Regie, intende percorrere i Lungarni e via Tornabuoni, fino a giungere in piazza Antinori.

Alla fine, a convincere il Prefetto è stata la considerazione della più che prevedibile natura “pacifica” della manifestazione. In piazza non ci saranno né i turbolenti agitatori “rossi” che per mesi hanno fatto da padroni in città, né i neocostituiti ma già vivaci nuclei fascisti, incendiatori di giornali.

I nomi di Amerigo Dumini, Umberto Banchelli, Bruno Frullini e Pirro Nenciolini stanno diventando famosi a Firenze, come quelli di coraggiosi che, con pochi altri, intendono “dare la paga” agli agitatori socialisti e ai sindacalisti della superattiva Camera del Lavoro.

Il fatto che, da un canto la loro presenza in piazza quella domenica mattina non sia prevista, e dall’altro che i giovani “moderati” che manifesteranno non sembrano essere obiettivo di ritorsioni avversarie, fa ritenere giusta la valutazione prefettizia. Le conseguenze di quella pacifica passeggiata saranno invece assolutamente imprevedibili, fino a segnare un momento decisivo nella storia della città, e non solo.

In piazza Antinori alcuni individui – tra i quali verranno poi identificati e condannati all’ergastolo due noti anarchici – prima lanciano una bomba e poi indirizzano alcuni colpi di rivoltella contro i manifestanti, facendo un morto (un Carabiniere) e una ventina di feriti, dei quali uno – Carlo Menabuoni, ventitreenne, reduce, aderente al Fascio – morirà dopo lunga agonia il 14 marzo.

Per lui l’appartenenza al Fascio è cosa certa, così come la sua partecipazione alle prime avventure squadriste. Basti la testimonianza di Giacomo Lombroso, in un articolo apparso su “La Riscossa”:

Ricordo. Pochi giorni prima della tragedia discorrevamo insieme, ed Egli mi disse scherzando: “Vedrai, che, a furia di fare il fascista, finirò per lasciarci la pelle. “

Povero amico! Chi avrebbe potuto mai pensare che una mano assassina avrebbe realizzato così presto la sua profezia?

Non eri caduto in guerra, dove avevi combattuto volontario fin dai primi giorni, eri sopravvissuto alle sofferenze di una lunga prigionia, e i vigliacchi d’Italia non ti hanno colpito in una di quelle battaglie per le vie e per le piazze in cui noi “scherani della borghesia” arrischiavamo cantando la nostra pelle “venduta” e in cui tu eri sempre il primo, sempre il più ardimentoso e il più entusiasta. (1)

 

Appena si sparge la notizia del fatto, che tutti – non solo i mussoliniani – interpretano come una ritorsione per la precedente distruzione del giornale socialista “La Difesa”, in piazza Ottaviani alla sede del Fascio, si adunano, già nel primissimo pomeriggio, alcune centinaia di uomini esasperati che, organizzati in gruppi (le squadre sono ancora “a composizione variabile”) si spargono per la città, intenzionati ad applicare la legge dell’“occhio per occhio, dente per dente”. A quelli (che poi formeranno la “Disperata”), reduci, in serata, da una spedizione a Castellina in Chianti, ci pensa Pirro Nenciolini, a riepilogare la situazione, prima di metterli di nuovo in strada:

Dunque, lasciatemi parlare, Dio immortale. Questa mattina alle nove, in piazza Antinori, alla chiesa di San Gaetano, loro tirano una bomba e un sacco di revolverate contro un gruppo di ragazzi delle scuole. Si vede che non avevano potuto digerire San Marco Vecchio e La Difesa, ma contro dei ragazzi, s’è detto, l’è un po’ troppo grossa.

Un poverino rimane secco, e parecchi per le terre sanguinanti a chiamare mamma che facevan schiantare. Dopo un pò, tanto per ristabilire la partita, in piazza del Duomo, alla Loggetta del Bigallo, un Carabiniere ne spedisce uno dei loro, ma si pensa che l’è inutile pigliarsela con i pesci piccini e che l’è meglio pescare quelli grossi, e, allora, via per Firenze, a cercarli, e, dato che col Lavagnini c’era un vecchio conto, insomma, sapete a quest’ora l’è bell’e che morto.

Ed ora si aspettava voi e quelli che sono andati a Pescia per ricominciare, ma questa volta si deve andare in fondo, Dio immortale, fino in fondo, perché a farla finita. (2)

L’episodio più grave della giornata è, comunque, già successo. Verso le 17, infatti, una squadra si è presentata alla sede del Sindacato Ferrovieri, che è contigua alla federazione Provinciale del Partito Comunista, appena aperta. Tre uomini son saliti, hanno trovato Spartaco Lavagnini e lo hanno ucciso, per rappresaglia.

Un episodio terribile che la giustificazione del giornale di Dumini, la “Sassaiola” (“Spartaco Lavagnini fu vittima di quella passione politica che sta al di sopra di ogni passione umana, perché è la somma di tutte le passioni impersonali e disinteressate, che ha nel passatole sue radici, e serba all’avvenire i suoi frutti”) non basta a coprire, e che sarà oggetto di cinica strumentalizzazione e intimidito silenzio.

Da un canto, i compagni della vittima ne faranno un eroe senza macchia, sottacendo che Lavagnini era, invece, nel suo ambiente, personaggio piuttosto controverso. Infatti, al Congresso di Livorno, pochi giorni prima, tra lui e Turati c’era stato uno scontro violentissimo, nato, secondo le cronache, dopo che il ferroviere fiorentino aveva interrotto il discorso del leader:

L’onorevole Modigliani, senza scomporsi, si rivolse verso il “puro” Lavagnini, e lo apostrofò: “Tu non hai diritto di parlare. Hai fatto il crumiro il 20 e il 21 luglio durante lo sciopero generale!”

Da ogni parte della sala fu gridato: “Fuori, fuori!” e poco mancò che il disgraziato “puro” non fosse messo alla porta del Congresso.

Spartaco Lavagnini non potè ribattere in modo alcuno l’invettiva dell’onorevole Modigliani, e nessuno dei compagni di fazione alzò la voce per sostenerlo.

L’episodio è stato riportato anche dall’ “Avanti”. (3)

Dall’altra parte, negli ambienti fascisti, pur rivendicando la liceità della vendetta, dopo i fatti di piazza Antinori, dell’episodio si preferirà parlare sempre poco, proprio per il suo carattere di azione “a freddo” che poco rientra in quelli che si vanno affermando come abituali schemi operativi squadristi.

È anche per questo che Roberto Cantagalli, ancora nel 1972, nella sua voluminosa – e faziosa – storia del fascismo fiorentino della vigilia, lamenterà che il nome del responsabile materiale non era mai stato fatto allora (le voci parleranno di un non meglio identificato “nobile”) e sia rimasto sconosciuto sempre.

E questa ammissione lascia qualche dubbio sulla drammatizzazione che “colorò” l’episodio, con particolare riferimento al particolare della sigaretta che la vittima stava fumando quando fu sorpreso dai suoi assassini e che, caduta a terra dopo i colpi di pistola, gli sarebbe poi stata rimessa tra le labbra, in segno di scherno.

Viene infatti naturale chiedersi come mai, se nessuno dei tre presenti abbia mai fatto il nome dello sparatore, uno di loro abbia invece ritenuto (autodenunciandosi così come presente) di rendere noto un dettaglio macabro come questo.

La voce della morte di Lavagnini si sparge immediatamente in città. Viene proclamato lo sciopero dei ferrovieri e quello dei tranvieri, i negozi chiudono per paura di rappresaglie, pattuglioni di Carabinieri e Guardie Regie vanno su e giù per le strade.

La notte del 27 Firenze ha un aspetto spettrale, illuminata a sprazzi dalle fotoelettriche dell’Esercito, mentre Oltrarno le strade vengono sbarrate con pietre e masserizie, fino a fare rudimentali barricate, rinforzate, ove possibile, da muri a secco eretti per l’occasione e presidiati da uomini armati.

La mattina seguente, i fascisti provano a prendere l’iniziativa. In piccoli gruppi, tentano sortite in continuazione, e si spostano da una parte all’altra, utilizzando anche una dozzina di camion “prelevati” da varie ditte, con grande gioia di quanti fino a quel momento erano stati costretti a spostarsi, di corsa, di qua e di là: ““E si potrà anche morire, senza che dolgano i piedi”.

L’obiettivo principale è penetrare in San Frediano. Ma bisogna, per questo, avventurarsi per viuzze nelle quali gli “estranei” sono fatti oggetto della fucileria avversaria da tetti e finestre.

In campo c’è la crema dello squadrismo cittadino. Frullini, sempre molto attento nelle citazioni, fa un elenchetto di una decina di nomi, fra i quali, oltre a lui e a Dumini, ci sono i soliti Gigi Pontecchi, Tullio Tamburini, ma anche Dino Perrone Compagni, Renato Nerbini (figlio di Giuseppe, il fondatore della omonima casa editrice), Erinne Bertolotti (che ritroveremo a Foiano), e Ezio Narbona (che sarà ferito sempre a Foiano).

Dietro di loro, la gran parte dei fascisti cittadini. Quelli che se la sentono, perlomeno. Tra essi un diciassettenne che farà strada, e che per l’occasione indossa la sua prima camicia nera:

Quando ordinai ad Ernesta una camicia tutta nera – era la prima per me, e ancora non ce n’erano molte in città – mi guardò sbalordita. Stava per domandare spiegazioni, ma, avendole passato un distintivo con teschio (“e questo me lo cucite sul petto”) subodorò qualcosa di tragico, e assicurò sveltamente:

“Va bene – mi raggiunse poi per le scale – signorino, la morte secca va a destra o a sinistra?”

Era il ’21, l’anno delle cannonate a Scandicci. Una sera, i due traversarono una Firenze stravolta. Gruppi in armi. I bottegai stavano sulle soglie, con a portata di mano la pertica per abbassare le saracinesche. (4)

La situazione è, comunque, molto grave, e minaccia di precipitare ed assumere toni ultrarivoluzionari. Quando si arriva allo scontro, emergono, infatti, fin dall’inizio, caratteri mai visti prima di crudezza e determinazione. Anche chi, da una parte e dall’altra, ha fatto la guerra, è impressionato da una pratica di violenza quale non si era mai riscontrata prima.

A molti è chiaro – ed emergerà poi anche in sede processuale – che il timore di spedizioni punitive fasciste è una scusa, perché non giustificherebbe l’estensione della sollevazione, e, soprattutto, gli episodi sanguinosi dei quali sono vittime gli uomini delle forze dell’ordine.

I feriti tra gli squadristi non mancano, ma neppure questo, come le oggettive difficoltà a sviluppare un’efficace azione di contrasto, è sufficiente a mettere di cattivo umore gli spiritacci in camicia nera, che di quelle giornate faranno oggetto di narrazioni scanzonate e beffarde.

Nel corso della giornata, comunque, la situazione va in stallo. A fronteggiare le barricate e i muretti a secco si cominciano a vedere i cannoni che vanno a posizionarsi sulla riva destra dell’Arno, dopo che, alle 14, la direzione delle operazioni è stata affidata all’Autorità militare. Questa sembra l’unica soluzione, considerato che neppure qualche autoblindo di Guardie Regie e Carabinieri è riuscita a superare gli sbarramenti, imbottigliata e bersagliata da oggetti di ogni tipo, anche molto pesanti, che le vengono lanciati contro da tetti e terrazzi.

L’organizzazione dei rivoltosi – a riprova del fatto che non si tratta di un moto completamente “spontaneo” – ha qualcosa di militare, con gruppi armati che si spostano, a seconda della necessità, da una barricata all’altra, e un vero ospedaletto da campo organizzato in piazza Tasso.

Di contro, ancora poco attivi, in assenza di ordini precisi, appaiono i militari del 69° e 84° Fanteria, di stanza in città, che pure sono mobilitati in strada.

Si arriva così alle 17,30, quando si verifica l’episodio di cui è vittima Giovanni Berta, già noto, e del quale qui non parleremo per ovvi motivi di spazio.

La notizia si diffonde subito in città, dove la rivolta non accenna a placarsi, anzi si diffonde, e coinvolge anche chi con essa non ha niente a che fare, come un innocente Brigadiere delle Guardie Regie che viene ucciso in un agguato a Varlungo, mentre, solo, rientra a casa.

La mattina dopo, le barricate sono ancora tutte in piedi, ed è possibile tirarle giù solo a colpi di cannone, senza avvicinarsi troppo, per non rischiare di cadere vittime del fuoco sovversivo.

I fascisti fanno quello che possono. Distruggono la Società di Mutuo Soccorso di Ripoli, attaccano la Casa del Popolo di Scandicci, incendiano la Camera del Lavoro e la sede della FIOM fiorentina, sostengono scontri un po’ dovunque, così che, alla fine, lamenteranno una trentina di feriti.

Sono giornate memorabili per gli uomini in camicia nera. Ancora una decina di anni dopo, Frullini ricorderà i fatti – sia pure esagerando nei toni, com’è nel suo temperamento – nel loro effettivo svolgimento.

Entrammo in San Frediano…

Gli spari si succedevano agli spari. Barricate di pietra, solidamente costruite difendevano le pance bolsceviche. Noi eravamo allo scoperto.

In via Camaldoli, io, Pontecchi, Giordano e Dumini, primi fra tutti, pieni di coraggio e di abnegazione, marciavamo sotto il grandinare dei colpi come non fossero a noi diretti.

Ma in piazza Torquato Tasso, accerchiati da ogni parte sotto la pioggia di proiettili di ogni genere, dai tetti e dalle finestre, come tegoli, lapidini, marmi da comodino, non ci restò altro da fare che rifugiarci in un portone, e, diveltolo dai cardini, lo mettemmo per traverso a mò di barricata, decisi a vendere cara la nostra pelle, ma ormai sicuri di non uscir vivi da quella bolgia.

Resistemmo due ore, e finalmente, quando le munizioni già ci facevano difetto e la folla era per slanciarsi all’ultimo assalto che avrebbe certo segnata la nostra fine, il provvido intervento di un’autoblinda guidata dal Tenente Pezza, ci tolse da così tragica situazione.

Ma ritornammo due, tre volte.

E corremmo alla carica ed all’assalto delle barricate. I nemici anziché attenderci, fuggivano. Eravamo venti, ma l’impeto nostro era degno di ventimila (5)

La situazione tornerà alla normalità la sera del primo marzo, con lo smantellamento delle barricate, e la sfilata in città dei militari reduci dall’aver “espugnato” San Frediano e Scandicci, tra le festose accoglienze della popolazione.

Il commento fascista alle tragiche giornate è – contrariamente a quanto ci si potesse aspettare – un invito alla riconciliazione, che escluda solo i faziosi bolscevichi anti-italiani:

In questi giorni abbiamo gridato CITTADINI A NOI! ora bisogna gridare ITALIANI A NOI!

Quelli che abbiamo colpito e punito sono sangue nostro, tutti redimibili, frutti di una Patria. Bisogna saper parlare loro ed amarli; essi intenderanno ed ameranno.

Il fiore delle forze fasciste è fatto di ex sovversivi; i bolscevichi di via dell’Agnolo e di Scandicci, cantano Bandiera Rossa con lo stesso nodo alla gola e la stessa tremante vibrazione ideale con cui i loro fratelli cantano “Giovinezza, Giovinezza”.

Impariamo gli accordi inespressi del loro canto, sappiamo ritrovare e riabbracciare i figli della stessa madre, i militi della stessa generosità. (6)

 

Essi non possono immaginare che, nelle stesse ore, una tragedia di più grandi dimensioni, si sta verificando nella vicina Empoli.

FOTO NR. 1: Carlo Menabuoni, la vittima fascista dell’agguato di piazza Antinori

FOTO NR. 2: Porta San Frediano

 

NOTE

  1. Pietro Valgiusti, Documentario di una tipografia della rivoluzione, pag. 118
  2. Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1922, Roma 1980, pag. 111
  3. “Sassaiola fiorentina” nr. 4 del 22 gennaio 1921, trafiletto intitolato “Modigliani bolla Lavagnini” in terza pagina
  4. Alessandro Pavolini, Scomparsa d’Angela, Pavia, ristampa 1995, pag. 71
  5. Bruno Frullini, Squadrismo fiorentino, Firenze 1933, pag. 170
  6. “Sassaiola fiorentina”, nr 10 del 5 marzo 1921, articolo intitolato “Il nemico vero” in prima pagina

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